Due anni fa lo scrittore francese Bruno Patino, direttore editoriale della rete televisiva Arte France e coordinatore della Scuola di giornalismo di Sciences PO, mandava alle stampe il suo saggio La memoria del pesce rosso. Come cavarsela in un mondo dove il tempo è la nuova moneta. (in originale: La civilisation du poisson rouge: Petit traité sur le marché de l’attention). Questo testo ha avuto il merito di scoperchiare un vaso di Pandora, indagando in maniera divulgativa i meccanismi che sottendono al cosiddetto “mercato dell’attenzione” e analizzando a fondo il tema dell’iperstimolazione tecnologica.
La ricerca di Patino prende le mosse da un attento esame della sua stessa “dieta tecnologica”, che gli ha consentito di rendersi conto di quanto il suo tempo fosse quotidianamente fagocitato, da un lato dal monte ore dedicato al lavoro e dall’altro da quell’enorme fattore di distrazione di massa rappresentato dallo smartphone. Nel 2018, Patino racconta di aver consultato il telefono 198mila volte, cioè 542 volte al giorno, 30 volte all’ora e una volta ogni 3 ore di sonno. Quest’attitudine allo scrolling compulsivo ha ridimensionato drasticamente il suo tempo medio di attenzione, riducendolo ad appena 9 secondi, appena un secondo in più rispetto alla soglia di concentrazione tipica del pesce rosso che dà il titolo al testo.
A partire da questa premessa, l’analisi di Patino allarga lo sguardo su diversi aspetti: come ad esempio la nomofobia, una condizione psicologica che può svilupparsi in tutti quei soggetti che manifestano l’irrazionale timore di rimanere separati per troppo tempo dal proprio smartphone, quel tipo di ansia generato dal restare privi di connessione per un certo periodo durante il quale non è possibile essere rintracciati; l’athazagorafobia digitale, ossia la paura di essere “dimenticati” o suscitare indifferenza sui social; ci sono poi tutti quei cortocircuiti logici connessi al divario che separa la nostra identità digitale da quella reale e le ripercussioni che questa vasta gamma di bisogni creati in maniera puramente artificiale esercita sulla qualità del sonno, ad esempio: un’indagine condotta nel dicembre del 2015 da Opinion Way su un campione di 1.013 francesi tra i 18 e i 65 anni ha evidenziato come 9 persone intervistate su 10 fossero abituate a utilizzare lo smartphone e altri device prima di andare a dormire, impiegando più tempo per addormentarsi e potendo recuperare le ore di sonno perdute soltanto durante il fine settimana.
Come sappiamo la pandemia ha esasperato questi processi, aumentando ulteriormente il potenziale pervasivo dell’iperstimolazione tecnologica a cui eravamo già costantemente sottoposti. Una tendenza riscontrabile in particolar modo nel caso dello smart working. Se infatti, da un lato, il telelavoro ha prodotto una serie di effetti positivi indiscutibili, dall’altro la creazione di una sostanziale indistinzione tra ambiente domestico e ambiente professionale ha reso per tanti ancora più sfumata quella linea di demarcazione – peraltro già molto sottile – che dovrebbe separare il tempo del lavoro da quello da dedicare al riposo e allo svago. La società attuale, in particolare nelle grandi città, ci induce a sottostimare l’importanza delle attività ricreative e a sfociare nell’iper-produttività, incentivando il cosiddetto workaholism, ossia il comportamento patologico di chi dedica la totalità del proprio tempo di vita al lavoro, escludendo qualsiasi attività che non faccia parte dell’ambito professionale in senso stretto. Alcuni, poi, sono semplicemente costretti a farlo, perché altrimenti non possono permettersi una sufficiente qualità della vita in determinati luoghi.
