Quando andavo in terza media, un gruppo di bulli rubò dei soldi a un uomo che chiedeva l’elemosina davanti al supermercato a pochi passi dalla nostra scuola. Uno di loro allungò la mano verso il cappello rovesciato e fregò alcune monete. Né il senzatetto, probabilmente anche cieco, né il cane di grossa taglia che ronfava accanto a lui reagirono, ma la notizia ebbe comunque una certa eco nell’ambiente scolastico. Con quelle monete i ragazzi erano riusciti a comprare un pacco di Gocciole e una Sprite. In quei giorni stavamo studiando la seconda guerra mondiale e la professoressa calcò la mano sul concetto di cattiveria. Fu un discorso quasi solenne, lo ricordo ancora oggi a ventun anni di distanza, e in quel momento cercai di capire come inserire i gesti di cattiveria quotidiana al cospetto di una montagna del male come l’Olocausto. Tutt’ora lo faccio. Le sfaccettature che può assumere la cattiveria ovviamente sono molteplici e di diversa origine: magari il giovane bullo assume certi comportamenti per farsi accettare dal branco, per paura di ripercussioni, per emulazione o perché in famiglia gli è stato insegnato così, o forse anche solo per il desiderio atavico di dominare l’altro e sentirsi forte, non avendo altri strumenti per rendere più solida la propria autostima. Eppure, tutte le forme di cattiveria sembrano essere trascinanti e contagiose, facendo leva sulla forza latente che tutti noi potenzialmente possediamo, ma che siamo stati educati a tenere a freno, dalla famiglia, dalla società, dalla scuola e dalla cultura. Certo, il ladro di monete non può essere paragonato a un gerarca nazista, così, dopo quella famosa lezione alle medie cercai di immaginare una scala di cattiveria che andasse dal compagno di banco dispettoso ad Adolf Eichmann.
Il tredicenne che deruba un mendicante cieco ci mostra che la cattiveria non è una questione anagrafica. William Golding, secondo cui “gli uomini producono il male come le api il miele”, scrisse Il signore delle mosche nel 1954 usando come protagonisti dei bambini e dei ragazzi, ed è uno dei libri più pregni di cattiveria che abbia mai letto. L’esperimento psicologico di Albert Bandura, condotto nel 1961, spiegò non a caso che anche i bambini possono diventare violenti e aggressivi se spronati da un adulto a imitare le sue mosse. Certo, negli adulti il sadismo può trasformarsi in un tratto distintivo, una caratteristica sedimentata e non più un’emulazione. E, secondo uno studio realizzato dallo psicologo Morten Moshagen dell’Università di Ulm, quel tratto ha un fattore comune presente potenzialmente in tutti noi. Analizzando un campione di più di 2mila e 500 persone, Moshagen ha teorizzato il cosiddetto “Fattore D”, ovvero la tendenza alla cattiveria a suddividersi in quelle che ha definito “nove caratteristiche oscure”: individualismo, egoismo, machiavellismo, narcisismo, superiorità psicologica, psicopatia, sadismo, interessi sociali e materiali, malevolenza. Per chi si chiedesse il significato di “superiorità psicologica” in relazione alla cattiveria, un esempio calzante potrebbe essere il protagonista di Delitto e castigo, il famoso romanzo di Dostoevksij. Raskolnikov, infatti, commette il suo duplice omicidio con la convinzione di poterlo affrontare in quanto “superuomo” e il suo tormento, il castigo appunto, risiede proprio nella consapevolezza di non avere alcun tipo di superiorità morale, di essere semplicemente “cattivo” come tutti.
Il termine originario – il latino captivus – indica un prigioniero, quindi una vittima e non un carnefice. Soltanto nel medioevo si è arrivati al significato che attribuiamo adesso alla parola, in quanto il cattivo veniva visto come una persona “abbandonata da Dio” e “imprigionata dal diavolo” (captivus diaboli), dunque un malvagio. In inglese la trasformazione lessicale è ancora più curiosa: si passa dal latino villa, la grande casa di campagna, ai villani che servivano il padrone. Se in italiano è rimasto un termine legato più alla rozzezza che alla cattiveria, in inglese il villain non è un campagnolo dai modi sgarbati, ma Voldemort o Sauron.
