La mia ultima permanenza nel Regno Unito risale al 2019. All’epoca vivevo a Bristol, sulla costa sud-ovest dell’Inghilterra e ricordo quanto mi disorientasse immaginare che, di lì a poco, tornare a mettere piede su quel suolo non sarebbe più stato così semplice. In quel periodo, la popolazione britannica era spaccata in due: c’erano i “Brexiters” (o leavers), che nel 2016 avevano votato a favore dell’uscita del Regno Unito dall’UE; e i “Remainers” (o “Remoaners”, dalla fusione di remainer e moan, lamento), ovvero chi, contrario alla Brexit fin dall’inizio, non aveva mai smesso di ribadire quanto l’approvazione del piano fosse stata un errore. Oggi, a occupare maggior spazio nel dibattito pubblico britannico, ma non solo, non sono né i leavers, né i remainers, ma bensì i “Bregretters” (da regret, rimpianto), ex secessionisti che, costretti a scontrarsi con la realtà, negli ultimi anni hanno visto le proprie illusioni indipendentiste crollare irrimediabilmente, con un andamento contrario a quello delle bollette da pagare.
Fra le cause della crisi economica che sta colpendo il Regno Unito non rientra solo la Brexit. Come notano gli analisti, infatti, l’economia britannica non si era mai realmente ripresa dalla crisi finanziaria del 2008 e nel 2019, quando Boris Johnson divenne Primo Ministro, il Paese versava già in una situazione economica “stagnante e squilibrata”. A ciò sono seguiti i danni causati dalla pandemia, l’impennata dei prezzi e l’aumento del costo dell’energia conseguenti all’invasione russa in Ucraina e, infine, l’ulteriore svalutazione della sterlina registrata durante il breve, quanto disastroso, governo dell’ex premier Liz Truss. La situazione, però, sarebbe stata decisamente più gestibile se le risorse a disposizione degli ultimi tre esecutivi – Johnson, Truss e Sunak – fossero state interamente destinate alla ripresa post-Covid e ad arginare le conseguenze della guerra, invece di andare disperse nel tentativo di contenere i danni che il Paese si era appena auto-inflitto con la scelta di isolarsi dall’Unione Europea.
Lo scorso novembre, la necessità di lavoratori e lavoratrici di protestare contro lo stagnamento dei salari – rimasti pressoché immutati a fronte di un’inflazione ormai stabilmente superiore al 10% – ha portato alla proclamazione di una serie di scioperi ai quali hanno aderito, nei mesi successivi, sempre più categorie professionali, dal settore dei trasporti a quello universitario, passando per ambulanze, personale infermieristico e forze armate di frontiera. Le manifestazioni si protrarranno per tutto il mese di febbraio, includendo anche insegnanti, fisioterapisti e impiegati presso gli uffici postali: per molti si tratterà di un’esperienza inedita, se si pensa che l’ultima ondata di scioperi di questa portata risale addirittura a prima degli anni Novanta.
A fronte di una situazione sempre più insostenibile, con oltre quindici milioni di famiglie al di sotto della soglia della povertà, a oggi l’unica risposta del Governo è consistita – oltre che nell’erogazione di una serie di bonus e nell’istituzione di uno sconto di 400 sterline sui costi delle bollette – nella redazione di una nuova legge anti-sciopero, la cosiddetta “Strikes Bill”. Se approvata, la legge istituirebbe in alcuni settori – sanitario, antincendio, educativo, dei trasporti e della sicurezza alle frontiere – dei “livelli minimi di servizio”, obbligando così i sindacati a individuare in anticipo i dipendenti che, in caso di sciopero, sarebbero comunque tenuti a lavorare e impedendo a questi ultimi di astenersi dal lavoro senza rischiare il licenziamento. Fortemente contrari all’iniziativa, già promossa da tempo dal partito conservatore, non sono però solo i laburisti e i rappresentanti dei sindacati – i quali hanno definito la Strikes Bill “impraticabile, illegale e antidemocratica” –, ma anche alcuni esponenti degli stessi tories, per i quali il documento costituirebbe un “esempio eccezionale di legge ambigua e scritta male”. Così, mentre a Westminster i partiti continuano a litigare, le istanze di lavoratori e lavoratrici continuano a restare sullo sfondo.
Per chiunque viva in Regno Unito, è sufficiente guardarsi intorno per comprendere quanto il progetto secessionista abbia rappresentato un fallimento: a confermarlo, infatti, non sono solo i sondaggi – secondo un’indagine YouGov, i cittadini britannici soddisfatti dei risultati della Brexit sarebbero poco più del 30% –, ma soprattutto la quotidianità. Con i prezzi del cibo alle stelle e una situazione energetica che, lo scorso luglio, l’economista Jonathan Marshall non ha esitato a definire “catastrofica”, sono sempre di più le famiglie – soprattutto se residenti al nord e nelle aree più rurali del Paese – per le quali arrivare a fine mese senza patire la fame o il freddo è sempre meno scontato. “Il prezzo di alcuni alimenti è triplicato, ma il vero problema è l’energia: l’ultima bolletta del gas è costata alla mia famiglia più di 700 sterline”, mi ha riferito un amico che vive a Londra. In pochi possono permettersi queste cifre.
