La malattia mentale è ancora spesso considerata un tabù. Infatti, anche se al mondo sono centinaia di milioni le persone che soffrono di disturbi mentali non è molto comune sentirne parlare in modo diretto, soprattutto da chi ne soffre, ed è ancora più raro sentire parlare di cosa la malattia mentale comporti nel caso in cui il paziente sia anche un genitore. Eppure, secondo l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, “si stima che nel mondo 400 milioni di persone soffrano di depressione, 60 milioni di disturbo bipolare e 21 milioni di schizofrenia. Di questi, circa un quarto sono genitori”. Per capire come si traduce tutto ciò nella realtà quotidiana ci vengono in aiuto due associazioni che in Italia operano all’interno di questo ambito per fornire aiuto e assistenza.
L’associazione Contatto APS è impegnata dal 2004 sul territorio milanese nell’ambito della salute mentale per favorire percorsi di inclusione sociale e miglioramento della qualità della vita di persone affette da disturbi psichici. Tra i suoi interventi c’è il “Progetto Semola”, (e il portale, nato al suo interno, www.mybluebox.it), che dal 2009 si occupa di prevenzione del disagio psicologico nei figli tra i 6 e i 18 anni che vivono insieme a un genitore che soffre di un malessere psichico – riconosciuti a livello internazionale con la sigla COPMI, Children Of Parent With Mental Illness). Secondo l’associazione, “dalle ricerche internazionali si stima che il 15-23% dei bambini viva in una famiglia dove almeno un genitore soffre di un disturbo psichico e che questi minori abbiano una possibilità pari al 40-60% di sviluppare nel corso della loro vita un disagio di natura psichica”. A questo riguardo, il fattore di rischio principale è l’esposizione quotidiana al sintomo e al comportamento del genitore, senza possibilità di dargli un senso e comprenderlo.
Informare i figli delle dinamiche comportamentali che avvengono all’interno della famiglia e comprendere quale sia il vissuto del genitore che soffre di disturbi mentali, fornendo una comunicazione aperta sulle sue fragilità, diventa quindi uno tra i fattori di prevenzione maggiormente riconosciuti dalla comunità scientifica per il benessere dei minori. All’interno del percorso di cura del paziente vengono quindi inseriti dall’associazione degli interventi psicoeducativi che si rivolgono all’intera famiglia e prevedono colloqui con i genitori e con i figli in modo da raccogliere le loro opinioni sulla situazione, perseguendo obiettivi come l’aumento della consapevolezza dei genitori sul vissuto dei figli e l’informare i figli aiutandoli a comprendere quello che accade in famiglia, fornendo loro un insieme di informazioni che li protegga da false credenze e sensi di colpa che i bambini, in assenza di spiegazioni dell’adulto, tendono a produrre.
L’associazione COMIP, invece, creata nel 2017 da e per i figli di genitori con disturbi mentali, è impegnata nel sensibilizzare e informare sul vissuto di giovani e adulti caregiver che hanno uno o entrambi i genitori affetti da disturbi psichici. L’obiettivo è quello di eliminare lo stigma che circonda la salute mentale e fare advocacy a livello istituzionale, in Italia e in Europa, per ottenere maggiori investimenti riguardo alla prevenzione e alla psicoterapia, in modo da renderla più accessibile e potenziare i servizi territoriali di comunità. Organizzano inoltre eventi e permettono a figli in difficoltà, giovani e adulti, di confrontarsi sul gruppo di auto mutuo aiuto online a loro dedicato, fondato da Stefania Buoni nel 2011.
Stefania ha raccontato a The Vision cosa significhi per lei essere figlia di genitori affetti da malattia mentale. “È una domanda complessa, perché a seconda delle età che ho attraversato il significato è cambiato. Quando ero adolescente e la malattia dei miei genitori non era ancora stata diagnosticata e non erano in cura, quello che si viveva in casa mi faceva molta paura e mi faceva sentire impotente. I conflitti genitoriali, la difficile separazione dei miei, i cambiamenti drastici delle abitudini quotidiane, l’impossibilità di invitare gli amici a casa, l’alternanza di momenti depressivi a crisi psicotiche con deliri e allucinazioni, il non sapere come e a chi chiedere aiuto, il dover fare i conti con il fatto che i miei genitori, pur amandomi, non riuscivano più a esserci per me al cento per cento a causa della loro stessa sofferenza, il dovermi occupare soprattutto io delle faccende domestiche quando loro non erano in grado di farlo, la paura che facessero del male a se stessi, le conseguenze anche economiche della sofferenza psichica, il senso di colpa nel pensare alla mia vita, quando loro stavano male: tutto questo era un carico davvero enorme da portare per i miei quindici, sedici, diciassette anni. Ma anche gli anni universitari, nei periodi di ricaduta della malattia, sono stati duri. Poi, per fortuna, la situazione si è stabilizzata e oggi che sono adulta il prendersi cura ha assunto altre forme. La componente emotiva della cura è predominante. Adesso, da alcuni anni, è emersa soprattutto l’urgenza di dovermi prendere cura di me stessa, attraverso la psicoterapia, per sanare tantissimi strati di ferite emotive che si sono accumulate nel tempo. Questa è la parte forse più faticosa, in termini di tempo, denaro ed energie, ma l’unica possibile per riguadagnare un po’ di serenità”.
