Un possibile indice per verificare come funziona l’economia di un Paese è il mercato immobiliare. Molti economisti ritengono che il prezzo delle case sia un buon indicatore di ripresa economica, perché i centri storici delle città presentano un’offerta di abitazioni fissa, dato che non vi è consentito costruirne di nuove, eccetto casi particolari. Questo rende l’offerta estremamente rigida e quando la domanda di abitazioni inizia a crescere, il loro prezzo inevitabilmente sale.
Da qualche anno, turisti e cittadini si sono innamorati della sharing economy, di cui hanno scoperto la praticità e la possibilità di guadagno. Piattaforme come Airbnb, che consente di mettere in condivisione il proprio alloggio per brevi periodi, hanno conosciuto una vera e propria esplosione e anche per questa ragione cercare casa in città come Milano, Bologna o Firenze, dove studiare e lavorare e avere una vita sociale e culturale entusiasmante non sono due assiomi in assoluta contraddizione, è diventato un’impresa, un po’ come trovare il posto fisso o eseguire il triplo salto mortale all’indietro.
Il rapporto di SoloAffitti riporta che gli aumenti di prezzo delle abitazioni e delle residenze universitarie e lavorative si stanziano mediamente sul 4% rispetto all’anno scorso. I prezzi salgono vertiginosamente, non solo nelle grandi città: a Milano per una singola servono in media 563 euro al mese (+7% rispetto al 2017), a Bologna dai 350 ai 450 (+2%), a Trieste 275 euro (+20%), a Ferrara 225 (+6%), a Perugia 200 (+18%). Il costo di una stanza, però, supera facilmente anche i 600 euro al mese per chi si vuole avvicinare al centro storico o alle zone universitarie. In città come Roma e Bologna le mobilitazioni studentesche organizzate da collettivi come Link-sinistra universitaria e il Collettivo Universitario Autonomo hanno cercato di reagire a quello che è diventato un problema di matrice politica, oltre che economica, e che si accompagna a una stagione di “riqualificazione” di zone degradate in molte città italiane, attraverso manifestazioni, pranzi sociali e iniziative come il riuscito flash mob delle tende in piazza.
Sfratti di intere famiglie da case popolari, sgomberi di centri sociali, repressione di manifestazioni e iniziative sociali accompagnano il crescente caro affitti, come a segnalare che un certo tipo di cittadinanza, quella che vanta accenti diversi e non frequenta negozi chic e supermercati bio, non è più gradita. In risposta a chi cita la Thatcher e il suo “There is no alternative”, il collettivo Link pubblica online la controguida all’abitare per dare un primo supporto agli oltre 250mila studenti fuori sede che per la prima volta si preparano a cercare casa. Alessio Bottalico, coordinatore nazionale di Link, denuncia come non esistano politiche pubbliche per agevolare gli studenti, come le residenze universitarie a disposizione siano per lo più fatiscenti e i contratti d’affitto siano totalmente inadeguati rispetto alle possibilità economiche, tanto che chi cerca casa finisce per preferire soluzioni come il subaffitto e l’affitto in nero.
A incidere sull’invivibilità delle città universitarie è anche la presenza di troppi pochi studentati: secondo gli attivisti di Link, l’università dovrebbe muoversi in aiuto degli studenti adattando edifici sfitti e mettendoli a disposizione di chi ne ha bisogno a prezzi popolari. A questo proposito la proposta di Assoproprietari, l’Associazione Italiana Proprietari Immobiliari, a Bologna, è quella di riadattare i capannoni dismessi in studentati, perché, come spiega il presidente Tonino Veronesi: “Fermo restando il diritto dei proprietari immobiliari di decidere come utilizzare i loro beni, è chiaro che la città non può abdicare a essere un polo universitario di primo piano come universalmente riconosciuto per qualità e storia.”
Il caro affitti non è solo una questione economica: sempre più studenti denunciano di come per ottenere un banale posto letto ormai – come in tutte le grandi città europee – sia necessario superare provini degni di Hollywood. E a questo punto non si tratta più di essere in grado di garantire di poter pagare tutti i mesi l’affitto, o dimostrare di avere stili di vita non troppo sovversivi e abitudini igieniche accettabili, a questo punto, tutto si riduce alle idiosincrasie dei proprietari e all’impressione e al giudizio di una prima occhiata, di una stretta di mano. Ma la casa dovrebbe essere un diritto.
