Nell’ultimo anno, sui quotidiani italiani si è consolidata una tendenza che sta quasi diventando un genere giornalistico a sé, quella di lamentarsi delle “follie del politicamente corretto”. Gli esempi si sprecano: da Johnny Depp bandito da Netflix perché coinvolto in un processo di violenza domestica (quando in realtà erano semplicemente scaduti i diritti dei film che lo vedevano protagonista), agli spettatori della Bbc che chiedono di boicottare Grease (e bisogna chiedersi a chi è venuto in mente di citare cinque tweet indignati di numero come rappresentativi dell’intero sentiment della popolazione inglese), fino all’ormai famosa censura antirazzista di Via col vento, che alla fine non era una censura ma solo un disclaimer a inizio film. Notizie spesso date con approssimazione e tono allarmistico, saccheggiate da tabloid inglesi che andrebbero ritenuti inaffidabili persino per le ricette di cucina che propongono, casi montati sul nulla. Uno dei filoni privilegiati di questo nuovo genere sono le “follie delle università americane”: la scure del politicamente corretto si abbatterebbe sui classici della letteratura occidentale perché sono “suprematisti bianchi”. D’improvviso le opere d’arte andrebbero bruciate perché chi le ha dipinte o scolpite era sessista, o peggio, pedofilo. La musica classica sarebbe una roba da ariani con nostalgie goebbelsiane, quindi al posto di Mozart d’ora in poi si studieranno le melodie dei Boscimani.
Raramente le cose vanno così, ma questo è il tono con cui vengono raccontate.
Anche se sono anni che si parla dei danni delle fake news e del complottismo, l’idea ossessiva e martellante che sia in atto una sorta di censura a reti unificate contro la “nostra cultura” e che a promuoverla siano proprio le università è riuscita a insinuarsi senza troppi problemi nel dibattito italiano. E non solo nella stampa di destra, da cui ci si può aspettare una esasperata difesa della tradizione occidentale, ma anche in quella di sinistra, che nell’incolpare i campus ha una ragione in più per prendersela con l’imperialismo culturale statunitense. Ma a forza di strapparsi i capelli per la cancel culture accademica oltreoceano si sta perdendo di vista ciò che accade in luoghi culturalmente e geograficamente molto più vicini a noi. Per arginare queste presunte derive, infatti, le università stanno prendendo misure drastiche che, anziché tutelare la cultura, la costringono in spazi ancora più stretti di quelli dell’ipotetica cancel culture.
In Francia, per esempio, la ministra della Ricerca Frédérique Vidal ha annunciato che il Consiglio nazionale della ricerca dovrà effettuare indagini nelle università sulle “tendenze islamo-gauchiste”, una “cancrena” che sta “corrompendo la società”. In particolare, l’obiettivo polemico di Vidal sono gli studi postcoloniali e di genere che “osservano ogni cosa attraverso il prisma della volontà di dividere, spaccare e individuare un nemico”. Gli studi postcoloniali sono una branca del sapere nata intorno agli anni Settanta nell’ambito degli studi culturali che, come scrive il professore ordinario di Lettere Elio di Piazza, “pongono al centro dell’indagine critica i risultati del confronto tra culture in relazione di subordinazione, nei nuovi contesti determinati dalle lotte di liberazione nazionale”. Si focalizzano quindi sul tema del colonialismo e sulla sua fine, spesso mettendo in discussione l’egemonia culturale che l’Europa ha esercitato per secoli nel panorama mondiale.
Il tempismo delle dichiarazioni di Vidal non è casuale, dal momento che arrivano dopo la controversa approvazione alla Camera francese del disegno di legge sulla laicità dello Stato, che è in realtà una legge contro il radicalismo islamico. Secondo molti commentatori, il provvedimento rischia però di limitare la libertà religiosa e di discriminare soprattutto i musulmani, dal momento che dà alle autorità la facoltà di chiudere i luoghi di culto e vieta l’esposizione di simboli religiosi da parte dei pubblici ufficiali. Da diversi anni il clima di ostilità verso la comunità musulmana in Francia è molto alto e la situazione è stata esacerbata dalla morte di Samuel Paty, un professore ucciso da un estremista religioso a cui era giunta voce – pare da una bugia di un’alunna – di sue presunte affermazioni contro Maometto durante una lezione a scuola sulle caricature di Charlie Hebdo, il periodico settimanale satirico francese. Creare un tale allarmismo su un termine che non vuol dire niente come “islamo-gauchismo” serve solo ad alimentare un’ostilità che ha già provocato sufficienti problemi.
