A gennaio di quest’anno, il sito di fantascienza Clarkesworld ha pubblicato un racconto intitolato “I Sexually Identify as an Attack Helicopter”, firmato da una certa Isabel Fall. La storia parla di una pilota che viene sottoposta a un intervento di riassegnazione di genere e si risveglia in forma di elicottero. Pochi giorni dopo, il racconto viene preso di mira da alcuni lettori che sostengono che il contenuto dell’articolo sia transfobico e che Isabel Fall non esista, ma sia un troll di destra. Molti si accaniscono sul titolo, che ricorda uno degli argomenti tipici degli anti gender, ovvero che la transizione sia un capriccio, e che se basta dire di identificarsi in qualcosa per esserlo veramente, allora uno potrebbe anche dire di identificarsi in un elicottero. Nel giro di poche ore, parte la shitstorm su Twitter contro il sito e l’autrice. Personalità note del mondo della fantascienza condannano il racconto, consigliando a Isabel Fall di cambiare mestiere e farsi una cultura sul mondo trans. Clarkesworld lo rimuove dal sito. In un comunicato successivo rivela che Isabel Fall esiste, ed è una donna transgender che voleva soltanto scrivere un testo di fiction sull’identità di genere. Quasi tutte le persone che avevano chiesto la rimozione del racconto erano invece donne cisgender che hanno cancellato un’opera di una persona trans, accusandola di transfobia.
La cosiddetta “cancel culture” è una questione che negli Stati Uniti sta generando un dibattito enorme. Secondo il dizionario Collins si tratta di “una situazione sociale in cui una persona, un’organizzazione, ecc., viene ostracizzata in risposta a un comportamento ritenuto negativo”. Le persone famose vengono “cancellate” quando fanno affermazioni controverse, quando vengono accusate di aver compiuto degli abusi, quando vengono viste in compagnia di personaggi negativi e, a volte, anche quando salta fuori qualche post scritto anni prima in cui dicono qualcosa di sbagliato. La cancellazione può avvenire in diversi modi: alcuni vengono costretti a chiudere i propri account social, mentre altri vengono licenziati o cominciano a perdere ingaggi o partnership con brand. Lo scorso ottobre, Barack Obama, in una conferenza all’Obama Foundation, si è espresso (anche se in modo discutibile) contro la cancel culture che, a suo parere, fa pseudo attivismo delegittimando chi non è abbastanza “woke”. Anche il New York Times ha dedicato numerosi articoli a questo fenomeno, a partire da “Everyone is Canceled”, il 28 giugno del 2018.
Il movimento #MeToo è stato rivoluzionario per aver spinto molte donne, famose e non, a parlare pubblicamente degli abusi subiti in una grande narrazione collettiva portata avanti grazie ai social. Se il movimento ha avuto il merito di scoperchiare il sistema di molestie sul quale sembrava reggersi l’intero mondo dello spettacolo, è anche vero che in alcuni casi l’indignazione di massa ha contribuito ad allontanare molte delle persone accusate anche sulla base di una singola accusa priva di prove. È importante sottolineare che misure di questo tipo non sono state prese per decisione di una sorta di tribunale del popolo delle vittime, ma dalle compagnie di produzione o dalle aziende, trovatesi loro malgrado a dover fornire risposte a situazioni che erano evidentemente incapaci di gestire. La cancellazione di molti personaggi famosi, però, ha fornito ai media di destra un assist per potersi scagliare contro un movimento legittimo e meritorio come quello antimolestie, gridando alla caccia alle streghe, a un neo-puritanesimo e all’Inquisizione delle femministe.
Quella del #MeToo, più che cancel culture, è call-out culture, e nasce come un mezzo per ridare alle persone marginalizzate la possibilità di denunciare dal basso chi detiene il potere. Si è però trasformata in un problema, perché se è vero che molte delle persone accusate meritano di non avere più alcun credito nel mondo dello spettacolo (come Harvey Weinstein, che al momento sta affrontando due processi per violenza sessuale, uno a New York e uno a Los Angeles), è anche vero che, nel sistema in cui viviamo, la cancel culture si ritorce proprio contro quelle persone marginalizzate, come dimostra il caso di Isabel Fall.
In Italia non si può parlare di una vera e propria cancel culture, dato che giornalisti, figure pubbliche e personaggi dello spettacolo che hanno praticamente costruito la propria carriera offendendo minoranze se ne stanno tranquilli e indisturbati al loro posto, magari alla guida di redazioni e programmi televisivi. Però casi di indignazione di massa in cui si chiede la cancellazione di un certo personaggio o un certo evento non mancano, anche se magari non si usa questo termine. Nei giorni di Sanremo, ad esempio, è partito il boicottaggio nei confronti del programma a causa delle dichiarazioni del conduttore Amadeus sulle vallette. Nello stesso periodo, sia alcuni gruppi femministi sia Matteo Salvini hanno lanciato campagne diverse per escludere dalla kermesse il rapper Junior Cally per alcuni testi giudicati misogini e offensivi. In realtà, leggendo il testo della canzone in gara a Sanremo (“Spero si capisca che odio il razzista / Che pensa al Paese ma è meglio il mojito”), è abbastanza evidente che la Lega non volesse boicottare il rapper per un improvviso risveglio di coscienza di genere, ma perché prende di mira il resident dj del Papeete, Salvini.
