“Zingara, venduta, tossica, vattene in galera, drogata. Vai dalla Merkel, vergogna. Le manette!”, ma soprattutto: “Spero che ti violentino ‘sti negri”. E poi, ai deputati Pd presenti: “Vi devono violentare le mogli, ‘sti clandestini”. Oltre alla guardia di finanza e alla polizia, ad accogliere la capitana della Sea Watch 3 Carola Rackete c’erano anche loro, un gruppo di uomini che urlava questi insulti, ripresi in una diretta (ora rimossa) dalla pagina Facebook di Lega Lampedusa. Il giorno dopo la delegazione siciliana del partito di Matteo Salvini ha tentato di giustificarsi: “Il circolo ‘Lega Lampedusa’ vuole precisare che non ha niente a che fare con quelle frasi razziste e che condanniamo qualsiasi forma di razzismo”, tra l’altro senza fare alcun accenno alle minacce. Anche uno degli uomini ripresi nel video, rintracciato dai giornali, ha voluto scagiornarsi: “Ero ubriaco stanotte [ed] ero molto molto arrabbiato perché dei tunisini tre giorni prima avevano molestato la mia ragazza“. Che degli uomini, sotto l’effetto dell’alcool o più probabilmente della loro misoginia e del loro razzismo, si siano dati appuntamento nel cuore della notte appositamente per minacciare di stupro una donna e chi la difende, è il finale naturale di quello che da qualche giorno andava avanti su tutti i social: lo stupro virtuale di Carola Rackete.
Il fatto che Rackete sia stata minacciata di stupro non è certamente una casualità né un evento eccezionale. Solo qualche settimana fa, una donna rom era stata intimidita allo stesso modo da un militante di CasaPound durante gli scontri per le assegnazioni delle case popolari a Casal Bruciato, periferia romana. C’è una ragione precisa per cui quando si deve insultare una donna – che sia una “sbruffoncella” come Rackete o una persona la cui unica colpa è essere di un’etnia tra le più bistrattate dall’opinione pubblica – si sceglie la minaccia più infamante, ovvero quella della violenza sessuale. Si chiama “cultura dello stupro”, ed è quella che legittima e normalizza l’abuso nella nostra società.
Susan Brownmiller coniò questo termine nel libro del 1975 Contro la nostra volontà, segnando un nuovo corso nella teoria femminista e, più in generale, obbligando a un ripensamento di quello che intendiamo comunemente per “stupro”. Da sempre, la violenza sessuale era stata legata agli ormoni e alla perversione (infatti nel nostro ordinamento, fino al 1996 era un reato contro la morale e non contro la persona), mentre Brownmiller prova a darne una spiegazione più ampia: non si tratta di istinti o di natura, ma appunto di “cultura”, intesa come prodotto dell’azione dell’uomo. E poiché si tratta di un fatto culturale, lo stupro è sempre presente, come “un consapevole processo d’intimidazione mediante il quale tutti gli uomini mantengono tutte le donne in uno stato di paura”.
Lo stupro quindi non è solo l’aggressione di un uomo che ti aspetta in un vicolo buio – quello che i media ci fanno credere – ma è anche nelle parole, nei gesti, nelle minacce, nelle relazioni quotidiane. È anche un processo “consapevole”, nel senso che se andiamo sul molo di Lampedusa per augurare alla capitana della Sea Watch di essere violentata, lo facciamo coscientemente e intendiamo proprio quello: che ci fa piacere che la sua insolenza venga punita con l’umiliazione sessuale. È infine un processo che si serve dell’intimidazione come arma per mantenere le donne in uno stato di inferiorità, e il potere saldamente nelle mani degli uomini. Per Brownmiller, lo stupro costituisce infatti “la fondamentale arma offensiva dell’uomo contro la donna, il principale agente del volere di lui e della paura di lei”.
Le parole rivolte a Rackete sono ancor più significative nel momento in cui la minaccia di stupro diventa un modo per punirla del suo crimine, almeno di quello morale: essere stata insolente nei confronti dello Stato. Se l’ideologia dello stupro attribuisce la volontà agli uomini e la paura alle donne, è perché alle donne non è permesso agire, figuriamoci disobbedire. Rackete è una donna scomoda, che ha scelto di compiere un gesto dirompente. È passata all’azione e non è rimasta zitta o impaurita come vorrebbe l’ideologia maschilista. L’abuso fisico (e, in molti casi, la morte) è infatti solo l’ultimo gradino di una scala che inizia proprio dallo stato di passività in cui la cultura maschilista relega le donne. E quale atto più passivo esiste del subire uno stupro? È per questo che le donne attive, quelle che compiono qualcosa che disturba lo status quo come ha fatto Rackete, sono i bersagli perfetti: sono loro a essersi esposte al pericolo.