Il cinema e la letteratura hanno conferito al villain un’aura quasi legata al fascino, con molti casi di “redemption arc” in cui il cattivo si riscatta e compie dei gesti nobili per passare dall’altra parte della barricata. Quella che potremmo definire una sorta di “sindrome di Scrooge” è una visione romanticizzata, perché nella vita reale per il suo arco narrativo ci sono diversi paletti che impediscono la sua “riabilitazione”, su tutti le influenze dell’ambiente che lo circonda e in alcuni casi l’incapacità di rendersi conto della portata delle sue stesse azioni. Non saper riconoscere comportamenti “cattivi”, violenti, irrispettosi, menefreghisti o abusanti, o tollerarli e giustificarli, per non dire a volte addirittura ammirarli e subirne la fascinazione, dipende spesso dall’influenza di una narrazione esterna che distorce la realtà, fino a creare una percezione parallela per chi la assorbe. Eppure, se il male può essere indefinito e spaziare in un perimetro che, come definito dalla Treccani, viene misurato attraverso principi etici e morali, la cattiveria è più circoscritta, quasi didascalica. Sin da bambini siamo stati esortati a “non essere cattivi”, altrimenti Babbo Natale non ci avrebbe portato i regali, la Befana i dolci e l’Uomo nero sarebbe arrivato di notte a farci chissà cosa.
Quindi, la nostra educazione si basa sul monito, quasi sulla minaccia di non cedere alla cattiveria, una parola che non può essere associata solo ai dieci comandamenti cristiani o alle regole familiari per poter ottenere la paghetta settimanale. Sono immagini che hanno a che fare con la sfera della punizione, e spesso sono controproducenti. Un conto è punire umiliando, un conto invece è punire, ma rieducando. A questo proposito, pochi giorni fa lo stesso ministro dell’Istruzione e del Merito Valditara ha parlato di “umiliazione come fattore di crescita per i ragazzi”. Un’uscita infelice, figlia di una cultura punitiva di stampo fascista. Il castigo fine a se stesso, non serve a riabilitare chi sbaglia, non elimina il male, ma lo etichetta, senza possibilità di redenzione, facendo sì che chi compie un’azione cattiva si identifichi nel ruolo di persona cattiva, senza possibilità di cambiamento.
“La cattiveria di pochi è la disgrazia di molti”, scrisse il drammaturgo romano Publilio Siro. Basta infatti “la cattiveria” di una o più persone a far divampare il male. Le leggi razziali sotto il fascismo furono attuate in tutto il Paese ma scritte da poche persone, e per ordine di una sola; così come la guerra in Ucraina non è la manifestazione della cattiveria dell’intera popolazione russa, ma di Putin e della sua cerchia. Come spiegato ne La banalità del male da Hannah Arendt, il “mostro” non ha tratti disumani. Lo stesso Eichmann poteva essere chiunque: “Non era stupido, era semplicemente senza idee, e tale mancanza ne faceva un individuo predisposto a divenire uno dei più grandi criminali di quel periodo”. Un ritratto di un uomo banale, uniformato a una realtà che lo circondava: non il villain dei film o dei romanzi, ma un “semplice” essere umano.
Tornando alla mia professoressa di Storia, quel giorno ci raccontò come in Germania ci fu una vera e propria “epidemia di suicidi” al termine della guerra. Se i gerarchi nazisti lo attuarono per non consegnarsi al nemico, i normali cittadini tedeschi vi fecero spesso ricorso per un senso di colpa dettato da una cattiveria derivativa, come spiegato nel saggio Quando abbiamo smesso di capire il mondo, dello scrittore cileno Benjamin Labatut. A Berlino, nel solo aprile del 1945, si suicidarono 3mila 800 persone. In tutto il resto del Paese si tolsero la vita anche intere famiglie. Alcune scelsero di annegare nei fiumi e nei laghi, con le madri che riempivano di sassi gli zaini dei figli. Si giunse al paradosso dei soldati russi costretti a salvare i civili tedeschi impedendo diversi suicidi. In Germania, dopo aver scoperto l’orrore nei campi di sterminio, ci fu un sentimento collettivo che verteva su quella promessa fatta da bambini che non erano riusciti a mantenere. “Non essere cattivo”, appunto. Eppure non erano stati loro ad azionare direttamente una leva nelle camere a gas dei campi di concentramento o a premere sui grilletti. Erano comunque tedeschi, avevano creduto nel nazismo e dunque erano cattivi, considerati cattivi dal mondo intero. Non potevano sopportarlo.
