La casa non sembra essere in cima alle priorità degli italiani: secondo una ricerca del 2018 patrocinata dal gruppo bancario Intesa Sanpaolo, nel nostro Paese quattro abitazioni su cinque sono di proprietà, confermando il “mattone” come principale bene di investimento delle famiglie.
Questo quadro, però, si complica se si osservano tre dati nel dettaglio. Primo: esistono 135 case ogni 100 nuclei familiari, un quarto delle quali vuote o sottoutilizzate, 15,5 miliardi di metri cubi costruiti contro un fabbisogno nazionale aggregato di 6,4 miliardi. E nonostante l’offerta potenziale di alloggi superi di 10 volte la domanda, si continua a costruire e occupare suolo. Secondo: il patrimonio immobiliare è sempre meno un investimento sicuro, dato che negli ultimi anni è sceso mediamente di valore di oltre il 15%, con picchi del 22% per le vecchie abitazioni. Terzo: le compravendite sono crollate a partire dal 2007, con uno stock di immobili invenduti che già nel 2014 raggiungeva il milione di unità, tra case nuove “ultimate o in via di ultimazione” ed edifici esistenti. Questo surplus è aggravato dal fatto che la metà delle nuove costruzioni in vendita è ancora oggi in classe G, la peggiore tra le classi di efficienza energetica previste dalle norme vigenti, mentre solo l’11% raggiunge la classificazione A o B.
Nonostante l’alto numero di case invendute o sfitte, cresce il numero di cittadini che non può permettersi un’abitazione dignitosa agli attuali prezzi di mercato. Così la questione abitativa e il diritto alla casa – inalienabile per l’articolo 47 della Costituzione – sono ancora oggi temi rilevanti e per i quali va cercata una soluzione al passo con i tempi.
Buona parte degli immobili italiani è stata realizzata a partire dal secondo Dopoguerra, quando il tema della casa per tutti ha lasciato in eredità milioni di metri cubi di edilizia scadente e obsoleta nel giro di pochi anni, nonostante il grande impiego di risorse pubbliche ed energie per realizzarla. L’obiettivo era dotare di case economiche e di facile realizzazione i milioni di lavoratori che si trasferivano dalle campagne nelle città, prima con la Legge Fanfani del 1949 e in seguito con una revisione della strategia di edilizia pubblica nazionale, realizzata in tutte le regioni italiane anche grazie a contributi obbligatori detratti dalle buste paga dei lavoratori. Questo processo pluridecennale da un lato produsse alcuni quartieri modello (come l’Unità Orizzontale di Adalberto Libera al Tuscolano di Roma, il nucleo Ina-Casa-Olivetti di Luigi Cosenza a Pozzuoli, il complesso di Forte Quezzi a Genova, il Quartiere Harar a Milano), ma dall’altro si tradusse spesso in una speculazione fondiaria selvaggia e nella creazione nel nulla di quartieri ghetto privi di servizi ed esclusi dalla vita cittadina.
La correzione di questa banalizzazione delle periferie e dello straniamento neorealista delle Case Fanfani fece ancora più danni, trasferendo nelle campagne italiane le teorie emergenti dell’architettura radicale, del brutalismo, del metabolismo e della città-territorio in modo dozzinale e approssimativo. Il risultato di questa nuova visione, così come per i grands ensembles francesi degli stessi anni, fu anche il motivo del suo fallimento: la grande dimensione – che intendeva rappresentare una nuova monumentale identità e un’alternativa radicale alla “notopia” delle periferie-dormitorio – trasformò queste visioni in problemi non risolvibili dalle istituzioni. I ciclopici interventi di Rozzol Melara a Trieste, Vigne Nuove e Corviale a Roma, Le Vele di Scampia, lo ZEN di Palermo sono ancora oggi un esempio di buoni propositi applicati con effetti devastanti sul territorio e sulle comunità. L’ambizione di poter creare nel nulla, per intervento statale, unità abitative economiche e identiche per decine di migliaia di persone tramontò in un breve periodo che lo storico dell’architettura Manfredo Tafuri definì “la breve stagione della febbre megastrutturale”. Nel nostro Paese questa battuta d’arresto non solo lasciò senza speranza di miglioramento milioni di metri cubi di edifici, ma condusse a guardare con sospetto qualsiasi idea di modernità nella trasformazione dello spazio urbano.
Negli anni seguenti, nonostante il grande sciopero nazionale del 1969 sul tema della casa organizzato da Cgil, Cisl e Uil, si sposta progressivamente la responsabilità della “casa per tutti” dallo Stato alle Regioni. Anche all’estero si ridimensionano gli organismi pubblici che fino ad allora avevano canalizzato risorse e idee per garantire case di qualità per tutti i cittadini, come il Council Housing program nel Regno Unito. Oggi gli alloggi economici si realizzano per singole operazioni immobiliari, abbandonando una visione unitaria — nazionale o anche solo metropolitana — di inclusione e integrazione concreta delle classi meno abbienti.
