Sono cresciuto tra donne abituate a sopportare. Insulti, scoppi d’ira, urla, in qualche caso pure le botte. Da piccolo ho subito, non comprendendolo, lo strano, onnipervasivo, vizio secondo il quale nei rapporti tra maschi e femmine, si ritiene (da sempre) che i primi abbiano modi e inclinazioni che le seconde devono alla fin fine semplicemente accettare. Le donne della mia famiglia – e non solo – quasi sempre e nonostante tutto sono rimaste, hanno perdonato o fatto finta di niente. Che si trattasse di aggressioni verbali, psicologiche o fisiche, di tradimenti o manifestazioni sessuali inopportune, nella mia infanzia tra le case popolari dell’hinterland milanese di Rozzano ho maturato una certa familiarità con quelle dinamiche di potere che vanno sotto il nome di patriarcato. Gli sfottò, sessuali e non, erano all’ordine del giorno: a tavola, in strada, non c’era differenza. La libido maschile e i suoi corollari non erano tenuti a contenersi. Anche se ero un bambino me ne sono accorto presto: ai maschi, per cultura, viene concesso molto. Troppo. Anche perché c’è sempre sullo sfondo la differenza di forza fisica e stazza: il rifiuto, l’opposizione, il contrasto possono portare allo scontro. E in quel caso è prevedibile intuire chi avrà la meglio. Per non parlare del potere economico e della questione del giudizio altrui e della reputazione.
Anche per tutti questi motivi autobiografici, nell’ondata di denunce e polemiche scatenata dal caso Weinstein ho deciso da subito di stare dalla parte delle donne: la posta in gioco è troppo alta e la storia delle prevaricazioni e degli squilibri è lunga come quella dell’umanità. E, proprio per le cose che ho visto e sentito sin da quando ero piccolo, trovo impresentabile l’appello pubblicato ieri su Le Monde di cui tanto si sta parlando in queste ore. Il testo, firmato da cento donne, tra cui anche Catherine Deneuve, compie il solito errore di bollare come “ondata puritana” l’insieme delle reazioni innescate dagli scandali di Hollywood: “In nome di un presunto bene generale, il puritanesimo usa l’argomento della protezione delle donne e della loro emancipazione per incatenarlo a uno status di eterne vittime, di poverette in balia di demoni fallocrati, come all’epoca della caccia alle streghe.” Le firmatarie francesi vogliono distinguersi e si dicono “abbastanza mature” da “non confondere un goffo tentativo di rimorchio con un’aggressione.” I commenti compiaciuti che si trovano su Facebook sotto la notizia dell’appello di Le Monde restituiscono bene il contesto affettivo in cui l’appello si colloca: “Prima di uscire con una donna fatevi firmare una liberatoria…”; “Se vedo una donna in giro e le urlo “bella gnocca”, che fanno? Mi arrestano?”; “Se continua così non si potrà più stare da soli con una donna in un qualunque locale e le donne dovranno portare gonne lunghe e velo”; “Le talebane del sesso femminile hanno veramente rotto”. Le talebane del sesso femminile sono quelle che, secondo le cento firmatarie francesi, fraintendono il femminismo per mettere in atto una “caccia alle streghe”, pretendendo di sottrarre alle donne il piacere del gioco della seduzione e del corteggiamento. L’uomo deve essere libero di provarci, anche goffamente, anche insistentemente. Quando una non vuole dice di no. Fine.
Insomma le francesi reclamano la tradizione, il “così fan tutti”: il costume comune per il quale il corteggiamento comporta sempre e comunque una parte di aggressione o insistenza e può fare a meno – davvero o per finta – del consenso. Un modello sicuramente diffuso e consolidato, ma che forse ora stiamo provando a superare. E lo stiamo facendo anche proprio grazie a questi recenti scandali e al successivo flusso di #metoo, che hanno avuto il senso di diffondere l’idea che no, le cose non devono per forza andare come sono sempre andate. L’appello di Le Monde minimizza il problema e, in nome della libertà sessuale, tenta di restituire al maschile il suo predominio culturale: gli uomini nei rapporti con le donne non sono dei mostri, non vanno fermati, né educati. Il che qualche volta per fortuna è vero: ma è ingenuo (oppure ipocrita) non vedere il problema e la sua sterminata casistica, a livello pubblico e privato. Secondo Catherine Deneuve e le altre si è legittimate a denunciare solo se c’è stato l’agguato, solo se si è state aggredite, immobilizzate, penetrate contro il proprio volere. Il resto non conta, non esiste, non è degno di essere raccontato. Gli uomini hanno i loro modi e le donne che sanno stare al mondo amano anche l’uomo molestatore, hanno un gran pelo sullo stomaco: non si scandalizzano. Da noi in Italia tentativi del genere di minimizzare la questioni sono arrivati per esempio da Natalia Aspesi e Sandra Milo, da donne spesso avanti con gli anni, incapaci evidentemente di concepire un mondo senza gerarchie di genere.
Quella che le firmatarie francesi ritengono essere la normalità va chiamata per quello che è: abuso, molestia, aggressione. “Difendiamo la libertà di importunare indispensabile alla libertà sessuale.” Dubito che le signore vogliano le mani sul culo, il capo che si masturba loro davanti, il provino che diventa assalto, i messaggi con ricatto, le dick pics al posto del copione – perché è questo che è successo nei vari casi di cui si è parlato nelle ultime settimane – ma se davvero lo desiderano sono sicuro che almeno ancora per un bel po’ troveranno qualcuno pronto ad accontentarle. Il cambiamento è iniziato, ma il traguardo è ancora lontano. Per tutte le altre, per quelle che preferiscono, per esempio, avere il diritto di separare la vita lavorativa da quella sessuale, il fenomeno #metoo è stato importante e continua a esserlo, perché ha tracciato un precedente sociale macroscopico e contrario al senso di marcia della tradizione, al silenzio e alla connivenza che la società ha sempre offerto agli abusi di potere maschili.
“Lo stupro è un crimine, ma le avances insistenti o goffe non lo sono, né la galanteria è un’aggressione maschilista”: ma cosa c’è di galante nelle storie emerse da Weinstein in poi? I tweet e i post di #metoo raccontavano forse di galanterie non gradite? Quello che le firmatarie ignorano è proprio come si possa parlare di costrizione in assenza di costrizione fisica. Ma il problema è loro e loro soltanto: non sanno o fingono di non sapere. O forse non ricordano. La vulnerabilità di un’aspirante attrice di 20 anni certo è lontana anni luce dalla sensibilità di un’attrice affermata di 60 o 70 anni.
Non può esserci libertà di molestare, neppure se le signore in questione minimizzano il problema: non tutti i desideri sono leciti, alcuni sono espressione di una psiche fragile o solo rimasta un po’ indietro, non al passo coi tempi. Ritenere che limitare lo strapotere maschile leda la libertà sessuale manifesta un pensiero poco capace di apprezzare l’evoluzione della società. Il consenso deve essere una variabile necessaria e non equivocabile, al contrario di quello che è successo finora, soprattutto quando si trattava del corpo e del desiderio delle donne. I ragazzi e gli uomini non devono essere odiati, ma devono imparare ad ascoltare, a fermarsi e anche a rinunciare, quando è il caso. È questo che promuove la libertà sessuale. Di tutti.