La guerra in Ucraina sembra aver riacceso certe ideologie che si davano per perdute. L’ha fatto generando l’errata convinzione che vi sia un ritorno ai meccanismi da Guerra Fredda, con la contrapposizione tra il capitalismo occidentale e la sua nemesi rappresentata dalla Russia e dal blocco di Paesi con un passato o un presente comunista, con la Cina come capofila. Per questo si è innescata una riluttanza a sostenere pienamente la resistenza ucraina, perché supportata indirettamente dalla Nato, o addirittura un sentimento antioccidentale che ha portato diverse personalità pubbliche – alcune di sinistra, altre impantanate nelle sabbie mobili del rossobrunismo – a incolpare direttamente l’Occidente per una guerra che ha ben delineati i contorni dell’aggredito e dell’aggressore. Un po’ per nostalgia novecentesca, un po’ per allergia a tutto ciò che riguarda gli Stati Uniti, si è arrivati a credere che l’antidoto al capitalismo, all’imperialismo e al neoliberismo abbia il volto di Vladimir Putin o di Xi Jinping. È un abbaglio ideologico dalle conseguenze devastanti, perché non si è compresa l’evoluzione della Russia e della Cina, ormai a tutti gli effetti potenze capitaliste e imperialiste.
Qualche mese fa, prima dell’invasione in Ucraina, Putin ha detto che “Il modello capitalistico occidentale è in crisi, ovunque, anche nei Paesi e nelle regioni più ricche. La distribuzione ineguale della ricchezza porta a crescenti disuguaglianze”. Un discorso che non farebbe una piega, se non fosse stato pronunciato da chi ha consegnato il suo Paese al capitalismo oligarchico, dove le disuguaglianze economiche sono una piaga sociale per l’intero popolo russo. Se Marx ed Engels teorizzavano la dittatura del proletariato, con la costruzione di una società senza gli scalini delle classi e il denaro a determinare la condizione degli individui, ponendo i lavoratori in una posizione di potere politico attivo, la Russia di Putin è l’esatto contrario. Vige infatti il dominio di quello che un tempo veniva definito il “padrone”, che guadagna cifre esageratamente più ampie dell’operaio e lo sfrutta per arricchirsi ulteriormente.
L’analista economico Boris Grozovskij ha spiegato bene il modus operandi di Putin: “In Russia abbiamo un capitalismo degli amici. È molto difficile fare la differenza tra Stato e settore privato: Gazprom, per esempio, è una compagnia statale, ma quando deve fare i tubi affida i contratti agli amici di Putin”. Quindi i “pochi” oligarchi detengono più ricchezze della moltitudine, con le classi inferiori destinate alla fame, con stipendi miseri. Se da un lato abbiamo gli oligarchi vicini all’universo di Putin che guadagnano l’equivalente di miliardi di euro e sono tra gli uomini più ricchi del Pianeta, dall’altro abbiamo uno stipendio medio che in Russia si assesta sui 33.600 rubli, ovvero circa 470 euro al mese. Un dato che smonta il discorso di Putin sulla distribuzione della ricchezza.
In Limonov, romanzo dello scrittore francese Emmanuel Carrère, l’incipit è dedicato proprio a una frase di Putin: “Chi vuole restaurare il comunismo è senza cervello. Chi non lo rimpiange è senza cuore”. Appare come un ossimoro, ma rappresenta in pieno l’ambiguità di Putin su un argomento che usa per far leva sui nostalgici fuori dai suoi confini, rassicurando però il suo popolo di non voler tornare a certi periodi del passato russo. Pur essendo stato un agente del KGB, non ha mai fatto del sovietismo la sua bandiera, tranne nei casi in cui era necessario aggrapparsi a un nazionalismo storico per rivendicare la passata gloria del Paese. Per esempio, in questi giorni i russi hanno eretto in Ucraina statue di Lenin che erano state abbattute, ma lo stesso Putin ha giustificato l’invasione criticando Lenin e il suo errore originario alla base della creazione dell’Ucraina, saltando diversi passaggi storici, dalla Rus’ di Kiev in poi. Putin di fatto rinnega gran parte dell’eredità di Lenin, che concepiva l’Unione Sovietica come una federazione di repubbliche sullo stesso piano, per poi seguire l’ideologia trotskista di esportare la rivoluzione socialista fuori dai propri confini. Piani di Lenin e Trotsky che furono accantonati dal “socialismo in un solo Paese” di Stalin. Putin è sicuramente più vicino a quest’ultimo come ideali, ma ancor di più a un imperialismo pre-Rivoluzione che poggia le sue radici nel periodo degli zar.