Davide Algeri, psicoterapeuta e direttore scientifico del Servizio italiano di psicologia online, ha paragonato il workaholism a una “dipendenza senza sostanze” che genera piacere, dato che provoca il rilascio della dopamina, la stessa sostanza che viene liberata dall’utilizzo di stupefacenti e dallo scrolling. Di conseguenza, quando il livello di questo ormone cala, il soggetto avverte la necessità di riprendere a lavorare il prima possibile e la mancata soddisfazione di questo stimolo “può generare livelli variabili d’ansia”. Ecco perché, come dimostrato da una ricerca condotta da un team di psicologi italiani pubblicata su Frontiers, la reperibilità 24 ore su 24, lo stato di connessione costante e la maggiore propensione a estendere la propria giornata lavorativa oltre le canoniche 8 ore sono aspetti da non sottovalutare in una corretta analisi degli effetti del lavoro agile. In questo contesto, mentre le ore dedicate al lavoro sono state interessate da una crescita ulteriore, quelle da riservare al sonno hanno continuato a diminuire.
L’insonnia, in Italia, sta diventando un problema sempre più urgente. Secondo l’Associazione Italiana di Medicina del Sonno (Aims), nel nostro Paese le persone che soffrono di disturbi del sonno ammontano a 12 milioni. Non si tratta di una novità: già nel 2019, una ricerca pubblicata sulla rivista Scientific Reports e condotta dai ricercatori dell’Istituto Superiore di Sanità aveva fotografato una situazione preoccupante. Nell’indagine venivano indicati due livelli distinti di scarsezza del sonno, ossia il “sonno insufficiente” (quello di durata uguale o inferiore alle 6 ore) e il “sonno insoddisfacente” (quello giudicato qualitativamente basso dagli intervistati). Anche se la media delle ore di sonno rilevata era pari a circa 7 per notte, il 30% delle 3.120 persone intervistate aveva dichiarato di non dormire per un numero sufficiente di ore, mentre il 14% aveva valutato il proprio sonno come insoddisfacente. Inoltre, l’insufficienza e l’insoddisfazione del sonno risultano direttamente proporzionali all’aumentare dell’età, mentre bassi livelli di istruzione e di reddito sembrano essere associati a maggiori problemi ad addormentarsi.
Con l’avvento della pandemia, questa tendenza non ha fatto altro che peggiorare: secondo le rilevazioni scaturite dal progetto Lost In Italy, il numero di persone che considera insoddisfacente la qualità del proprio sonno dopo il primo lockdown è aumentato del 128%. Un trend confermato anche da uno studio realizzato dall’Università dell’Aquila e pubblicato sul sito di Sleep, la rivista scientifica della Sleep Research Society: l’isolamento sociale e le limitazioni delle attività all’aperto hanno reso l’utilizzo di dispositivi elettronici – smartphone, computer, tablet e televisione – sempre più frequente, confermando una stretta correlazione tra insonnia e dipendenza digitale. La rilevazione, effettuata su un campione di 2.123 italiani che hanno risposto ad alcuni sondaggi durante la terza e la settima settimana del primo lockdown, ha dimostrato che i partecipanti che hanno aumentato la loro esposizione a smartphone e altri device hanno riscontrato un peggioramento nella qualità del sonno, scandito da sintomi di insonnia, riduzione della durata delle ore di riposo, aumento della latenza di addormentamento e orari di addormentamento e risveglio ritardati. Questi numeri danno sostanza all’intuizione del neurologo Giuseppe Plazzi che, nel suo saggio I tre fratelli che non dormivano mai, ha definito l’insonnia come “il motore di questo secolo che non dorme mai”, sottolineando un elemento che accomuna tutto il mondo – in particolare quello occidentale – ossia un “tempo preso d’assalto dalla frenesia del lavoro, dalla dipendenza dai social, dalla necessità di essere rapidi e multitasking in qualsiasi attività ci sia richiesta di compiere”.