Bisognerebbe quindi chiedersi quale valore abbia la cancellazione di un certo personaggio o fenomeno, soprattutto alla luce del fatto che non sarà zittendo Junior Cally dalla prima serata di Rai 1 che risolveremo un problema strutturale come quello della violenza di genere. In più il più grande pericolo della cancel culture è che come viene usata contro chi detiene il potere, così può essere usata contro persone comuni, che magari hanno davvero commesso un errore, ma che per questo non meritano la gogna pubblica. È notizia di pochi giorni fa quella del vigile che si è tolto la vita nel bresciano dopo essere stato svergognato su Facebook per aver parcheggiato l’auto d’ordinanza in un parcheggio per disabili. Nonostante il vigile avesse anche pagato la sanzione prevista, gli attacchi non si sono fermati. È ovvio che non possiamo attribuire il suicidio alla sola gogna mediatica, ma questo episodio dovrebbe farci riflettere sul fatto che ci scagliamo sulle persone – famose o no, poco importa – senza avere alcun riguardo della loro capacità di gestire psicologicamente migliaia di insulti personali, minacce e attacchi diretti.
E questo è uno degli aspetti peggiori della cancel culture: non c’è possibilità di redenzione, per quanto possano essere sincere le scuse. Ciò spinge le persone cancellate, nel migliore dei casi a evitare di affrontare i propri accusatori, e nel peggiore a diventare ancora più rancorose. Come racconta il New York Times, le persone cancellate si chiudono in circoli con altri personaggi che hanno subìto il loro stesso destino, una nicchia che attira subito le simpatie dei conservatori che non vedono l’ora di martirizzare chi è stato colpito dai social justice warriors.
La cancel culture porta il conflitto alle estreme conseguenze, eliminando il confronto con l’altro e polarizzando le opinioni in un “o con noi o contro di noi”. Non dà la possibilità alle persone di capire cosa hanno sbagliato e magari di cambiare idea. La femminista Jo Freeman nel 1976 la chiamava trashing, “il lato oscuro della sorellanza”, in riferimento alla sua esperienza in alcuni gruppi del movimento per le donne: “Il trashing è una forma particolarmente cattiva di diffamazione che diventa un abuso psicologico. […] non viene fatto per dimostrare di non essere d’accordo con qualcuno o per risolvere delle divergenze. Viene fatto per infamare e distruggere. […] Qualsiasi siano i metodi usati, il trashing è una violazione dell’integrità altrui, una dichiarazione della sua inutilità e una messa in discussione delle sue motivazioni. In effetti, ciò che viene attaccato non solo le azioni o le idee, ma la persona”.
Jo Freeman viene anche citata dalla filosofa e youtuber trans ContraPoints (Natalie Wynn), accusata di essere transfobica per aver fatto doppiare una clip di 10 secondi a Buck Angel, attore porno e icona trans di 57 anni che in passato ha espresso alcune opinioni controverse sulle persone non binarie. Nonostante Natalie abbia girato decine di ore di video in cui educa sulla comunità trans con incredibile spessore e precisione, sono bastati 10 secondi di video con una persona sgradita alla comunità per chiedere la sua cancellazione. Nel video Canceling, la youtuber racconta di essere caduta in depressione e di aver avuto spesso pensieri suicidi in quel periodo perché, in quanto persona trans che fa grande affidamento sulla comunità LGBTQ+, si è trovata improvvisamente rigettata da uno dei suoi pochi sostegni, solo per essersi rifiutata di prendere le distanze dalle parole di un’altra persona. “C’è qualcosa di distopico nel fatto che devi accusare altre persone per dimostrare di essere innocente”, dice nel video. Natalie fa anche notare che l’essenzialismo della cancel culture tenda ad accomunare tutte le persone “cattive” in uno stesso calderone: una persona come lei, “rea” di aver collaborato con un personaggio considerato cattivo, non solo sarebbe, per proprietà transitiva, cattiva a sua volta, ma anche paragonabile da un punto di vista morale ad altri che meritano di essere cancellati, come nazisti, omofobi o razzisti. E così quella cancel culture che serviva a denunciare gli omotransfobici è diventato uno strumento per condannare una persona della comunità, come era accaduto col racconto dell’elicottero.
E sempre la vicenda di Clarkesworld dovrebbe farci riflettere su un’altra questione: come ha osservato Gretchen Felker-Martin su The Outline, alla guida della crociata contro Isabel Fall c’erano soprattutto donne cisgender. Allo stesso modo, la scrittrice di origine cinese Amélie Wen Zhao è stata costretta a fermare la pubblicazione del suo romanzo di esordio Blood Heir a causa delle accuse di razzismo per la descrizione che l’autrice fa dello schiavismo. Ma Zhao aveva basato questa descrizione sulla storia dello schiavismo in Asia, a lei più vicina, e non su quella afroamericana. Inoltre, come è prassi nell’editoria americana, aveva fatto revisionare il romanzo dai cosiddetti sensitivity readers, il cui lavoro è appunto quello di segnalare passaggi problematici che potrebbero offendere qualcuno. Quindi, nel momento in si tenta di cancellare qualcuno o qualcosa, bisognerebbe chiedersi anche che cosa motiva la persona in questione a lanciarsi nella gogna mediatica: voler fare davvero giustizia o sentirsi soltanto un giustiziere, magari per una minoranza che sarebbe perfettamente in grado di difendersi da sola?