Dario Corallo difficilmente vincerà le primarie, ma intanto il Congresso Pd sembra averlo portato a casa lui. A distanza di qualche giorno, infatti, il suo intervento è l’unico che abbia attirato l’attenzione di chi non segue il dibattito congressuale per mestiere o masochismo. Non era neanche così imprevedibile che un outsider ottenesse questo risultato, anzi, è una situazione ricorrente nelle fasi più critiche della storia del partito: qualcosa di molto simile capitò quasi 10 anni fa dopo la caduta di Veltroni, quando a un’assemblea parlò una giovane Debora Serracchiani. Anche per questo Corallo non era l’unico giovane a proporre l’ennesima tabula rasa, l’ennesima rottamazione, ma se è riuscito a imporsi su YouTube e nelle discussioni in rete è perché ha avuto l’idea di scatenare una polemica con un personaggio che in rete funziona meglio di qualsiasi quadro del Pd: Roberto Burioni.
Con una mossa apparentemente pretestuosa, al culmine di un ragionamento un po’ confuso, Corallo ha avuto quel guizzo di genio che gli ha permesso di apparire sulle homepage di più testate nazionali. Anche perché Burioni se l’è presa – ma questa era la cosa più prevedibile di tutte – mettendo in guardia il Pd dalla “tentazione di fregarsene della scienza (e della salute delle persone), per accarezzare il pelo all’ignoranza”.
Corallo, ovviamente, non proponeva di ”fregarsene della scienza”, ma lamentava che il Pd avesse fatto proprie un insieme di dottrine economiche – più liberali che socialdemocratiche – scambiandole per scienza “esatta” e rifiutandosi di discuterle con gli elettori, così come Burioni si rifiuta di discutere seriamente coi NoVax. Ma i NoVax sono una frangia tutto sommato modesta dell’elettorato (anche se blandita da M5S e Lega); il Pd deve porsi il problema di recuperare un bacino molto più ampio. Evocando Burioni, Corallo è riuscito a dirottare un po’ di attenzione su di sé, ma a ben vedere ora non stiamo parlando di Corallo, ma di Burioni. Malgrado abbia colto l’occasione per ribadire che non intende impegnarsi in politica, è lui il vero vincitore del congresso. Non come candidato, ma come programma politico. Chiunque vincerà le Primarie – Zingaretti o Minniti, la gara non entusiasma – si troverà davanti a un bivio: essere burionisti o rinnegare il burionismo? Il Pd del 2019 sarà il partito delle eccellenze, dei professionisti di successo, o sarà il partito del “99% che non ce la fa”? Sembra che alla fine lo scontro – di cui c’è effettivamente bisogno – sarà questo. In attesa che Renzi si rifaccia vivo (impossibile pensare che non vorrà di nuovo dire la sua); in mancanza di candidati dalla personalità forte; nell’eclissi generale dell’ideologia, il burionismo è almeno un argomento su cui ci si può confrontare.
Ha anche il pregio della chiarezza: il burionismo non è così difficile da definire. È una forma di meritocrazia – parla solo chi è competente, parla solo chi è laureato – che da lontano può somigliare a quel caro vecchio elitismo, quell’attitudine snob che gli avversari della sinistra le hanno sempre imputato. Salvo che una volta la sinistra respingeva la definizione o, quando proprio non poteva respingerla, l’ammetteva con pudore, come una debolezza, un peccato originale; mentre il burionismo oggi rivendica la propria superiorità senza vergogna, anzi con una certa sfacciataggine – e in questo modo, paradossalmente, perde tutta quella patina snob e talvolta finisce per somigliare, nei toni urlati e sprezzanti, ai populisti che combatte: vedi come ha reagito all’intervento di Corallo la fanbase dei seguaci di Burioni su Twitter.
Il burionismo, poi, non poteva che nascere sui social: è una strategia comunicativa che ha senso soprattutto lì. E forse non è un caso che i grandi “blastatori” italiani su Twitter siano quasi tutti professionisti ultracinquantenni, che scoprono il mezzo quando ormai i giorni in cui erano abituati a confrontarsi tra pari sono un ricordo lontano. Paradossalmente è proprio questo approccio verticale a dare spettacolo, quando impatta contro l’architettura democratica dei social network e produce scintille: le “blastate”. La differenza tra il burionismo e il grillismo, o il leghismo 2.0 rifondato su Facebook da Salvini e Morisi non è il mezzo, infatti, ma il fine: il burionismo è arrogante perché deve proteggere la scienza e salvare delle vite. Di questo Burioni è convinto e non si stanca di spiegarlo – anche se non ha ancora i numeri per provarlo: blastare funziona. A chi gli obietta che le umiliazioni e gli insulti non hanno mai convinto nessuno, Burioni risponde che il suo scopo non è convincere i NoVax – per Burioni sono irrecuperabili – ma impressionare il pubblico che assiste agli scambi, e che evidentemente si lascia conquistare più da un blastaggio che da un ragionamento pacato. Il burionismo è uno scientismo cinico: crede nella scienza e solo nella scienza, ma allo stesso tempo non ritiene che la scienza sia comprensibile a tutti. La divulgazione dev’essere semplice, e includere qualche momento catartico-liberatorio in cui l’ignorante viene sollevato dallo spettacolo dell’umiliazione di qualcuno più ignorante di lui.