Se vogliamo evitare che la distopia del Capitalism 24/7 diventi realtà, dobbiamo attivarci sin da subito per adottare le contromisure indispensabili per metterci al riparo da una bulimia tecnologica che, nel corso dell’ultimo anno e mezzo, si è esacerbata fino al paradosso. Da questo punto di vista, l’introduzione di un pieno “diritto alla disconnessione” rappresenta un’esigenza inderogabile: chi lavora dovrebbe poter contare sulla garanzia di non essere costantemente reperibile e godere della possibilità di non essere costretto a rispondere alle comunicazioni durante il periodo di riposo, senza che questo comprometta la sua situazione lavorativa. Questo è un obiettivo considerato di primaria importanza anche dal Parlamento Europeo che, con la Risoluzione dello scorso 21 gennaio, ha invitato gli Stati Membri a riconoscere il diritto alla disconnessione come fondamentale, dato che “L’essere costantemente connessi, insieme alle forti sollecitazioni sul lavoro e alla crescente aspettativa che i lavoratori siano raggiungibili in qualsiasi momento, può influire negativamente sui diritti fondamentali dei lavoratori, sull’equilibrio tra la loro vita professionale e la loro vita privata, nonché sulla loro salute fisica e mentale e sul loro benessere”.
Ricreare le condizioni che possano rendere effettivo il godimento di questo diritto, consentendo a tutte le persone di affrancarsi dalla dipendenza digitale, non è semplice: si tratta infatti di un ribaltamento di prospettiva che può avere dei costi non indifferenti, che richiede investimenti ingenti e la realizzazione di un vero e proprio mutamento culturale che possa trasformare il tema della disconnessione in un problema di sanità pubblica, ad esempio prevedendo la creazione di zone completamente “tech free” in cui ritagliarsi i propri spazi di libertà da ogni stimolo imposto dalla tecnologia. Una metamorfosi che dovrebbe investire anche le abitudini e i valori dei datori di lavoro, che dovrebbero impegnarsi in concreto per disincentivare la cultura tossica dell’always available, evitando ad esempio favoritismi nei confronti dei lavoratori che dovessero rinunciare alla disconnessione nella speranza di poterne ricavare un vantaggio competitivo.
Secondo alcuni, un’altra strada percorribile potrebbe essere quella di smettere di considerare la tecnologia come una dipendenza e iniziare a concepirla come un possibile strumento di cura. Da questo punto di vista, l’approccio noto come gamification – ossia l’applicazione di meccaniche ludiche ad attività che non hanno direttamente a che fare con il gioco – sembra promettere risvolti interessanti. Ad esempio, nel 2019, SeekrTech ha brevettato Sleep Town, un’app progettata per consentire agli utenti di diventare più consapevoli dell’importanza di non mortificare il proprio orologio biologico. L’obiettivo di Sleep Town, infatti, è quello di raggiungere un ritmo sogno-veglia regolare, attraverso un meccanismo semplice ma efficace: gli edifici che compongono la “città del sonno” che dà il nome all’app possono essere costruiti soltanto dormendo. Viceversa, se si riprende in mano lo smartphone oltre l’orario prestabilito, posticipando l’inizio del sonno, vengono distrutti. Quello di Sleep Town è un esempio concreto di come la tecnologia possa essere impiegata per invertire il trend che essa stessa ha contribuito a creare, trasformandosi in una specie di “auto-terapia”. Ma ci si chiede se un approccio simile possa davvero funzionare e ottenere risultati.
Soltanto mantenendo fermi i presupposti per la costruzione di una nuova “cultura dell’attenzione” che possa permetterci di riconquistare il tempo necessario a riflettere, sognare, dormire e ricostruire relazioni non avvelenate dalla dipendenza tecnologica, potremo cominciare a mettere in discussione un modello di sviluppo che ha dimostrato ampiamente di non prendere in considerazione il nostro benessere psicofisico, incentivando una cultura della produttività in cui siamo considerati e finiamo per considerarci lavoratori e lavoratrici prima ancora che persone.