Nel numero di gennaio 1988 dell’Harvard Business Review, l’economista Peter Drucker provava a immaginare come sarebbero state le grandi aziende nei vent’anni successivi: “Avranno meno della metà dei livelli di management delle loro attuali corrispettive e non più di un terzo dei manager”, proclamava in apertura del pezzo. Erano gli anni del boom tecnologico e le potenzialità offerte dai computer sembravano infinite. L’azienda perfetta, scriveva Drucker, è quella senza middle management e, di conseguenza, quella senza burocrazia. Il sogno di un mondo privo di moduli e scartoffie da compilare sembrava realizzabile, o perlomeno plausibile, proprio negli anni della digitalizzazione, quando eravamo tutti convinti che un click avrebbe sostituito firme e marche da bollo. Nel 2021, invece, le firme sono digitali ma ancora necessarie e pagare una marca da bollo online è ancora più complicato che uscire di casa e andare a comprarla dal tabaccaio.
La burocrazia è da sempre una parte integrante della nostra vita, e così anche del nostro immaginario, popolato da grigi funzionari che passano la loro esistenza a mettere timbri e sigilli. Il burocrate, che Balzac descriveva come “un prodotto che nasce, si ottiene, si scopre, si sviluppa soltanto nelle calde serre di un governo rappresentativo”, è una delle figure centrali della letteratura moderna e lungo tutto il Novecento, la burocrazia è diventata sinonimo di distopia e contrazione dei diritti: dagli anonimi cancellieri incontrati da K. ne Il processo – non a caso “kafkiano” è un dei primi aggettivi che possono venire in mente per descrivere il sistema della burocrazia – fino all’incubo di sorveglianza e inefficienza proposto da Terry Gilliam in Brazil. Lo stesso termine è stato coniato nella prima metà del diciottesimo secolo dall’economista francese Vincent de Gournay con accezione negativa per criticare il crescente potere dei funzionari statali.
Secondo il Wall Street Journal, ogni anno gli americani impiegano circa 8,8 miliardi di ore nel compilare i moduli necessari a pagare le tasse, una cifra che è aumentata quasi del 20% negli ultimi dieci anni. Riempire moduli e fogli non è solo un dispendio di tempo, ma anche di risorse: per trasportare tutta la carta utilizzata ogni anno negli uffici in Europa, Medio Oriente e Africa, servirebbero quasi 200mila camion da 28 tonnellate ciascuno, con un consumo di carta che, dal 1980, è aumentato del 50%. Il fatto che nemmeno Internet sia riuscita a soppiantarla sembra confermare ciò che Max Weber teorizzava più di cento anni fa, ovvero che si è ormai innescato un processo irreversibile di “burocratizzazione universale”, che aumenta la mole di documenti anziché farla diminuire. Per risolvere un problema all’interno della struttura burocratica se ne causa un altro che a sua volta richiederà altra burocrazia per essere risolto e così via. Secondo il sociologo, non c’è una soluzione per porre fine a questo immenso circolo vizioso, se non fare come re Alarico durante il sacco di Roma: bruciare tutto (e ammazzare tutto l’apparato statale). Qualora questa opzione non fosse praticabile, la burocrazia resta un male necessario della democrazia.
Tuttavia, la burocrazia non ha solo lati negativi. Come scrive David Graeber nell’omonimo saggio, un po’ ci piace perché può anche semplificarci la vita: “La spiegazione più semplice del fascino delle procedure burocratiche sta nella loro impersonalità. I rapporti burocratici, freddi e impersonali, sono molto simili alle transazioni monetarie e hanno gli stessi vantaggi e svantaggi: da un lato sono senz’anima; dall’altro sono semplici, prevedibili e – entro certi parametri – trattano tutti più o meno allo stesso modo. E poi, chi vuole davvero vivere in un mondo in cui tutto è anima? La burocrazia ci permette di interagire con altre persone senza impegnarci in tutte quelle complesse ed estenuanti forme di sforzo interpretativo”. Secondo Graeber esiste però anche una spiegazione più complessa. A pensarci bene, l’efficienza dello Stato moderno di inizio secolo – che anche Weber esaltava con un’opinione positiva della burocrazia – non derivava dallo sforzo dei governi, ma dalle associazioni mutualistiche che furono alla base di quello che oggi è il welfare state. Programmi sociali dal basso, casse mutue e assicurazioni portati avanti collettivamente dai cittadini e non già da burocrati. Con la costituzione degli Stati, queste reti sono state inglobate nella macchina statale per essere dispensate dall’alto attraverso ciò che già rappresentava l’efficienza dei governi: l’esercito. Le rapidissime poste tedesche della metà dell’Ottocento, organizzate militarmente, ne sono il perfetto esempio.