Con un sistema dove ormai le trasformazioni urbane seguono logiche di mercato, l’Italia ha bisogno di una nuova visione radicale, in cui una parte dei flussi economici deve essere ridistribuita a vantaggio di tutti, programmando nuove soluzioni a misura d’uomo e adatte al futuro sociale e abitativo del Paese.
Qualche esempio in questa direzione ha preso forma, come nel caso dell’Housing Sociale Cascina Merlata, firmata dallo studio B22: realizzata per alloggiare temporaneamente gli staff dei Paesi partecipanti a Expo 2015, è l’esito di un concorso per giovani progettisti under 35, e ospita 56 appartamenti distribuiti su 14 piani e servizi comunitari destinati agli abitanti del quartiere al piano terra. Sempre a Milano è in cantiere Redo Milano, uno “smart district” da oltre 70 milioni di euro e 615 alloggi di diverse dimensioni e tipologie, che contribuirà a riqualificare il quartiere Rogoredo Santa Giulia.
Superando i singoli progetti edilizi, una possibile strategia di ampio respiro l’ha tracciata Agenti Climatici, il progetto vincitore del bando per lo Scalo Farini di Milano, presentato dagli studi di architettura OMA, Laboratorio Permanente, Philippe Rahm Architectes, Vogt Landscape Architects, Ezio Micelli e altri. La loro visione per il futuro dell’ex scalo ferroviario prevede un cambio di priorità, con un focus sullo spazio pubblico dei parchi, dei percorsi e dei corsi d’acqua, intorno a cui sviluppare un tessuto di edifici più “urbano” e a misura di cittadini, tra cui una quota di housing sociale.
Nonostante la deriva speculativa che sta caratterizzando le economie avanzate ed emergenti del mondo, fuori dall’Italia non si è mai abbandonata la sperimentazione di nuovi modelli di intervento, con sinergie tra pubblico e privato nella realizzazione di abitazioni a costi ridotti e a impatto ambientale limitato. Il complesso progettato dallo studio BIG a Dortheavej, quartiere di Copenaghen, raggruppa 66 residenze a basso costo (1.300 euro al metro quadro) realizzate dall’associazione no profit Lejerbo, specializzata in housing democratico. La struttura in blocchi autoportanti sovrapposti ha dato vita a spazi di alta qualità, anche grazie a un mix di materiali come cemento grezzo, legno leggero e grandi vetrate panoramiche, e numerosi spazi comuni. Altro esempio è il complesso di trenta appartamenti White clouds, firmati da More+Poggi Architecture nella cittadina francese di Saintes: una composizione libera per blocchi con struttura metallica a sbalzo rende molto varia la disposizione dei singoli edifici, permettendo a ogni appartamento di godere del panorama esterno. Ma l’alternativa più promettente per creare unità abitative a basso costo è quella di riutilizzare le strutture esistenti degradate o in abbandono con una ristrutturazione mirata: hanno fatto scuola in questo campo gli interventi del duo Lacaton & Vassal su complessi di edilizia sociale francese, con progetti che non demoliscono, ma riqualificano ciò che c’è già sfruttandone le potenzialità e intercettando i bisogni degli abitanti.
I problemi irrisolti dell’edilizia pubblica italiana sono chiari da anni: relegate ai margini dei nuclei urbani, le “case per tutti” si sono viste negare la garanzia di una connessione continua e diretta con il centro delle città; la programmazione delle manutenzioni e del ciclo di vita degli edifici è stata del tutto trascurata; non sono state applicate politiche efficaci di integrazione sociale e funzionale; soprattutto, si è favorita la creazione per mano dello Stato di spazi degradati e alienanti, percepiti dagli stessi abitanti come abbandonati dalla legge e dal resto della società.
Ancora più che nel resto dell’Europa, l’Italia deve andare oltre la sua concezione passata di social housing. Superato il tempo degli alloggi standardizzati di massa, c’è bisogno di una nuova generazione di case, capaci di rappresentare – anche con il supporto di capitale privato, ma sempre seguendo un’agenda politica pubblica – un modello di visione delle città e della cittadinanza future aperte, sostenibili, sicure, connesse con i centri urbani e vive, mettendo fine alla realtà dei quartieri dormitorio.
Citando Bauman, per passare “dalla condizione cosmopolita a una vera e propria coscienza cosmopolita” serve anche la programmazione di un’edilizia residenziale capace di creare delle “staminali sociali”, non solo in periferia, ma anche all’interno degli attuali vuoti urbani nel cuore delle città. Per tutto questo servono una visione politica lungimirante e una gestione competente e preparata, in grado di coniugare esigenze del mercato e tutela senza compromessi dell’interesse pubblico. Soprattutto, bisogna tornare a guardare lontano, oltre la mediocrità e il tirare a campare di gran parte delle istituzioni e degli addetti ai lavori a cui siamo ormai abituati da troppo tempo. Qualcosa si sta muovendo, ma non dobbiamo più accettare compromessi, lasciandoci alle spalle l’etica del rammendo e la retorica vuota del greenwashing e tornando a pretendere che il Capitale contribuisca a risolvere i problemi che ha contribuito in larga parte a creare.