Ciro non è “Cira” o una “ragazza lesbica”, è una persona trans. Lo volete capire o no?
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Nella notte tra venerdì e sabato scorso a Caivano, in provincia di Napoli, Maria Paola Gaglione è stata uccisa dal fratello Michele Antonio perché non accettava che da anni fosse fidanzata con Ciro, un ragazzo trans. Il trentenne ha inseguito la sorella e il compagno cercando insistentemente di farli cadere dal motorino su cui viaggiavano e speronando la vettura fino a farle perdere aderenza. Maria Paola è morta sul colpo, ma Michele non si è curato di soccorrerla, scagliandosi invece su Ciro, rimasto a terra ferito, colpendolo violentemente. “Volevo darle una lezione, non ucciderla. Ma era stata infettata”, ha riferito ai carabinieri. 

La notizia è stata subito riportata dai media italiani, che ancora una volta non hanno perso l’occasione per fare sfoggio del solito linguaggio transfobico: in primis l’Ansa, che ricordiamo essere la più importante agenzia di stampa italiana, e poi il Corriere, la Repubblica, il Mattino, il Messaggero, SkyTg24, News24, il Giornale di Sicilia, solo per citare alcune testate e far comprendere l’estensione del problema e della responsabilità. Nelle loro ricostruzioni la coppia era formata da “due amiche” che “avevano una relazione LGBT” (un giorno il Corriere ci spiegherà cosa vuol dire). Ciro è stato poi trasformato in “un’amica che da un po’ di tempo si fa chiamare al maschile” e al Tg1 e al Tg2 è stato appellato col nome di “Cira”. Quando va bene Ciro è semplicemente “un trans”.

La maggior parte dei giornali ne ha comunque parlato al femminile, non riconoscendo, di fatto, l’identità acquisita dal ragazzo. Probabilmente molti giornalisti hanno pensato che il grande pubblico – influenzato peraltro da decenni di linguaggio e toni discriminatori – stentasse a comprendere il movente dell’aggressione. E già questo sarebbe un problema non indifferente. Hanno così insistito con giri di parole confusi per fare capire che Ciro fosse “un’ex donna” e che era proprio questo “il problema”. Questo però è un grave e diffuso errore di misgendering, termine con cui si intende l’atto di parlare di una persona trans utilizzando gli articoli, le desinenze e i pronomi non corrispondenti alla sua identità di genere.

Due anni fa Twitter ha inserito il misgendering tra i crimini d’odio punibili dalla piattaforma. “A chi non lo sperimenta su di sé, può sembrare un dettaglio da poco ma venire chiamate (ripetutamente) con la desinenza o l’articolo errato può indurre disforia (il profondo disagio che la persona prova per alcune parti del proprio corpo), può far sentire le persone in pericolo (le donne trans vengono uccise e picchiate perché non sembrano abbastanza donne) ed è una forma di crudeltà inutile e una mancanza di rispetto”, aggiunge l’osservatorio Trans Media Watch Italia. “Per quanto ad alcune persone cisgender – nate con il genere di appartenenza coerente con il sesso assegnato alla nascita – possa apparire ininfluente, nel percorso di autodeterminazione di una persona trans l’essere nominata pubblicamente con il proprio nome e non con il dead name è piuttosto importante. Costituisce, infatti, una sorta di tutela e al contempo il riconoscimento e il rispetto (seppur esclusivamente formale) del genere scelto dalla persona stessa”, sottolinea l’editrice e sceneggiatrice Antonia Caruso.