Per Aurora, un membro del gruppo di auto mutuo aiuto online fondato da Stefania, che invece preferisce non essere chiamata con il suo nome reale, ha significato “convivere con la sensazione di essere sempre in allerta da qualche pericolo, aver sviluppato un forte senso di responsabilità verso i bisogni altrui troppo presto. Cercare di accettare di essere impotente davanti a tanta tristezza e dolore, di essere stata per poco tempo figlia” e, aggiunge, di “aver messo per parecchio tempo i bisogni del mio genitore e della mia famiglia originaria prima dei miei, e aver sviluppato forti sensi di colpa nel momento in cui mi sono allontanata emotivamente da questa”. Per Stefania l’aspetto peggiore è stato “il peso del silenzio. Perché il tabù sulla salute mentale è talmente grande che di quello che stavo passando in famiglia non si poteva parlare. Questo mi ha portato a provare un’enorme solitudine, anche in mezzo agli altri, a perdere interesse nello studio e non poter spiegare ai professori il perché e a cercare di stare il più possibile fuori casa per ridurre i momenti che dovevo trascorrere in uno stato di allerta e timore”.
“Un altro aspetto davvero terribile,” continua Stefania, “è che, se il tuo genitore non ha consapevolezza della sua malattia – e questo può capitare, specialmente all’inizio, con disturbi come il disturbo bipolare, il disturbo schizoaffettivo e la schizofrenia – è molto difficile, se non impossibile, ottenere aiuto. Il più delle volte si deve arrivare al limite e a correre grandi pericoli, sia per il genitore che per i figli, prima che intervenga qualcuno. E non è detto poi che l’intervento sia efficace. Manca ancora un approccio preventivo e di psicoeducazione sulla salute mentale e lo Stato investe ancora troppo poco su servizi territoriali di comunità e psicoterapia. I medici di base sono spesso poco preparati su queste malattie e i figli, durante l’infanzia e l’adolescenza in particolar modo, in questi casi sono spesso lasciati completamente soli, se manca un punto di riferimento in grado di sostenere noi e le nostre famiglie. Questo mi ha portato ad attivarmi in prima persona per rompere il silenzio e parlare nelle scuole di salute mentale e di cosa vuol dire essere un giovane caregiver”.
Alla domanda se esistano dei lati positivi di questa situazione, Stefania risponde che “è una domanda difficile, perché quando si è immersi nel problema è molto complicato vederli, ma anche dopo, nel lungo percorso di guarigione, si attraversano diverse fasi e talvolta ci si dimentica di fermarsi e accogliere anche i lati positivi. Ma si può sviluppare una maggiore capacità di cavarsela in situazioni difficili, una disposizione d’animo a sfidare lo status quo, un’intelligenza emotiva e creativa, una maggiore tolleranza delle differenze, o una predisposizione ai lavori socialmente utili, ad esempio. Sicuramente un vissuto come il nostro può contribuire a farci sviluppare una maggiore empatia. Quello su cui poi personalmente ho dovuto lavorare è l’autoempatia. Se ci si è abituati a sintonizzarsi soprattutto sui bisogni del tuo genitore come meccanismo automatico di sopravvivenza è molto probabile che nella vita la tua empatia sia troppo sbilanciata verso le altre persone, tanto da arrivare a trascurare o non sentire affatto i tuoi bisogni. Questo può avere conseguenze sulla tua vita in termini di salute, fisica e/o mentale. A me è successo e continua a succedere ancora oggi. Il lato positivo è che, avendo visto le conseguenze del non sapersi prendere cura di questi aspetti da parte dei miei genitori – anche perché mancava al tempo una cultura in questo senso – sono molto più pronta a cogliere questi segnali in tempo e chiedere aiuto specialistico per ritrovare il benessere”. Anche per Aurora, l’aver “sviluppato l’ascolto verso gli altri e il senso di responsabilità, se dosati con equilibrio, possono risultare buoni pregi”. “La situazione [che ho dovuto vivere] mi ha portata ad avvicinarmi alla psicologia, che per me è una fonte inesauribile di ispirazione e di speranza”.
Secondo l’Associazione Contatto, l’avvento della pandemia ha ridotto la possibilità per i minori di implementare le loro risorse relazionali e accedere a contesti protettivi esterni alla famiglia. L’informazione e la sensibilizzazione sulla tematica sono l’unica arma per combattere lo stigma che ancora avvolge il disturbo mentale. Una maggior diffusione dell’argomento tra gli adulti potrebbe gradualmente facilitare anche nei più piccoli la comprensione della tematica e l’accesso ai servizi di cura. Queste realtà sono nascoste ma esistono, sono anzi molto diffuse, per questo è necessario portarle alla luce e dedicare loro l’attenzione che meritano.