Ed è infatti questo l’altro sottotesto della cultura dello stupro: che, sotto sotto, alla donna piaccia. Anche a Rackete è stato detto: lei se li è andata a prendere apposta in Libia, chissà cosa ci ha fatto su quella barca. L’ideologia maschilista mira a convincere che il desiderio sessuale femminile corrisponda alla volontà di essere sottomessa da un uomo, anzi da più uomini. Perciò l’ossessione per questi rapporti sessuali di una donna bianca con uno o più uomini neri, condita con una buona dose di razzismo, continua a ricorrere nelle parole di chi insulta Rackete: non perché si crede che possa, come persona, scegliere liberamente di fare sesso con chi vuole, ma perché pensarla sottomessa al “branco” è perfettamente in linea con i pensieri di chi la vorrebbe violentata. Passiva, appunto, dominata. Anche l’auto-colpevolizzazione delle vittime di violenza secondo Brownmiller si spiega per le stesse ragioni. Quando una donna abusata si chiede: “Forse la mia minigonna era troppo corta?” sta facendo esattamente la stessa cosa: si chiede che cosa nel suo modo di agire abbia causato lo stupro, che cosa abbia scatenato il desiderio maschile. Si chiede se sarebbe stato meglio restare a casa, non dare troppa confidenza al suo aggressore. Pensa che sarebbe stato meglio non fare, anziché fare. E Rackete ha fatto, e soprattutto ha fatto contro un uomo, Matteo Salvini.
Ovviamente non si è arrivati a un tale livore da un giorno all’altro, ma c’è stato un lungo atto preparatorio di accanimento mediatico. Da quello “sbruffoncella” del ministro dell’Interno, all’insistenza con cui i giornali di destra hanno sottolineato che Rackete non è altro che una che fa la gradassa con “i soldi di papà”, per sottolineare ancora una volta che è inconcepibile che una giovane donna sia in grado, da sola, di fare una cosa simile, ma che debba sempre dipendere da un’autorità maschile. Oppure Il Messaggero, che fino a qualche giorno fa parlava della “pirata eroina della sinistra che gioca a fare il capitano grazie a papà”, salvo oggi parlare di “insulti choc” nei suoi confronti. Nessun giornale è andato a fare i conti in tasca al padre di Massimo Kothmeir, comandante della Diciotti, nessuno ha minacciato di violenza sessuale il comandante della Mare Jonio Pietro Marrone, tanto per citare altri casi in cui Salvini se l’è presa con le Ong.
Il caso della Sea Watch 3 ci mostra tutta la pervasività dell’ideologia maschilista: lo stupro virtuale di Rackete è una punizione, perché l’ideologia maschilista ci dice che il sesso per le donne non può essere altro che un atto passivo: la capitana deve imparare a stare al suo posto, esattamente come la donna rom che senza alcuna colpa ha preso (legittimamente) il posto di qualcun altro in un alloggio popolare a Casal Bruciato. Brownmiller insegna che la minaccia dello stupro è sempre latente, per dirci come ci dobbiamo comportare.
Molti uomini si sentono personalmente offesi quando si parla di “cultura dello stupro”, perché non si macchierebbero mai di un crimine tanto orrendo, o perché non vogliono sentirsi accostati a chi pensa, dice e commette queste cose. Ma è proprio perché parliamo di “cultura” che la responsabilità è, oltre che individuale, comune. Anche molte donne hanno augurato lo stupro a Carola Rackete, e non c’è da stupirsi: l’ideologia maschilista non è certo appannaggio degli uomini.
Per Brownmiller, è proprio la minaccia di stupro – la perpetrazione di uno stato di paura – che fa prosperare l’ideologia maschilista. E questa ideologia ci impone di stare zitte, di stare al nostro posto, di rigare dritto: secondo un rapporto delle Nazioni Unite, le donne sono le principali vittime della violenza verbale online, e la forma più diffusa di attacco nei loro confronti sono proprio le minacce di stupro. Come conseguenza, le donne preferiscono evitare di esporsi online e soprattutto di non esprimere posizioni politiche. In una parola, non fare.
Io, ad esempio, ho scritto un post sulla cultura dello stupro, e da giorni ricevo insulti sessisti da parte uomini, che mi assicurano che loro le donne le rispettano, mica come quelli che minacciano Carola Rackete. D’altronde, non tutti gli uomini sono stupratori, ma tutte le donne sono potenziali vittime, e gli insulti a Rackete sono l’ennesima prova che la cultura dello stupro è ben lontana dall’essere sconfitta.