Alcune testate si sono scusate per la mancanza di rispetto o hanno poi modificato gli articoli tentando di correggere gli errori presenti, spesso però con risultati ancora peggiori. Tuttavia le scuse ormai non sono più sufficienti: serve una presa di coscienza e un cambiamento radicale dei comportamenti. Il “Testo unico dei doveri del giornalista” prevede già l’obbligo di parlare delle persone con dignità e rispetto, ma nella realtà sembra non essere ancora valido, in particolare per alcune. Pochi mesi fa l’attivista Massimo Piagentini ha presentato un esposto all’Ordine dei giornalisti del Lazio per un articolo uscito sulla Gazzetta di Lucca in cui si offendeva una donna trans stabilendo che fosse “inequivocabilmente uomo”. L’istituzione ha però ritenuto di “non dover procedere nei confronti del giornalista, poiché non si riscontrano elementi contrastanti le norme di Deontologia e di Disciplina professionali”. Basta infatti cercare negli archivi dei principali giornali italiani per capire come il misgendering sia un atto sempre presente e ripetuto nel tempo. Solo nell’ultimo anno, per esempio, l’omicidio di Manuela De Cassia, il suicidio di Eduarda e l’uccisione di un’altra donna trans a Roma sono stati costantemente riportati in maniera errata. Inoltre, sono le uniche notizie presenti, perché le persone trans vengono raccontate solo quando uccise o nominate in contesti legati alla prostituzione. Considerate esclusivamente come soggetti passivi, non costituiscono quasi mai fonti dirette, anche nelle questioni che le riguardano direttamente. Lo spazio è sistematicamente lasciato agli oppressori, a cui invece viene lasciata voce. Non a caso si insiste nell’utilizzare la parola “trans” come sostantivo e non come aggettivo, come dimostra, per esempio, la pagina d’apertura di oggi del Corriere. Una scelta che deumanizza e stigmatizza le esperienze transgender e che richiama una serie di stereotipi calcificati nella nostra cultura, anche a causa delle modalità con cui negli anni le persone trans sono state rappresentate non solo dall’informazione, ma anche in tv e al cinema.

Negli Stati Uniti, per istruire i giornalisti è stata fondata la Trans Journalists Association, che ha predisposto delle linee guida sulle corrette modalità di narrazione, mentre nel Regno Unito, l’organizzazione All About Trans fondata nel 2011 offre alle aziende la possibilità di creare percorsi di incontro tra il personale e persone trans volontarie al fine di migliorare la rappresentazione della comunità tramite feedback diretti. Nel 2016 l’associazione italiana Gaynet aveva inoltre predisposto un documento composto da otto semplici regole da seguire per una comunicazione più inclusiva, ma non è stato mai considerato. Nell’era di Internet basterebbe davvero poco però per informarsi e sarebbe di fondamentale importanza che i giornalisti si sforzassero di non calpestare sistematicamente l’identità di genere delle persone trans, invalidandone l’esperienza e perpetuando di fatto una doppia violenza. Il nome d’elezione che scelgono deve essere considerato il loro vero nome, perché tale è, indipendentemente dal fatto che sia stato modificato legalmente o meno. Basterebbe, cioè, assicurarsi la veridicità delle informazioni prima di pubblicarle, esattamente come avviene – o dovrebbe avvenire – per qualunque altra notizia. 

Nel raccontare la storia di Ciro e Maria Paola, definendo il loro “un rapporto lesbico”, i media hanno inoltre confuso nuovamente i piani del sesso biologico, dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale. I tre elementi dagli studi di genere vengono ben distinti tra loro, e non sono certo riducibili alla mera tipologia di genitali di cui una persona è in possesso. Basterebbe studiare. Se il primo riguarda i caratteri sessuali con i quali una persona nasce, la seconda è l’esperienza soggettiva del percepirsi in quanto appartenenti a un genere piuttosto che a un altro (senza rientrare necessariamente nel binarismo uomo/donna). L’orientamento sessuale infine è definito dalla relazione tra il proprio sé e quello del soggetto desiderato. In questo senso, la relazione di cui si parla sembrerebbe peraltro di natura eterosessuale, non sapendo se Maria Paola si identificasse o meno come lesbica. L’ignoranza come sempre però porta a paura, violenza e a deliri mediatici collettivi.

