Le scuole italiane sono piene di studenti trans. È ora di tutelarne i diritti o saranno emarginati. - THE VISION

A Roma, uno studente trans è stato discriminato da un docente che si è rifiutato di ritirare il compito che il ragazzo aveva firmato con il suo nome d’elezione, affermando “Io davanti ho una donna”. L’esperienza di questo studente può sembrare un caso isolato, ma in realtà è molto più comune di quanto si pensi: ad aprile 2021 a un ragazzo trans è stato vietato di usare il bagno dei maschi al liceo “Gian Battista Vico” di Napoli. I suoi compagni hanno così proclamato tre giorni di sciopero e hanno aperto un profilo Instagram per denunciare l’accaduto; nell’ottobre 2020, al liceo “Tito Livio” di Padova, a un ragazzo transgender è invece stato negato di utilizzare il nome maschile nelle liste per la sua candidatura come rappresentante d’istituto. Dopo le proteste dello studente e dei suoi compagni, il preside ha dichiarato come non ci fosse “alcuna intenzione di discriminazione” e che né lui né la scuola erano a conoscenza della problematica legata all’identità di genere dietro la richiesta, ma nelle schede elettorali è rimasto il nome registrato all’anagrafe e non c’è stata nemmeno la possibilità di scrivere l’iniziale puntata. Il ragazzo ha dovuto così spiegare la situazione all’assemblea di istituto, circostanza che ha definito “un coming out forzato”. Per evitare situazioni come queste, nel corso degli ultimi anni diverse scuole e università si stanno attrezzando per attivare le cosiddette “carriere alias”, che permettono agli studenti trans di affrontare il percorso scolastico con documenti che riportano il nome di elezione e non più quello anagrafico, anche se non sono ancora stati cambiati ufficialmente.

La procedura per ottenere i nuovi documenti per una persona transgender, infatti, è lunga e complessa: in generale bisogna innanzitutto aver terminato il percorso di affermazione di genere – cioè aver assunto la terapia ormonale per un periodo prolungato nel tempo – per poter fare domanda al tribunale competente. In tale sede si dovrà affrontare una causa civile in cui il giudice stabilisce se la persona può cambiare nome e sesso sui documenti. In alcuni casi, si può tentare la richiesta anche senza aver completato la terapia e senza la diagnosi di disforia di genere, che peraltro nel 2019 è stata rimossa dall’Oms dalla lista dei disordini e malattie mentali. Fino al 2015 era necessario anche aver svolto le operazioni chirurgiche necessarie a cambiare i caratteri sessuali, ma alcune sentenze della Cassazione hanno stabilito che il processo di transizione si considera concluso quando una persona ha esercitato “in maniera definitiva il proprio diritto all’identità di genere (ad esempio, manifestando la propria condizione nella famiglia, nella rete degli affetti, nel luogo di lavoro, nelle formazioni di partecipazione politica e sociale), ancorché senza interventi farmacologici o chirurgici sui caratteri sessuali secondari”. A seguito del parere positivo del giudice, la sentenza deve passare in giudicato e solo allora, dopo che il Tribunale l’avrà trasmessa all’Ufficio dello Stato Civile del Comune di nascita della persona, si potrà richiedere una nuova carta di identità. Nell’attesa, le persone transgender devono convivere con dei documenti che non corrispondono più alla loro identità e al loro aspetto, fatto che può causare diversi problemi, dalle discriminazioni a ciò che lo studente padovano ha definito “coming out forzato” ogni volta che qualcuno si accorge della mancata corrispondenza. 

La scuola e l’università sono luoghi in cui nomi e documenti vanno esibiti in continuazione. Da qui l’importanza delle “carriere alias”, che il portale Universitrans definisce “un profilo burocratico alternativo e temporaneo, che sostituisce il nome anagrafico con quello adottato, almeno fino all’ufficiale rettifica anagrafica” valido all’interno delle università. Una volta attivato questo profilo, tutti i documenti presenti nei sistemi informatici dell’ateneo vengono automaticamente modificati, dal badge al libretto, fino alla mail istituzionale. Nel 2018 erano 32 gli atenei pubblici – quasi la metà del totale – a offrire la possibilità di usufruire della carriera alias. Nel 2019, durante un convegno dell’Università di Pisa, in cui la Conferenza nazionale degli organismi di parità delle università italiane ha ribadito la necessità di garantire il rispetto dell’identità di genere di studenti e professori all’interno degli atenei, è stata anche firmata una mozione che impegna le università italiane a introdurre le carriere alias per studenti, dottorandi e professori.