Diego Fusaro, uno dei principali sostenitori del regime di Putin, ha scritto che la Russia è “uno degli ultimi baluardi di resistenza all’imperialismo americano”, dimenticandosi che oggi è Putin a voler restaurare un impero invadendo e devastando una nazione sovrana. Già nel 2018 Fusaro scriveva un confuso editoriale sul Fatto Quotidiano intitolato Elogio della Russia di Putin, nel quale dichiarava: “Putin ha ripreso, a suo modo, l’eroica tradizione leniniana di resistenza al capitalismo imperialistico americanocentrico”. Adesso Putin colpevolizza Lenin per aver “creato” l’Ucraina – errori storici a parte – ed è distante anni luce dai presupposti su cui si poggiava la rivoluzione leniniana, diventata poi una dittatura con il suo successore Stalin. Il progetto comunista di stampo marxista-leninista ha visto la luce in poche occasioni nella Storia, e mai in Russia. Quando c’è stato un tentativo di attuarlo realmente, senza trascendere in dittature e storture ideologiche, come per esempio nel Cile di Allende, è stato soffocato sul nascere da quelle potenze straniere che non potevano permettere l’instaurazione di un socialismo reale, quello che non ha preso piede nemmeno in Cina, nonostante Fusaro parli di “Russia e Cina unite contro la civiltà degli hamburger”.
La Cina, oltre a essere un regime illiberale, fa del comunismo una dottrina di facciata, essendo entrata a far parte a tutti gli effetti del sistema economico globale basato sul capitalismo. Nel libro Capitalism, Alone di Branko Milanovic viene spiegato il processo di trasformazione dell’economia cinese, tra riforme e liberalizzazioni. Prima del 1978, anno dell’inizio delle riforme del Presidente Deng Xiaoping, il prodotto industriale era interamente in mano alle imprese statali, mentre nel 2015 l’80% era appannaggio dei privati. Allo stesso tempo, i lavoratori impiegati nel pubblico (oltre l’80% negli anni Settanta) sono arrivati al 16% nel 2016. Le privatizzazioni hanno rivoluzionato il mercato cinese, pur mantenendo alcuni vincoli con lo Stato centrale, e il Paese si è aperto a investimenti stranieri e al libero commercio, soprattutto in seguito all’ingresso nel 2001 nel Wto (Organizzazione mondiale del commercio). La stessa Russia ha attuato la strategia del commercio con partner stranieri, basando le sue ricchezze sull’esportazione di gas, petrolio e carbone. Sia Cina che Russia nel corso dei decenni sono arrivate all’accettazione della proprietà privata, per finire al centro degli scambi commerciali a livello globale, trattando il “capitale” con modalità che Marx avrebbe di certo disapprovato.
Checché ne dicano i nostalgici della Russia socialista idealizzata, ci troviamo di fronte a una realtà che si allaccia ai crismi del capitalismo, ma con un modello ancora più brutale perché arroccato nella sua espressione più drammatica, ovvero il connubio con democrature o vere e proprie dittature. Dunque la Russia di Putin viene erroneamente vista come un’alternativa al modello di vita economico e sociale occidentale, dove però vige la legge degli oligarchi nuovi boiardi e di quello che non può nemmeno considerarsi capitalismo di Stato come ai tempi sovietici, ma capitalismo elitario che sfrutta il proletariato più che innalzarlo. Il capitalismo non è mai la soluzione per una società giusta, per lo meno non con i criteri di mercato attuali e con le disuguaglianze che imperversano. Ma il capitalismo in una democrazia, per quanto fallace, sarà sempre migliore del capitalismo, o di una sua copia carbone, in una dittatura. Se il popolo russo vive nella miseria e il suo Pil è inferiore a quello dell’Italia, nonostante sia al primo e al secondo posto al mondo per esportazione di gas e carbone, vuole dire che il sistema di Putin non è la risposta e tanto meno l’alternativa a quello occidentale, essendo tra l’altro due facce della stessa medaglia.
Quindi no, la guerra in Ucraina non è uno scontro tra due poli antitetici, tra due società riallacciate all’epoca pre 1989. Non è sostenendo la guerra di Putin – la più imperialistica degli ultimi decenni, per metodi e motivazioni – che il mondo cambierà direzione. Eppure circola quella Natofobia che è il preludio di una giustificazione alle azioni più orrende, con riflessioni tendenziose nate solo con l’intento di rimarcare la presunta purezza del blocco russo-cinese accerchiato dagli oscuri ingranaggi del capitalismo. Ne fanno parte anche loro, e mai come in questo caso abbiamo bisogno di una terza via. Possibilmente migliorando il senso di democrazia occidentale, invece di avvicinarci a regimi che fanno della sua negazione il loro tratto distintivo.