La narrazione mediatica aggressiva e massimalista, esattamente come la violenza transfobica, è rappresentativa della cultura italiana, in cui la norma ciseterosessuale esclude qualsiasi altra esperienza e punto di vista. I corpi e le vite che non si adeguano vengono tacciati di devianza e se non ubbidiscono alle minacce tornando alla normalità o restando in silenzio vengono derisi ed esclusi, tramite un esercizio di riduzione “fascista” del reale. Per questo un ragazzo trans diventa “un’amica che si faceva chiamare Ciro”. Ampio spazio viene poi lasciato a chi minimizza la vicenda, come il parroco del paese che si rifiuta di definire “transfobica” la violenza, perché la famiglia di Maria Paola “forse non sa nemmeno cos’è”. Il problema sta proprio qui, nel non dare i nomi alle cose, e  nell’ignoranza usata come attenuante e giustificazione di un’azione orrenda. Non serve conoscere la definizione di omofobia per essere omofobi, perché i valori che la supportano sono parte integrante della cultura di odio alimentata sistematicamente nel nostro Paese – e non solo. La teorica femminista Monique Wittig, già negli anni Ottanta, la definiva “l’eterosessualità obbligatoria”: o sei etero, o per il mondo non esisti. Questo divieto di esistere al di là della norma è ciò che struttura la vita sociale e intellettuale, e che non permette di guardare oltre la propria esperienza. Quando scriviamo che Maria Paola è morta “per amore” riproduciamo una retorica che vede in ogni corpo, identità e relazione queer una scelta pericolosa. Non è però l’amore ad aver ucciso lei e ferito Ciro, ma l’odio della sua famiglia. Cambiare il focus è un passo dovuto.

Le modalità con cui i media rappresentano il mondo concorrono a definirlo nel nostro immaginario, e una sistematica narrazione di una certa realtà finisce per influenzare la realtà stessa a livello sociale. Queste narrazioni ingiuste, distorte e ostili discriminano e contribuiscono ad alimentare le violenze che poi raccontano. È un circolo vizioso in cui narrazione mediatica e valori eteropatriarcali si alimentano a vicenda. In un Paese in cui le terapie di conversazione non sono ancora state bandite e l’omosessualità viene vista come un virus, un vizio o un capriccio, l’idea dell’omicida Michele Antonio Gaglione, ovvero che spettasse a lui il potere di decidere della vita di Maria Paola, “infettata” da Ciro, mostra non solo quanto sia necessaria una legge contro la misoginia e l’omolesbobitransfobia, ma quanto sia urgente agire a livello culturale in tutte le sedi possibili. Educare a scuola e nei luoghi di lavoro, non discriminare, creare reti di supporto e assumere più persone trans.

“Se in passato, lo scandalo era la ‘devianza’, oggi ciò che preoccupa e spaventa, fino all’odio, è la possibilità di una, passateci il termine, normalità omosessuale e della sua realizzazione affettiva, familiare. L’omofobo di oggi vuole punire chi si permette di appartenere al tessuto sociale. Il problema, di nuovo, è la cittadinanza”, scrive il giornalista Simone Alliva nel libro inchiesta Caccia all’omo. “Alcuni di questi elementi sono chiaramente presenti anche nell’odio transfobico, a cui si aggiunge anche il disprezzo/paura per chi si permette di sovvertire un ‘ordine’ considerato universale: gli uomini sono maschi e le donne sono femmine. Una posizione normativa in cui natura e cultura vengono fatte coincidere: ogni deviazione sarà patologica immorale”. La violenza di genere è fortemente radicata nel nostro substrato culturale e per questo abbiamo bisogno di identificarla e parlarne correttamente. In questo, i media hanno un ruolo cruciale. È rispettando la materia di cui si parla, chiamando le cose col loro nome, affrontandole nella loro complessità e moderando il dibattito politico e mediatico in maniera etica che riusciremo a eradicare le discriminazioni e le vessazioni che alcune persone subiscono quotidianamente, e che a volte finiscono per essere fatali. Una società ingiusta è ingiusta per tutti, chi pensa di essere dalla parte dei sani, dei salvi, dei privilegiati è semplicemente troppo miope per capire che quelle stesse dinamiche che tollera o che attua un domani potrebbero riversarsi contro di lui.

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