Lo scorso 26 giugno Cesare Battisti, ex membro dei Pac (Proletari Armati per il Comunismo) che sta scontando l’ergastolo per quattro omicidi, è stato trasferito dal carcere di massima sicurezza di Rossano a quello di Ferrara, interrompendo uno sciopero della fame durato quasi un mese che lo aveva portato a non reggersi in piedi e a perdere più di dieci chili di peso.
Secondo alcune fonti interne all’amministrazione penitenziaria, il trasferimento è stato disposto a causa di alcune condizioni di potenziale rischio per la sua sicurezza. Nell’ultimo periodo, nella sezione in cui Battisti era recluso, si sarebbe infatti creato un “clima di possibile tensione”, dovuto anche alla particolare natura dell’istituto penitenziario di Rossano, dove sono detenuti quasi esclusivamente terroristi legati al radicalismo di matrice islamica, contro i quali Battisti ha spesso espresso durissime critiche. In una lettera dettata al telefono a sua figlia e pubblicata dal periodico francese L’Obs, Battisti ha palesato i trattamenti inumani a cui è stato sottoposto nell’ultimo anno di detenzione, spiegando che la struttura calabrese “è concepita con un fine esclusivamente punitivo”.“L’As 2 di Rossano è una tomba, lo sanno tutti,” ha dichiarato. “È l’unico reparto sprovvisto persino di mattonelle e servizi igienici decenti, dove nessun operatore sociale mette piede. Il famigerato portone ‘Antro Isis’ è tabù perfino per il cappellano, che finora ha regolarmente ignorato le mie richieste di colloquio”.
Battisti ha inoltre lamentato gravissimi problemi di integrazione e un’assoluta mancanza di socialità che lo hanno costretto, di fatto, all’isolamento sociale.
Anche l’avvocato Davide Steccanella ha denunciato a più riprese le infime condizioni in cui il proprio assistito era costretto a versare, evidenziando come Battisti fosse rinchiuso in una cella “minuscola” e “priva di luce solare” e sostenendo che nel carcere di Rossano fosse “privato della possibilità di svolgere attività alcuna, compresa l’ora d’aria per camminare”. Una situazione aggravata dal fatto che, dopo aver scontato i 6 mesi di isolamento previsti dalla legge, dal giugno del 2019 Battisti avrebbe dovuto essere detenuto in regime ordinario.
Nelle ultime settimane il dibattito sullo sciopero della fame intrapreso da Cesare Battisti – che avrebbe potuto stimolare una riflessione critica sui diritti, sistematicamente violati, dei detenuti – è stato quasi interamente fagocitato da alcuni giornali di destra, che si sono impegnati in tutti i modi per legittimare una narrazione totalmente distorta, secondo la quale l’ex terrorista “proprio non la smette di frignare” e il suo appello a una carcerazione più dignitosa non sarebbe altro che “un esercizio in bilico tra realtà e controsenso”. Queste prese di posizione non dovrebbero stupire più di tanto, dato che quella dell’incarcerazione di Battisti è stata una questione gestita nel peggiore dei modi sin dall’inizio. Basti pensare alla triste pantomima messa in scena da Matteo Salvini e Alfonso Bonafede in quel pomeriggio surreale del 14 gennaio del 2019: dopo l’arresto in Bolivia e la successiva estradizione in Italia, i due ex ministri andarono a ricevere Battisti a Ciampino – il primo vestito da poliziotto – con tanto di televisioni e organi di partito al seguito, esibendosi in cerimoniale giustizialista degno del peggiore tra i regimi illiberali e utilizzando espressioni che di istituzionale hanno ben poco (come quando l’ex ministro dell’Interno disse di sperare di “non incontrarlo da vicino”): un vero e proprio teatrino dell’assurdo, talmente grottesco da fare invidia alle parate militari in costume della Corea del Nord.
