Capitalismo e sovranismo, davanti al coronavirus, ci hanno costretto a scegliere tra vita e profitto

Il disastro nella gestione della pandemia di Donald Trump, che ha ignorato decine di report dell’intelligence statunitense sul Coronavirus e che ora snobba le raccomandazioni degli epidemiologi cercando un’uscita rapida dal lockdown, è sotto gli occhi di tutti. Non c’è peggior danno, per l’immunologo Anthony Fauci – tra i massimi esperti di malattie infettive e consigliere della Casa Bianca – che riaprire tutto e subito, andando incontro a “morti e sofferenze inutili”. Eppure una quarantina dei 50 stati stanno già riavviando le attività, per ordine dei governatori tanto repubblicani quanto democratici e con la benedizione dell’amministrazione Trump, che però non è ancora stata in grado di fornire una timeline per le aperture o un protocollo di sicurezza omogeneo contro il COVID-19. La motivazione per bruciare le tappe è la stessa che a inizio pandemia muoveva i leader ultraliberisti come Trump, oggi mascherati da un appeal sovranista-populista, a limitare lo stop delle industrie: continuare a far correre l’economia come prima, anche a costo della perdita di centinaia di migliaia di vite umane. Una coazione a ripetere che, negli Stati Uniti come nel Brasile del presidente negazionista del COVID-19 Jair Bolsonaro (detto il “Trump brasiliano”), o nel Regno Unito dell’immunità di gregge alla base della strategia iniziale del premier Boris Johnson (il “Trump britannico”), provoca catastrofi.

Meglio morire di Coronavirus, si ripete, che di fame. Gli ospedali collasserebbero ovunque, incapaci di curare anche altre patologie, come è purtroppo accaduto in Lombardia, a Madrid, Londra e a New York; nelle seconde ondate i focolai sarebbero più diffusi; le attività produttive e commerciali dovrebbero continuamente aprire e richiudere; le Borse andrebbero di conseguenza in fibrillazione e le speculazioni finanziarie affosserebbero l’economia reale ancora più della pandemia. Persino i capitalisti più intelligenti si rendono conto che per la loro sopravvivenza è indispensabile rallentare la produzione e gli scambi almeno fino al prossimo autunno e all’inverno successivo, quando il clima potrebbe rinfocolare la virulenza della pandemia. Tra il 2020 e il 2021 i vertici dell’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico dell’area delle economie di mercato, prospettano una lenta ripresa a U, ovvero qualche trimestre di ripresa molto lenta e graduale dopo il termine dei lockdown  – nella migliore delle ipotesi. Il rimbalzo a V, la risalita immediata e decisa che continua a vedere Wall Street è ormai considerato irrealistico da gran parte degli economisti: è infatti probabile che la ripartenza immediata a 360 gradi chiesta da Trump “anche a costo di più morti”, produca una spirale di pandemia perenne.

Questo circolo vizioso negli Stati Uniti è dietro l’angolo, considerato che si sta entrando formalmente nella Fase 2, senza mai in realtà essere usciti dalla Fase 1. Dalla Northeastern University di Boston, il fisico epidemiologo Alessandro Vespignani, membro della task force sul COVID-19 della Casa Bianca, conferma che negli Stati Uniti “al contrario del trend italiano, la curva dell’epidemia non si è ancora piegata dal plateau (il “piano” che, in gergo medico-scientifico assume la curva dei contagi dopo l’impennata e prima della discesa). A una settimana dalle riaperture dei governatori andati in ordine sparso, i primi dati in arrivo ci mostrano che l’epidemia è di nuovo in crescita, il virus sta rialzando la testa”. Anche Fauci ha informato il Senato che il “virus non è ancora completamente sotto controllo” e che “il numero dei morti” – oltre 85 mila, con picchi di 2 mila decessi al giorno – “è probabilmente più alto, specialmente a New York potrebbero esserci malati di COVID-19 morti in casa che non sono stati contati”.

