Lo sviluppo tecnologico e scientifico si è spesso legato a guerre e persecuzioni di minoranze etniche: ciò che sta avvenendo in Xinjiang con l’oppressione della minoranza turcofona musulmana degli Uiguri ne è l’ennesima dimostrazione. Lo Xinjiang è una regione autonoma della Cina nord-occidentale con circa 25 milioni di abitanti. Il nome significa “Nuova Frontiera” e per questo molti sostenitori dell’indipendenza della regione preferiscono usare i nomi Uiguristan o Turkestan orientale, che invece il governo di Pechino e gli abitanti di etnia han, che sono il 41% della popolazione, considerano un affronto.
Di fronte ad alcuni attacchi terroristici avvenuti in Xinjiang negli ultimi anni, le autorità cinesi hanno attribuito la responsabilità alla popolazione uigura e ai gruppi separatisti musulmani, offrendo la sponda al presidente Xi Jinping per proclamare nel 2014 la campagna people’s war on terror in tutta la Cina e in particolare nella regione a maggioranza islamica. Con la scusa di combattere il terrorismo è stata avviata un’operazione di sottomissione degli uiguri islamici, con la volontà di reprimere la libera espressione del loro culto religioso e istituendo forme di controllo totalitarie.
La massima espressione di questa persecuzione è rappresentata dalle centinaia di campi di detenzione costituiti nella regione. In quelli che le autorità definiscono ufficialmente “campi di rieducazione” sarebbero già stati rinchiusi un milione di uiguri, stando ai dati forniti dal World Uyghur Congress nel 2018. Il governo cinese ha smentito questa affermazione, ma è stato contraddetto da diversi report, che hanno fatto luce sui maltrattamenti, le torture e le detenzioni arbitrarie, diventate una costante nello Xinjiang. Dopo il primo tentativo di negarne l’esistenza, Pechino è passata a descrivere i campi come un’opportunità che il Partito offre altruisticamente ai propri cittadini, a scopo rieducativo.
Il governo cinese, oltre ad aumentare le forze di polizia e dell’esercito, ha investito in modo massiccio anche nelle tecnologie per sviluppare IA e software per un controllo più efficace della popolazione. Diverse testate hanno riportato che gli uiguri sono obbligati a scaricare sui loro dispositivi l’app Jingwang Weishi (letteralmente “pulizia web”), in grado di analizzare audio, video e dati di vario tipo e inviarli a un server esterno. Se un file viene percepito come “pericoloso”, l’app invia automaticamente un messaggio alla persona che sta usando il telefono con l’ordine di cancellarlo. Oltre a questa, i cittadini sono spinti a utilizzare anche Citizen Security (Baixing Anquan), per inviare alla polizia informazioni su eventuali minacce alla pubblica sicurezza in cambio di ricompense. In alcuni casi, sono stati gli stessi agenti a bloccare le persone per strada per obbligarle a installare le applicazioni.
Le informazioni raccolte sarebbero poi coinvogliate nell’Integrated Joint Operations Platform (Ijop), uno dei principali sistemi che le autorità cinesi usano per la sorveglianza di massa. L’Ijop raccoglie dati in modo intensivo nello Xinjiang, ma lavora su tutto il territorio della Cina, sviluppando dossier dettagliatissimi: in alcuni casi vengono registrate azioni come non utilizzare la porta di ingresso per uscire di casa, non avere rapporti con i vicini, andare a fare benzina con una macchina non propria o consumare più energia elettrica della norma. Una serie di azioni simili può bastare per finire sotto indagine o essere internato in un campo di “rieducazione”.
La volontà e necessità di utilizzare forme di intelligenza artificiale e big data per attuare un controllo radicale nella regione, che nel corso degli anni è praticamente diventata una prigione a cielo aperto, è stata anche apertamente confermata da esponenti del governo nell’agosto 2018. Il meccanismo di controllo ha raggiunto livelli di efficienza tali da diventare un modello internazionale: ogni anno centinaia di agenzie governative e compagnie di molti Paesi, tra cui Stati Uniti, Francia e Israele, partecipano al China-Eurasia Security Expo di Urumqi, capitale dello Xinjiang, per aggiornarsi sulle novità nel settore. La people’s war on terror ha favorito la nascita di numerose startup nel campo, anche grazie all’investimento di 7,2 miliardi di dollari da parte del governo cinese per potenziare la sicurezza tecnologica nella regione. Sempre più spesso, è questo il Made in China che interessa all’estero: ad esempio, nel 2018 la startup cinese CloudWalk ha stretto un accordo con il governo dello Zimbabwe sulla vendita di un sistema di riconoscimento facciale per gestire la sicurezza nazionale del Paese africano.
La logica che la professoressa di Harvard Shoshana Zuboff espone in The age of surveillance capitalism per cui tutti i dati che i consumatori producono portano ad analisi sui nostri comportamenti e volontà future, in Xinjiang è portata all’estremo: per il governo cinese lo scopo dell’esistenza degli uiguri è generare dati che arrichiscano e perfezionino ulteriormente il sistema di monitoraggio. Gli abitanti di religione musulmana della regione sono usati come vere e proprie cavie da laboratorio, con il doppio vantaggio di sottometterli e di sviluppare la tecnologia sul campo. I loro tratti fisiognomici vengono identificati da sistemi di riconoscimento facciale così raffinati, che anche Google ha ammesso la superiorità cinese in questo campo.