Graeber fa notare come l’entusiasmo che c’era intorno al sistema postale a cavallo all’epoca somigli a quello che c’è ora nei confronti di Internet: una “tecnologia poetica” creata in ambito militare si diffonde nella popolazione civile, trasforma radicalmente la vita delle persone e si fa una fama di grande efficienza, viene cooptata dai movimenti radicali e infine “diventa uno strumento di controllo per il governo e per la proliferazione di nuove forme di pubblicità e scartoffie indesiderate”. Secondo Graeber, non ci libereremo mai della burocrazia perché incarna la razionalità, rappresentando un’“utopia delle regole” in cui illudersi, venendo puntualmente disillusi, che le cose bene o male funzionano secondo un buonsenso comune. Questo è possibile non soltanto perché siamo convinti che la razionalità sia sempre superiore a ogni altra facoltà, ma anche per un vero e proprio cambio di paradigma: siamo tutti stati educati infatti a pensarci come i manager e gli investitori di noi stessi, che altro non devono fare che auto-valutarsi e valutare.
La cosa curiosa è che siamo abituati a pensare alla burocrazia come all’estensione dello Stato, ma ormai gran parte della burocrazia con cui abbiamo a che fare viene soprattutto dal settore privato. La differenza è che in quest’ultimo caso si tratta di richieste più sfuggenti perché diluite e digitalizzate, ma non per questo meno invadenti: lasciare una recensione per qualsiasi servizio di cui usufruiamo o per ogni app che scarichiamo, iscriversi (o disiscriversi) a qualche mailing list pubblicitaria, compilare mille e più form online con i nostri dati – senza nemmeno avere la certezza di sapere che fine faranno – sono tutte azioni tediose tanto quanto stare in fila alla posta o fare la dichiarazione dei redditi. La burocratizzazione è ormai talmente radicata che è stata inserita nel settore pubblico anche laddove era limitata, e proprio sulla base del modello privato, applicando una logica aziendale a qualsiasi settore. Basta parlare con un qualsiasi insegnante di scuola per rendersi conto dell’enorme quantità di tempo impiegata a compilare griglie di valutazione, schede, registri, programmi, relazioni, pianificazioni del budget e del monte ore: tutte attività che somigliano più a quelle di un imprenditore che a quelle di un docente.
Eppure, nonostante abbia sempre meno a che fare con l’organizzazione statale, la critica alla burocrazia è lasciata in mano alla destra, che la cita come prova dell’inefficienza dei programmi pubblici o dell’intervento dello Stato nell’economia. È Matteo Salvini a promettere “burocrazia zero”, non Enrico Letta, nonostante le scartoffie affliggano decisamente di più un richiedente asilo alle prese con l’Ufficio stranieri della propria città che il piccolo imprenditore leghista. La sinistra non parla di burocrazia, se non in maniera indiretta rifacendosi a concetti astratti come “efficienza”, “trasparenza” o “competività”, valori che, oltre a essere presi dal lessico e dalla logica aziendale che la sinistra dovrebbe combattere hanno, come si è visto, l’effetto indesiderato di creare ulteriore burocrazia.
Peter Drucker sognava una società senza documenti da siglare e senza colli di bottiglia creati dai mille passaggi tra i livelli intermedi della gerarchia: una società modellata sulle efficienti piccole e medie imprese. Oggi viviamo all’interno di questo sogno, che però assomiglia sempre più all’incubo distopico di Brazil. Per questo non possiamo lasciare la critica alla burocrazia esclusivamente in mano alla destra, che se ne serve solo per aumentare i consensi.