Una tendenza ancora più drammatica si sta registrando nel Brasile di Bolsonaro, che si ostina a minimizzare sulla pandemia. Le immagini delle fosse comuni scavate a San Paolo e Manaus fanno il paio con quelle delle sepolture dei morti non reclamati di Hart Island, a New York, ma il presidente brasiliano sovranista e amico dichiarato di Trump continua a mostrarsi alle telecamere mentre fa gite in barca e organizza barbecue con gli amici. Chi si preoccupa della pandemia, ha assicurato di fronte a un’impennata di oltre 11mila casi e 700 morti al giorno, “è nevrotico”. Ovviamente Bolsonaro non appare minimamente toccato dalle stragi del COVID-19 nelle favelas e tra gli indigeni dell’Amazzonia, abbandonati a loro stessi con migliaia di contagi, in un habitat già devastato: proprio nei primi quattro mesi del 2020 l’Istituto nazionale brasiliano per la ricerca spaziale (Inpe) ha rilevato un aumento del +55% della deforestazione nella foresta pluviale più grande al mondo, che per biodiversità è anche uno degli ambienti naturali dove potrebbero verificarsi più facilmente nuovi salti di virus dagli animali all’uomo.

Il braccio di ferro prima con il ministro della Salute Luiz Henrique Mandetta, per un lockdown duro, concluso con le dimissioni di Mandetta ad aprile e anche del suo successore Nelson Teich il 15 maggio, e poi con i governatori degli Stati più colpiti, che hanno imposto misure restrittive e rifiutano i suoi decreti sulle riaperture, contribuisce a generare messaggi confusi e sbagliati tra la popolazione. Per l’opposizione, secondo cui i numeri del governo sulla pandemia non sarebbero veritieri, il risultato è che diversi focolai stanno crescendo in più Stati brasiliani: gli ospedali di diverse metropoli sarebbero già al collasso, con il rischio di un’escalation simile a quella degli Stati Uniti. Eppure, sia Trump che Bolsonaro continuano ad atteggiarsi a leader efficienti dei loro Paesi, vendendo all’opinione pubblica la convinzione che basti incolpare l’esterno (vale per il “complotto” cinese come per gli untori europei) e mostrarsi aggressivi verso il capro espiatorio di turno per allontanare il Coronavirus dai confini nazionali. Questa menzogna incontra il favore dell’apparato economico e industriale dei grandi capitali, ai quali i leader sovranisti sentono l’impellenza di rispondere perché i loro interessi ne garantiscono la sopravvivenza politica. Peccato che per le pandemie non esistano soluzioni né facili né immediate, e lo stesso concetto sovranista di confine da difendere con proclami o la sua militarizzazione si svela in tutta la sua debolezza.

Una dinamica molto simile alla gestione dell’emergenza in Gran Bretagna firmata dal primo ministro Boris Johnson, espressione, come Trump e Bolsonaro, del capitalismo più spregiudicato e vicino alla grande finanza. La sottovalutazione del COVID-19 e il primato lasciato nel frattempo al mondo degli affari hanno fatto sì che, nonostante il vantaggio temporale di quasi un mese di ritardo sul contagio rispetto all’Italia, la pandemia abbia comunque colpito duramente anche Oltremanica. Dove il bilancio di morti (oltre 40 mila) è il peggiore d’Europa (per rapporto al numero di abitanti anche degli Stati Uniti): un prezzo altissimo pagato da Johnson, ricoverato in terapia intensiva per COVID-19, anche a livello personale. Eppure la lezione non è servita, e anche nel Regno Unito il trend non si inverte perché, nonostante a parole si resti nella Fase 1, Johnson è tornato di fatto ad azzardare, passando già dall’11 maggio dall’indicazione dello “stay home” allo “stay alert” per tutti. Senza obbligo di mascherine, in piena epidemia i pendolari londinesi sono così tornati ad affollare i mezzi pubblici per andare al lavoro, con controlli e protocolli sanitari blandi.