Nei mesi successivi Salvini ha fatto del giustizialismo il proprio marchio di fabbrica, non perdendo occasione per capitalizzare la cattura di Battisti e trattandolo come una specie di trofeo da sventolare a favore delle telecamere per irrobustire il suo potenziale elettorale. Questi atteggiamenti non hanno fatto altro che trasformare un dibattito essenziale – quello relativo alle condizioni di vita dei detenuti all’interno delle carceri, che dovrebbero essere sempre e comunque dignitose, a prescindere dai loro trascorsi penali – nel solito luogo comune da dare in pasto all’opinione pubblica per incattivirla, alimentando una retorica che uno Stato che si definisce “di diritto” dovrebbe disconoscere.
Al contrario, in Italia l’attenzione a questi temi dovrebbe essere massima, dato che negli ultimi anni il nostro Paese non si è certo distinto in positivo per il modo in cui tratta i propri detenuti: nel 2013, la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha condannato l’Italia per il trattamento inumano e degradante di sette carcerati, invitandoci a porre rimedio alla problematica del sovraffollamento carcerario. In quella sede i giudici constatarono come, in Italia, quello del sovraffollamento degli istituti di detenzione avesse assunto le proporzioni di un problema “di natura strutturale”, ricordando di aver ricevuto più di 550 ricorsi da altri detenuti che lamentavano di essere confinati in celle piccolissime, con poco più di tre metri quadrati a disposizione. Un approfondimento a parte meriterebbe, poi, il problema dei suicidi: secondo il dossier Morire di carcere, dall’inizio dell’anno sono morti 71 detenuti, di cui 21 hanno deciso di togliersi la vita. Inoltre, le rilevazioni di Ristretti Orizzonti dimostrano come, in appena tre anni, si è assistito a un trend preoccupante: mentre nel 2015 si è suicidato un detenuto ogni 1.200, nel 2018 il rapporto è diventato pari a un detenuto suicida ogni 900.
Queste evidenze dimostrano come derubricare le rimostranze dei detenuti a semplici perdite di tempo – o, peggio ancora, colpevolizzarli per il solo fatto di rivendicare una detenzione più dignitosa – rappresenti un atteggiamento pericoloso: il carcere vive nell’indifferenza o nell’ignoranza collettiva e, fatta qualche eccezione, anche la politica non riesce ad occuparsene come la Costituzione vorrebbe. Il tema rimane spesso circoscritto in una nicchia di addetti ai lavori o tra realtà che si spendono per il rispetto dei diritti umani dei detenuti, come ad esempio l’Associazione Antigone. Eppure, a dispetto di chi utilizza una carica pubblica per foraggiare gli istinti peggiori del popolo, il garantismo non può funzionare a macchia di leopardo, e queste problematiche andrebbero dibattute alla luce del sole: il grado di civiltà di uno Stato si misura, in primis, nella capacità delle istituzioni di garantire il rispetto dei diritti individuali, anche nei confronti di coloro che si sono macchiati dei delitti più atroci.
Privare una persona delle due ore d’aria quotidiane e costringerla in una condizione anti-igienica e di obbligata asocialità è un’autentica forzatura, inaccettabile anche per un ex terrorista come Battisti: un trattamento disumano che assume i contorni di una triste vendetta di Stato e che contrasta sia con l’articolo 27 della nostra Costituzione, secondo la quale “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, che con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che vieta esplicitamente i trattamenti inumani e degradanti.
Negli ultimi giorni i tragici fatti del carcere di Santa Maria Capua Vetere hanno scoperchiato un vaso di Pandora, riportando al centro del dibattito pubblico il tema delle difficili condizioni di vita dei detenuti, spesso costretti a convivere con una quotidianità alienante e angosciosa, fatta di punizioni corporali, digiuni imposti e ghettizzazione forzata. Si tratta di una criticità sistemica che affligge il nostro sistema carcerario a una tale profondità da poter essere considerata, a tutti gli effetti, un tratto endemico dell’ordinamento penitenziario italiano. Se gli abusi a cui abbiamo assistito ci hanno insegnato qualcosa è che, in uno Stato di diritto, chiunque merita una carcerazione dignitosa: la vendetta di Stato non è la soluzione per nessuno, neanche per Cesare Battisti.