Semmai il problema dei tedeschi sotto il nazismo era l’incapacità di comprendere le azioni di quel periodo. Se, per Arendt, non se ne rendeva conto fino in fondo nemmeno Eichmann, come potevano farlo dei cittadini qualsiasi? Accorgersi del male e non subirlo passivamente non è semplice, ma come singoli individui imparare a esercitare questa attenzione e agire contro il male quando lo riconosciamo, denunciandolo, è l’unica forma di protezione che possediamo. Martin Luther King, non a caso, diceva: “Ci pentiremo non solo per le parole e per le azioni delle persone cattive, ma per lo spaventoso silenzio delle persone buone”. Eppure la dicotomia buoni-cattivi ha svariate sfaccettature che non possono ridursi a semplicismi o a una catalogazione delle persone come se fossero creature fisse e inflessibili. Ultimamente ho sentito in un podcast una frase di Gipi venuta fuori dal nulla, come un’epifania: “Non è possibile essere brave persone, solo cercare di tenersi d’occhio”. Ovvero guardare a se stessi e alle proprie azioni e, al contempo, contestualizzarle e condannarle in un una realtà più ampia. Una realtà che i più grandi filosofi della storia hanno cercato di analizzare per capire le origini del male e il ruolo dell’essere umano al suo interno. Tra questi, in particolare, ci fu Rousseau che, secondo la sua dottrina “buon selvaggio”, pensava che l’uomo in origine fosse buono, pacifico, e venisse corrotto soltanto in seguito dalla società. Hobbes, suo predecessore, aveva invece una visione diametralmente opposta. L’homo homini lupus è hobbesiano è infatti ricollegato a una malvagità insitamente presente nell’essere umano, e la società, al contrario, limita il lato più aggressivo e violento dei singoli. Le ricerche contemporanee, per certi aspetti, hanno riconosciuto la validità di entrambe le posizioni.
Secondo uno dei più grandi scrittori viventi, Cormac McCarthy, “la cattiveria la puoi trovare anche nell’ultima delle creature, quando Dio ha fatto l’uomo doveva avere il diavolo accanto”. Il “captivus diaboli” di McCarthy è endemico: come nei suoi libri, può essere l’uomo più potente della Terra come un redneck texano che vive sgozzando le galline o, nella nostra realtà, chiunque di noi – il banale essere umano di Arendt – nella quotidianità. Sembra impossibile estirpare la cattiveria dal mondo, non ci può essere una liberazione in tal senso: come per i virus, dobbiamo convivere anche con quello della cattiveria, sapendo di averlo dentro e attorno a noi. Eppure possiamo evitare il contagio dando più rilevanza al bene e impegnandoci in prima persona a rispettare il prossimo, a essere gentili e a coltivare un solido senso civico, generosità ed empatia, contro tutto ciò che invece ci spingerebbe ad agire in maniera egoistica o conservativa. Certo, nel nostro piccolo, ognuno di noi ha ceduto a comportamenti maligni, lo sappiamo ed è normale, ma è importante allenare una sorta di radar, di consapevolezza per questo genere di atteggiamenti. Non abbiamo invaso la Polonia certo, ma probabilmente qualcuno di noi ha tradito un partner o un’amicizia, ha mentito, ha saltato una fila, ha insultato uno sconosciuto su Internet. Cattiveria da prescrizione, e forse fa parte della nostra natura, se ci affidiamo a Hobbes e non a Rousseau. Il singolo individuo, in questo fenomeno ha un ruolo fondamentale, perché è colui che plasma e costituisce la società in modo tangibile e particolare. Non potendo affidarci a un mondo utopico privo di male, è bene impegnarsi a non commetterlo nella quotidianità. Questo tipo di attenzione non impedirà mai a certe frange della crudeltà di manifestarsi, ma sicuramente le ridurrà, è solo dando “rilevanza al bene” che si può contrastare la “banalità del male”.