Non è però solo la Francia a mettere in discussione la libertà di ricerca delle università. Anche nel Regno Unito si è creato allarmismo nei confronti di ciò che viene studiato nei college: secondo il 52% degli inglesi, la possibilità di esprimersi liberamente negli ambienti accademici sarebbe in pericolo e il 29% attribuisce la colpa proprio all’estremismo islamico. Il governo conservatore di Boris Johnson non poteva lasciarsi sfuggire un’occasione simile. Il ministro dell’Istruzione Gavin Williamson ha infatti presentato una nuova proposta di legge per tutelare la libertà di espressione nelle università. Secondo il provvedimento, le università dovranno rispettare dei criteri per la libertà di espressione e un commissario vigilerà su eventuali accuse o casi di censura. Queste misure non riguarderebbero solo i professori, ma anche le associazioni studentesche che si troverebbero costrette a dare sempre spazio a un contraddittorio nei propri dibattiti. Ma, come sottolinea la professoressa Alison Scott-Baumann sul Guardian, il confine tra valutare il rispetto della libertà di opinione e decidere a priori cosa è la libertà di opinione è molto labile e pericoloso: questo significa che a un dibattito sul marxismo si dovranno invitare dei neonazisti per controbilanciare? O che durante un incontro sui diritti trans è necessario l’intervento di chi sostiene posizioni transfobiche? Secondo Scott-Baumann “ci sono molte ragioni per ritenere che queste proposte servano più ad attrarre elettori e a sfruttare il panico morale sulle università che ad aiutarle a proteggere la libertà di parola”.
Persino il Consiglio nazionale della ricerca, che dovrebbe occuparsi di queste indagini, ha preso le distanze dal termine “islamo-gauchismo”, specificando in un comunicato che si tratta “di uno slogan politico usato nel discorso pubblico che non ha nessuna base nella realtà scientifica”, e ha condannato l’atteggiamento di chi vuole usare l’importante argomento della libertà di pensiero per portare avanti un’agenda politica reazionaria. Anche la Conferenza dei rettori francesi si è opposta alle posizioni della ministra, definendo l’islamo-gauchismo una “pseudo-nozione” che genera solo confusione, mentre una petizione per le dimissioni di Vidal ha già raggiunto le 18mila firme. Il danno è però ormai fatto nell’opinione pubblica. La famosa sociologa Nathalie Heinich, nota per le sue posizioni contrarie all’Islam e che di recente ha creato un osservatorio sul decolonialismo e identity politics, ha attaccato pubblicamente e in più occasioni la geografa Rachele Borghi, italiana che insegna alla Sorbona, per il suo lavoro negli studi postcoloniali e di genere. Stesso destino è toccato a diversi altri colleghi, che oltre alla derisione hanno ricevuto anche minacce, e che ora hanno la solidarietà di nomi illustri del panorama accademico internazionale.
Non è un caso che siano proprio le università a essere prese di mira con questi provvedimenti che, in nome di una neutralità del sapere che non esiste, si fanno reali promotori della censura. Come ha ricostruito in un suo saggio Federico Faloppa, docente di Storia della lingua italiana e Sociolinguistica nel Dipartimento di Lingue moderne dell’Università britannica di Reading, se inizialmente l’espressione “politically correctness” era usata da intellettuali di sinistra americani in maniera spesso ironica, dalla fine degli anni Ottanta il termine è diventato di proprietà della destra più conservatrice, che l’ha utilizzato per attaccare l’eredità della cosiddetta New Left accademica nella società americana. Il politicamente corretto sarebbe diventata la nuova ideologia “informale” degli ambienti universitari con l’obiettivo non solo di distruggere il canone tradizionale, ma anche di instaurare un meccanismo che premia la vittimizzazione, favorendo così le minoranze.
Quello che sta accadendo ora con gli studi postcoloniali ricorda quello che è già successo con l’“ideologia gender”. Un campo di studi che ha messo in discussione la validità assoluta del concetto di “sesso biologico”, e che trova conferme crescenti nella scienza, nella medicina e nella biologia stessa, è stato mistificato e strumentalizzato a tal punto che ora esiste un “movimento anti-gender” che crea panico morale e arriva a bruciare in pubblico fantocci di Judith Butler, una delle massime teoriche in questo campo. Il pericolo è che, proprio come per gli studi di genere, la validità degli studi postcoloniali non sia messa in dubbio da un giusto dibattito accademico e scientifico, ma da un backlash populista che più di un politico conservatore non vede l’ora di cavalcare. E mentre sui media è tutto un “non si può più dire niente”, sono ricercatori e accademici a rischiare davvero di vedere sempre più limitata la loro libertà di parola.
Rettifica ex art. 8 L. 47/1948 di martedì 18 settembre 2018 Ore 18.10
*Con riferimento all’articolo “Non c’è alcuna cancel culture nelle università. Sono solo piene di razzisti colmi di pregiudizi.”, pubblicato il 9 aprile 2021 riceviamo e pubblichiamo la seguente richiesta di rettifica a firma della professoressa Nathalie Heinich, pervenuta via email.
“Intendo riaffermare con forza che non ho mai preso alcuna posizione contraria all’Islam, che è una religione ; ma mi batto da tempo contro l’islamismo, soprattutto nella sua versione “islamofascista” che rappresenta un vero e proprio progetto politico.”