Alcuni studenti che ho intervistato mentre scrivevo questo articolo raccontano storie che rievocano il sospetto e i pregiudizi destati dai primi italiani emigrati negli Stati Uniti. Anna, 23 anni, ad esempio, mi parla dell’espressione scandalizzata dell’affittuaria di Pisa a cui aveva detto che qualche volta si sarebbe potuta fermare a dormire la sua fidanzata svizzera. Michele, 28 anni, mi racconta di padroni di casa fiorentini che dimostravano apertamente insofferenza verso il suo accento meridionale, scandalizzati dai suoi tatuaggi e dal septum, ma che davano ben poca attenzione alle ottime referenze delle sue precedenti esperienze di coabitazione. Gaia, 29 anni, descrive invece il profondo disagio provocatole dal padrone di casa bolognese che l’ha accolta in mutande per consegnarle le chiavi dicendole: “Spero che diventeremo amici, così ti verrò a trovare”. È ovvio che il privato non può sobbarcarsi un fenomeno del genere, o meglio, è ovvio che se il privato lo fa lo fa alle sue regole, e per un tornaconto economico di un certo tipo. Se in quanto proprietario di uno o più immobili, valuto che guadagno di più ad affittare attraverso Airbnb, in un sistema libero e capitalista ho il diritto di farlo. Dovrebbe quindi essere lo Stato a offrire alternative sociali, per salvaguardare i diritti di determinate fasce sociali.
Se la città diventa una merce, ridisegnata ad hoc per essere gustata, visitata e apprezzata in maniera sfuggente da visitatori in carriera e non vissuta da chi la abita, finisce per diventare un non luogo, dove nulla è più autentico, reale o tipico e tutto è sostituibile. È il caso di Bologna, la “City of Food” per chi se lo può permettere, dove lo sgombero di centri sociali come Atlantide, Labàs, Crash e lo sfratto di intere famiglie che abitavano edifici sfitti sono diventati la norma. A Porta Santo Stefano, dove per diciassette anni Atlantide ha ospitato laboratori e incontri culturali sulla diversità di genere, ora è visibile solo un portone murato. Al posto della palazzina occupata che un tempo ospitava la Telecom, dove fino a due anni fa vivevano famiglie in difficoltà, sorgerà uno Student Hotel, ovvero una struttura con spazio di co-working e ristorante che a dispetto del nome sembra pensato più per manager e imprenditori che per studenti. L’arredamento è patinato e impersonale, gli spazi di socialità sono ridotti a esercizi commerciali come bar e angoli vendita, non esistono più zone comuni come la classica cucina degli appartamenti dei fuori sede, dove il ciauscolo marchigiano, la polenta bergamasca e i pomodori sott’olio siciliani diventano amici. L’ex caserma Masini, di proprietà della Cassa Depositi e Prestiti, poi, da sede di progetti di cooperazione e volontariato come Accoglienza Degna e iniziative come Bottega Ribelle e Biblioteca Sociale, minacciava di essere venduta e di diventare un Airbnb.
In questo caso, la reputazione di “centro sociale buono” e ben frequentato ha lanciato a Labàs un salvagente nemmeno immaginabile per gli altri, visti come antagonisti sporchi cattivi e rumorosi, come Crash e Atlantide, per cui gli attivisti di Labàs avevano però manifestato solidarietà e sostegno. L’associazione “Nata per sciogliersi” appoggiata, fra gli altri, dal sindaco del Pd Virginio Merola, ha vinto una nuova sede di Vicolo Bolognetti tramite un apposito bando.
Il capoluogo emiliano è stato recentemente palcoscenico anche di un altro fenomeno strettamente collegato al caro affitti studentesco: l’oscuramento da parte dell’artista Blu dei suoi stessi murales. La mostra “Street Art. Banksy & Co. – L’arte allo stato urbano”, organizzata da Genus Bononiae con il sostegno della Fondazione Carisbo, annunciava di essere pronta a “Recuperare e conservare i murales per salvarli dalla demolizione e preservarli dall’ingiuria del tempo”, vendendo a soli tredici euro di biglietto di ingresso quello che prima costava al massimo una passeggiata. La cancellazione di Occupy Mordor, la battaglia fra due piccoli eserciti equipaggiati con maschere antigas e caschi anti sommossa, ha reso irriconoscibile XM24, ex mercato simbolo della Bolognina, ma, come ha lasciato scritto l’autore sull’intonaco, citando Pino Cacucci: “In nessun caso nessun rimorso”.
Blu agiva contro la museificazione dell’arte di strada, combattendo la mercificazione sfrenata di ciò che nasce con il preciso intento di essere collettivo e comunitario, in controtendenza con chi l’arte vuole privatizzarla, chiuderla, renderla un lusso per pochi. Che il blu diventi grigio è esattamente quello che sta succedendo nelle città universitarie che si svuotano di novità, controcultura e giovani e diventano sempre più di classe. Blu è il portavoce di chi si oppone alla gentrificazione e all’abbellimento, asserendo con un gesto che l’arte è più importante per il suo significato che per la sua bellezza, che abitare un luogo gli conferisce più importanza di renderlo gradevole e piacevole in cartolina. Se il gesto dello street artist di Senigallia conferisce al lavoro un’evoluzione che diventa parte integrante dell’opera d’arte, denunciare il caro affitti come una questione di classe significa lottare contro il rafforzamento delle differenze sociali e culturali e contro la dislocazione forzata di chi non può (o non può più) permettersi di studiare in città come Firenze, Bologna, Pisa.