Stando a quanto riportato dal Guardian, a settembre 2022, quando le temperature miti ancora non rendevano necessario accendere il riscaldamento, in alcune scuole elementari gli studenti più poveri fingevano di mangiare da un contenitore vuoto o masticavano la cancelleria pur di non sentire la fame; in altri casi, la necessità di ridurre al minimo i consumi casalinghi aveva invece fatto sì che i genitori concedessero ai figli non più di una doccia a settimana. Nello stesso periodo, alcuni esperti stimavano che l’impatto respiratorio legato alla necessità di trascorrere l’inverno in case fredde e umide si sarebbe tradotto in una vera e propria crisi umanitaria, soprattutto nel caso di bambini e persone fragili. Ad attendere i pazienti, sempre più numerosi, si ritrova però un sistema sanitario al collasso per mancanza di personale, soprattutto chirurghi e medici specialisti. Negli ultimi anni, al personale ospedaliero già deciso a licenziarsi a causa delle condizioni di vita insostenibili si sarebbero infatti aggiunte migliaia di medici europei che, scoraggiati dalle complicazioni che una permanenza in Uk avrebbe comportato, hanno scelto di trasferirsi altrove, svuotando così il Paese di professionalità preziose.
Con i servizi pubblici di welfare sempre più in crisi, le iniziative maggiormente in grado di offrire alla popolazione un aiuto concreto – seppur provvisorio – sono quelle promosse dalla comunità stessa. È il caso delle cosiddette “banche del caldo” (warm banks), spazi chiusi, riscaldati e arredati in modo accogliente – generalmente biblioteche, centri sociali o luoghi di culto, ma anche pub, negozi e persino gallerie d’arte – destinati ad accogliere, per qualche ora al giorno, chiunque non possa permettersi di coprire i costi del riscaldamento – generalmente persone anziane o giovani donne con figli. Al momento, le warm banks ufficiali – registrate cioè sul sito della Warm Welcome Campaign, l’organizzazione che raccoglie le localizzazioni delle varie warm banks sparse nel Regno Unito – sono oltre 4mila, ma è probabile che quelle effettive siano, in realtà, molte di più.
Le banche del caldo operano secondo gli stessi prìncipi delle più conosciute “banche alimentari” (food banks), destinate alla distribuzione gratuita di pasti e gestite da volontari. Frequentate tanto dai cittadini britannici quanto dalle persone migranti, le food banks faticano però a coprire l’intera domanda della popolazione, e non è raro che il cibo a disposizione finisca prima di riuscire a sfamare tutte le persone in attesa. Per queste ultime, l’unica alternativa sarà costituita dal digiuno: secondo una ricerca condotta dalla Russel Trust, la più grande rete di banche alimentari del Regno Unito, infatti, il 95% di chi consuma i propri pasti presso le food banks è a tutti gli effetti “indigente”, incapace, cioè, di soddisfare autonomamente i propri bisogni essenziali. Negli ultimi sei mesi, le persone che hanno usufruito delle food banks per la prima volta sono state circa 320mila: alcune di queste sono addirittura le stesse che, in passato, erano solite donare regolarmente cibo o denaro agli stessi servizi.
Il ruolo svolto dalle banche del cibo e del caldo non si limita, però, alla loro funzione “ufficiale”: per molte persone appartenenti alle fasce economiche più basse, infatti, esse costituiscono anche l’unica occasione per entrare in contatto con altri individui della propria comunità e contrastare, per quanto possibile, la propria solitudine. Si tratta di un beneficio tutt’altro che secondario: il ruolo svolto dalla povertà – nonché dall’isolamento sociale che essa comporta – sulla probabilità di sviluppare una qualche forma di disagio psichico, infatti, è noto da tempo e si prevede che, come già avvenuto in passato, l’impatto della recessione sulla qualità di vita della popolazione si tradurrà presto in un netto aumento dei tassi di suicidi e di patologie psichiatriche. Per migliaia di persone, soprattutto bambini e adolescenti, quel momento è già arrivato.
Il 31 gennaio, in occasione del terzo anniversario dalla sua entrata in vigore, il Guardian ha definito la Brexit un “doloroso atto di autolesionismo nazionale”: un’opinione molto simile a quella del mio amico londinese, che con evidente sconforto ha concluso la nostra conversazione sospirando “This country has gone to shit” (“Questo Paese è andato a farsi fottere”). Lo scenario attuale non è solo il peggiore che si potesse immaginare, ma anche l’unico possibile nel momento in cui, nel Ventunesimo secolo, la Gran Bretagna si era illusa di poter riconquistare lo splendore economico della propria – idealizzata – epoca coloniale, rigettando qualsiasi forma di europeismo in favore del più completo isolamento – un atteggiamento che gli esperti hanno recentemente definito “nostalgia imperialista”. L’unico risvolto positivo di questo disastro annunciato è che, al contrario dell’attuale classe dirigente britannica, i cittadini europei sembrano aver imparato la lezione: nel 2018, anche prima cioè che la reazione dell’UE all’invasione russa in Ucraina fornisse un ulteriore impulso a questo sentimento, il supporto della popolazione al progetto europeo era, infatti, più alto che mai.