Questo per sommi capi è il burionismo, e non è detto che non funzioni. Il personaggio c’è, vende libri, va in tv, egemonizza il dibattito del principale partito d’opposizione, e nel frattempo le vaccinazioni aumentano – non necessariamente grazie a lui, ma aumentano. Non è così strano che il nome di Burioni desti più attenzione di quello di qualsiasi concorrente alla segreteria del Pd. Il Pd è reduce da un insuccesso storico; Burioni, per dirlo con le sue parole, è: “Qualcosa di unico sia dal punto di vista social media sia dal punto di vista editoriale, non solo nel nostro Paese”. Ma il burionismo può davvero diventare la base programmatica e la strategia comunicativa del Pd? Burioni diventò famoso quando gli capitò di scrivere che la scienza non è democratica, un’affermazione abbastanza controversa che fece breccia però immediatamente, al punto da alimentare un sospetto: non è che a tanti burionisti la scienza piace proprio perché non è democratica? Un bell’argomento per chi si scopre critico nei confronti del suffragio universale, per chi periodicamente propone di “superarlo”. Può il Partito Democratico ospitare in sé un punto di vista così poco democratico? E cosa succede – si domandava Corallo – quando dalla scienza “dura” si passa a discipline più controverse, come l’economia, la sociologia, l’ecologia? Come impedire che la fiducia nella competenza si trasformi in dogma, e il burionismo diventi una specie di religione? Ammesso che blastare i NoVax funzioni, possiamo pensare di blastare allo stesso modo i NoTav, fingendo che non abbiano argomenti e obiezioni sensati, basati su osservazioni, calcoli, ragionamenti?
Si sarà capito che per me tutte queste sono domande retoriche. Non credo che si possa essere burionisti e democratici, bisognerebbe scegliere: e in un partito che si chiama ancora “Democratico”, la scelta mi sembra ovvia – sempre che possiamo ancora permetterci di essere democratici. Forse è proprio questo il centro della questione. Corallo propone di andare verso il popolo, una proposta fin troppo ovvia per quello che in teoria sarebbe un partito di (centro) sinistra. Ma nella pratica il popolo è già stato opzionato da altri due partiti “populisti”, che si sono contesi lo stesso bacino elettorale con promesse imbattibili, e attualmente governano insieme. Certo, prima o poi saranno costretti a vedere i loro bluff, prima o poi ogni promessa elettorale rivelerà il suo lato oscuro, ma potrebbe volerci ancora qualche anno, e a quel punto è persino possibile che gli elettori reagiscano alla delusione cercando qualcosa di sensibilmente diverso. Per un partito politico in crisi la ricerca di un’identità coincide spesso con la ricerca di una nicchia elettorale e con due avversari populisti al governo, il Pd non potrebbe essere popolare e democratico, neanche se ci tenesse davvero.
Il burionismo, infine, offre un’altra possibilità. È un’ideologia elitaria ma non troppo, come abbiamo visto: si esprime in modo spesso rozzo e mediaticamente efficace; e in più ha un che di dogmatico che potrebbe davvero attirare molti delusi delle chiese grilline e leghiste – così come il Poi stalinista attirò molti ex fascisti dal ‘43 in poi. E poi c’è un altro aspetto, un po’ inquietante ma forse decisivo: il burionismo sembra fatto apposta per gli stati di emergenza, quei momenti in cui la democrazia viene sospesa “per forze di causa maggiore”. E in Italia spesso succede.
Non è affatto escluso che ci avviamo a una crisi di questo tipo. Sul fronte economico, gli scricchiolii si sentono forti e chiari – vedi l’ultima asta dei BTP – ma forse la situazione è ancora più grave. Alcuni dettagli del modo in cui il governo cerca di gestire lo smaltimento dei rifiuti ci lasciano sospettare che il sistema vada verso la saturazione. Non è nemmeno un mistero, Salvini lo dice chiaramente: servono altri inceneritori. Quel che non dice è che la qualità dell’aria – soprattutto in pianura Padana – è pessima, e che nei prossimi anni le patologie respiratorie non potranno che aumentare. In Francia, una situazione meno critica ha ispirato al governo misure draconiane che lo hanno portato allo scontro diretto con gli automobilisti: ma in Francia l’architettura costituzionale è diversa, il presidenzialismo consente a Macron più margine di azione almeno fino alle prossime elezioni – che nessun presidente in carica riesce a vincere dai tempi di Chirac. In Italia Salvini e Di Maio non potrebbero costringere a limitare le emissioni di polveri sottili neanche se volessero, il che significa che perderemo altro tempo e che prima o poi soffocheremo letteralmente. O più probabilmente ci ritroveremo, un attimo prima, in una di quelle situazioni in cui la democrazia smette di essere la priorità e si ritorna a invocare l’uomo forte che risolve i problemi. Un uomo competente, ovviamente, uno che ha studiato e che non è tenuto a fornire troppe spiegazioni per quello che fa. Senz’altro non Burioni – che, appunto, non intende candidarsi – ma forse il burionismo è la risposta che la Rete ha elaborato al problema che si stava facendo avanti; forse è una strategia che ci stiamo inventando per prepararci a una tecnocrazia prossima ventura. Il Pd non era nato per essere tecnocratico, ma a questo punto lo spazio per diventare qualcosa di diverso forse non c’è più, e soprattutto forse non c’è più tempo.