Il problema non riguarda però soltanto le università. Non si hanno stime ufficiali sulla popolazione trans in Italia, di cui è in corso un censimento, ma secondo l’Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere dal 2005 al 2018 sono 251 le famiglie italiane che si sono rivolte ai centri specialistici per bambini e adolescenti transgender. In Italia, infatti, un minore può accedere alla terapia ormonale solo con il consenso dei genitori dall’età di 16 anni, e finora sono stati pochi i casi in cui è stata anche avanzata la richiesta di cambiare i documenti. “Siamo sempre stati costretti a chiedere ai dirigenti scolastici come favore quello che invece è un diritto: essere chiamata in classe col suo nome femminile”, ha raccontato in un’intervista a Vanity Fair la madre di una ragazza transgender di 13 anni che si è rivolta al Tribunale di Ravenna nel luglio 2020. “L’altro neppure lo riconosce e sentirlo pronunciare le crea uno stress enorme. Mia figlia è e si sente una ragazza, si immagini l’effetto che le può fare essere chiamata all’appello o durante l’interrogazione con il nome di nascita, che non sente suo. Il rischio è che debba fare coming out ogni volta. Lei non deve vergognarsi di essere trangender, ma spetta a lei decidere quando parlarne”. Associazioni come Genderlens, inoltre, si battono affinché la carriera alias sia concessa senza bisogno di nessuna certificazione medica nel rispetto dell’autoaffermazione di genere degli studenti, proposta che per ora è stata accolta solo da poche scuole e università.

Per far fronte a situazioni di questo tipo, negli ultimi mesi le carriere alias sono state attivate anche da alcune scuole superiori, come il liceo artistico di via Ripetta a Roma, il “Michelangelo Buonarroti” di Latina o l’istituto tecnico “Giuseppe Cerboni” di Livorno. In questo contesto, l’Ufficio scolastico regionale del Lazio il 14 maggio ha diffuso delle linee guida scritte dal Centro ricerche e terapia della famiglia, del bambino e dell’adolescente Istituto Metafora in collaborazione con AGedO – Associazione genitori di omosessuali e GenderLens – collettivo di genitori di bambini gender creative. Oltre alla carriera alias, le linee guida raccomandano la formazione del personale scolastico e degli studenti sui temi di genere, l’attenzione al linguaggio e l’individuazione di bagni e spogliatoi “non connotati per genere”, in modo che non si ripetano situazioni come quelle del liceo di Napoli. La divulgazione del documento, come era facilmente prevedibile, ha scatenato accese polemiche sull’“ideologia gender”. Il sottosegretario all’Istruzione leghista Rossano Sasso le ha definite una “inaccettabile apertura sulla questione relativa all’identità di genere”, mentre l’europarlamentare leghista Simona Baldassarre ha parlato di un documento passato per la “manina” del “partito-gender”. Dopo le polemiche le linee guida sono state ritirate.

Chi si è opposto alle linee guida parla di indottrinamento nelle scuole, ma non è questo lo scopo delle carriere alias. L’esistenza di studenti e studentesse transgender non è una forma di propaganda politica, è una realtà già presente in tutta Italia e che, alle condizioni attuali, non viene né rispettata né tutelata. Proprio Sasso ha affermato che “bambini e ragazzi vanno accompagnati con amore e rispetto nell’educazione e nella formazione” su questi temi e che “non [vanno] trasformati in bersagli della propaganda politica”. Non esiste forma migliore di rispetto che il riconoscimento e il benessere di ogni situazione, specialmente da parte di un’istituzione come la scuola. “Qui non siamo davanti a questioni ‘etiche’, a scelte, ma a quello che ognuno di noi è”, ha spiegato AGedO in un comunicato. “È esattamente il contrario; nessuna manipolazione ma sostegno, empatia e supporto, in questo caso ed in tutti i casi in cui i nostri giovani possono averne bisogno, per vivere bene con loro stessi e in mezzo agli altri”.

Nel nostro Paese le persone trans devono essere pronte ad affrontare un rapporto difficoltoso e patologizzante con istituzioni che mettono continuamente in dubbio la loro validità e sincerità e che si accompagna a una narrazione mediatica che oscilla tra retorica del dolore e del degrado. Per questo la scuola, la prima delle istituzioni con cui ciascuno si confronta nella propria vita, dovrebbe diventare un esempio di inclusione e accettazione per tutta la società.

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