In Xinjiang sono stati testati e messi in funzione anche droni di ultima generazione a forma di una colomba: dal l peso di circa 200 grammi, dotati di fotocamere ad alta definizione, Gps, meccanismi di invio dati in tempo reale e sistemi di controllo del volo, questi droni-colomba simulano la reale aerodinamica degli uccelli e il 90% dei loro movimenti. Sono anche così silenziosi che molti uccelli veri finiscono per volarci intorno, scambiandoli per loro simili. Anche se i droni colomba sono stati dislocati anche in altre aree della Cina, il numero utilizzato in Xinjiang è molto più massiccio e rischia di diventare un metro di paragone per molti altri Paesi che stanno sviluppando tecnologie analoghe.
Oltre alla sorveglianza dei dispositivi personali e dall’alto, il Paese sta sviluppando anche un sistema di controllo che rasenta “la lettura del pensiero”: in diverse aziende i dipendenti devono indossare dei cappelli che monitorano costantemente la loro attività cerebrale e le loro emozioni durante l’orario di lavoro, a livello ufficiale in un’ottica di miglioramento delle prestazioni e delle condizioni dei lavoratori.
Il monitoraggio intensivo dello Xinjiang non è limitato solo agli uiguri, ma coinvolge anche chi lo visita. Un’inchiesta del Guardian di luglio ha dimostrato come ai visitatori che entrano nella regione dal limitrofo Kirghizistan venga preso il telefono all’arrivo per installare un’app che estrae ogni tipo di informazione, senza nessun avvertimento da parte delle autorità cinesi. Il numero di dati raccolti in modo illegale sarebbe impressionante, se si considera che 100 milioni di persone visitano lo Xinjiang ogni anno: il confine Irkeshtam è quello più a Ovest della Cina ed è usato tanto per scopi commerciali quanto dai turisti che percorrono la Via della Seta. Edin Omanović, esponente del gruppo Privacy International, ha definito la procedura “molto allarmante in uno Stato dove scaricare l’app o l’articolo sbagliato può portarti all’internamento nei campi di detenzione”. L’app di sorveglianza cercherebbe informazioni di svariato tipo, dal digiunare durante il Ramadan ad ascoltare musica della band giapponese Unholy Grave, in particolare la canzone “sovversiva” Taiwan: Another China. Nella maggior parte dei casi l’app verrebbe disinstallata prima di restituire gli smartphone ai proprietari, ma alcuni viaggiatori l’hanno trovata ancora al termine dei controlli alla frontiera.
L’eccellenza cinese nelle nuove tecnologie di sorveglianza è stata raggiunta sulla pelle degli uiguri, nel silenzio e nell’indifferenza del mondo occidentale. La vendita dei sistemi di riconoscimento facciale sviluppati da Pechino è ormai un affare globale, come nel caso della Megvii Technology, azienda leader nel settore che sta per fare il suo esordio nel mercato europeo e statunitense. Ovviamente i pretesti che i governi utilizzano per la diffusione di questi sistemi sui propri territori sono sempre basati su questioni di sicurezza e identificazione di possibili criminali. Il confine tra la protezione dei cittadini e la loro osservazione sistematica è però molto sottile, soprattutto per la “voracità” con cui le IA tendono a raccogliere i nostri dati: più lo fanno e più affinano le loro capacità di accumulare informazioni.
La diffusione di tecniche di riconoscimento facciale in Cina è utilizzata anche per monitorare attività banali come quanta carta igienica viene usata nei bagni pubblici. In occidente non si è ancora arrivati a questa degenerazione: ad esempio, in Gran Bretagna vengono utilizzate dalle forze di polizia durante grandi eventi come festival, raduni o eventi sportivi. La cantante Taylor Swift le ha utilizzate durante i suoi concerti per riconoscere potenziali stalker. Nonostante il suo potenziale positivo, per l’avvocata per i diritti umani Martha Spurrier il riconoscimento facciale è una delle più grandi minacce alla libertà individuale, sia per l’intimità delle informazioni che vengono raccolte dallo Stato senza il consenso e la conoscenza del cittadino sia perché non si è a conoscenza di cosa venga fatto con queste informazioni. Anche se al momento la tecnologia fa ancora molti errori, in 9 casi su 10 secondo i dati forniti dalla polizia britannica, le IA stanno migliorando a ritmi sorprendenti: più sbagliano e più imparano, analizzando con sempre maggior precisione le nostre attività.
Le persecuzioni degli uiguri sono la dimostrazione di cosa può fare un regime illiberale dotandosi di simili tecnologie di sorveglianza. La velocità nel loro sviluppo rende ancora più urgente una riflessione nelle democrazie occidentali sulla necessità di dotarsi di leggi che definiscano in modo chiaro il confine tra sicurezza dei cittadini e la loro libertà.