Una fuga in avanti che si è scontrata con le posizioni delle amministrazioni di Scozia, Galles e Irlanda del Nord, perché è chiaro che il capitalismo mondiale di matrice anglosassone stia dando il peggio di sé proprio durante questa pandemia. Il comportamento senza prospettive e contraddittorio di Johnson mostra come, al pari di Trump di fronte ai milioni di statunitensi precipitati nell’indigenza e in coda per il cibo, il premier britannico sia prigioniero della visione ultraliberista.

Sta diventando infatti lapalissiano che solo dopo due secoli di capitalismo così predatorio, accelerato dalla globalizzazione degli ultimi decenni, possono innescarsi pandemie di tale rapidità e virulenza. Commenta su Jacobin il socialista statunitense Andrej Markovčič che “i capitalisti non possono assolversi dalle colpe sul COVID-19”. La narrativa che la “crisi imprevedibile” ci costringe “a scegliere tra il salvare vite e il salvare l’economia” non regge perché, afferma, sono proprio le “scelte dei devoti del profitto, padroni dell’universo” ad averci reso così “catastroficamente impreparati al COVID-19”, trasformando “l’emergenza in un disastro”. Un buon esempio di questa miopia è lo smantellamento del piano della sanità pubblica sulle pandemie e sulle catastrofi naturali varato nel 2006 dalla California: investendo 400 milioni di dollari furono preparati tre ospedali mobili d’emergenza e stoccati nei magazzini migliaia di ventilatori e milioni di scorte di mascherine. Materiale poi perso, rivenduto o forse addirittura smaltito dal governo locale per i risparmiare sulla sanità dopo la crisi finanziaria del 2008. Sia Trump che Bolsonaro hanno adottato, a livello nazionale, scelte ambientali ancora più devastanti e tagliato fondi al welfare, dando mano libera alle multinazionali in modo da limitare ulteriormente l’accesso gratuito alle cure.

In Europa non si è stati da meno: le politiche del rigore figlie delle dottrine neoliberiste solo nel Regno Unito dal 2015 hanno penalizzato il Sistema sanitario nazionale (Nhs) ora applaudito da Johnson con oltre 1 miliardo di sterline di tagli. In un commento sulla “triplice crisi del capitalismo” (“sanitaria”, “economica” e “climatica”) che ha avuto molta eco all’estero, anche l’economista italo-americana Mariana Mazzucato denuncia come la pandemia stia “rivelando sempre più falle nei nostri sistemi economici”. Dalla “precarietà del lavoro” alle politiche di “austerità” che hanno determinato “l’indebolimento delle istituzioni del settore pubblico”, le responsabilità sono molte, incluse quelle delle “partnership tra pubblico e privato” da “ripensare”, come ha ben dimostrato la gestione della crisi sanitaria da parte della regione Lombardia. Mazzucato è dell’idea che gli Stati debbano “tornare ad assumere un ruolo-guida” per mettere in atto “politiche più inclusive e sostenibili”, in modo da diventare loro stessi “imprenditoriali” e sottrarre influenza allo strapotere delle multinazionali.

Con la pandemia si è tornati a parlare prepotentemente di beni pubblici per tutti e di modelli alternativi di sviluppo, e in molti chiedono il “reddito universale garantito”. Il COVID-19 porterà davvero alla disfatta il modello capitalista, rendendoci società e persone migliori? O viceversa faremo peggio di prima? Per adesso l’emergenza sanitaria sta acuendo le disparità sociali, colpendo i più deboli; le misure dei governi restano capitaliste, non all’altezza del cambiamento richiesto, se non addirittura distruttive. Siamo a un bivio: se dovesse ancora prevalere la bulimia da profitti di Trump, Bolsonaro e Johnson, la “Fase 2” sarebbe una crisi globale irrimediabile, portando con sé grandi squilibri e con ripercussioni peggiori della pandemia e della crisi finanziaria del 2008 messe insieme.

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