A metà settembre è uscita l’ultima versione del Monopoly, il famosissimo gioco da tavolo di Hasbro: si chiama Ms. Monopoly, e questa volta l’obiettivo del gioco non è l’accumulare ricchezza dominando il mercato immobiliare ma finanziare imprenditrici talentuose, aiutandole a far crescere le loro innovative aziende. Il gioco ha fatto molto parlare di sé soprattutto per un’importante modifica al regolamento: in questa versione di Monopoly, infatti, le giocatrici guadagnano più dei giocatori, sin dall’inizio e in quanto tali. Il capitale iniziale delle giocatrici ammonta a 19.000 dollari, quello dei giocatori a 15.000. Quando passano dal Via, le giocatrici guadagnano 240 dollari, i giocatori 200. Secondo Hasbro, questa regola permetterà ai giocatori di assumere una “nuova prospettiva” in cui le donne godono di vantaggi che nel mondo reale sono appannaggio degli uomini, di “aprire la discussione sull’uguaglianza di genere e sull’importante ruolo degli uomini nell’empowerment delle donne”. Se un uomo guadagna più di una donna infatti sembra una cosa normale, ma se succede l’opposto il primo pensiero che salta in mente è quello sarcastico del “Ti piace vincere facile” o quello paternalista del “Ti lascio/Ti aiuto a vincere”, che va smantellato. Ma c’è un altro problema.
Poco dopo l’uscita del comunicato stampa di presentazione del gioco, la giornalista Mary Pilon ha scritto un pezzo per il New Yorker in cui la svolta femminista della Hasbro viene rivelata per quello che è: un’operazione di marketing mal pensata, mal riuscita e ipocrita. Pilon è l’autrice di “The Monopolists”, libro che racconta la storia dell’invenzione di Monopoli e della creatrice del gioco, Elizabeth Magie. Per essere precisi: Magie è l’inventrice del gioco solo se si considerano due brevetti registrati, gli archivi dello U.S. Census, la Corte Suprema, il National Women’s History Museum, lo Smithsonian, molti articoli giornalistici e diverse deposizioni giurate. C’è chi pensa che queste prove non siano sufficienti per riconoscere a Magie l’invenzione di Monopoly: la Hasbro, per esempio, non l’ha mai neanche citata tra i game designer che hanno contribuito all’invenzione del gioco. Nonostante Magie avesse depositato già nel 1904 un brevetto per un gioco chiamato The Landlord’s Game, l’azienda fa risalire l’origine di Monopoly a un brevetto del 1935 attribuito a Charles Darrow.
La Hasbro è solo una delle aziende che hanno tentato (e fallito) con il purpose driven marketing, l’ultima fissazione del mondo della pubblicità. Funziona così: l’azienda sceglie una causa (ad esempio la lotta al razzismo, al sessismo, all’omofobia, la tutela ambientale o la denuncia delle violenze della polizia) e attorno a essa costruisce la sua strategia di marketing, con l’obiettivo di mostrarsi coinvolta nelle lotte sociali di quest’epoca, di definirsi come agente del miglioramento e del progresso socio-culturale che di quelle lotte sociali è l’obiettivo, di stabilire una connessione con i consumatori basata sulla condivisione di valori.
Per decenni le aziende hanno rifiutato qualsiasi responsabilità sociale e seguito alla lettera il Vangelo secondo Milton Friedman: “Negli affari, c’è solo una e una sola responsabilità sociale: usare le proprie risorse e affrontare le attività economiche in modo da aumentare i profitti”. Quelle stesse aziende ora dicono che sì a loro interessa il profitto economico ma anche la salvezza del mondo. Il cambiamento però è così radicale che non bastano milioni di dollari in campagne di marketing per convincere i consumatori della sua sincerità: secondo il Trust Barometer 2019 di Edelman, solo il 34% dei consumatori infatti si fida dei marchi di cui acquista i prodotti, il 41% afferma di non nutrire alcuna fiducia nei loro confronti e il 53% ritiene che non siano socialmente impegnati come dicono di essere.
Fino a ieri la maggior parte delle corporation ha preferito mantenere le distanze dal dibattito politico perché “anche i repubblicani comprano scarpe”: così si dice abbia risposto Michael Jordan a un giornalista che gli chiedeva perché non prendesse posizioni politiche. Una scelta conservatrice da parte delle aziende, nonostante le ricerche mostrino chiaramente che il pubblico ormai è in cerca di un’altra cosa: la Harvard Business Review afferma che il 77% dei consumatori non vuole instaurare un rapporto con i brand e che l’87% degli stessi non ha nessuna fedeltà nei confronti dei marchi. C’è solo una cosa che oggi sembra spingere chi compra ad “attaccarsi” a chi vende: la condivisione di valori. Secondo Mark Schaefer, tra il 60 e il 70% dei consumatori vuole che i propri acquisti abbiano un significato, e per questo sono disposti a spendere fino al 25% in più.
La prima azienda ad agire di conseguenza a questi fatti è stata la Nike con la campagna “Just Do It” con protagonista Colin Kaepernick, il giocatore di football diventato famoso in tutto il mondo per la sua protesta contro il razzismo e le violenze della polizia negli Stati Uniti, un uomo controverso e divisivo per usare un eufemismo. Risultato della campagna pubblicitaria: incitazioni al boicottaggio sui social network e roghi di scarpe in pubblica piazza, 10% di aumento del fatturato, 7.2% di crescita del valore del titolo azionario, 43 milioni di dollari di extra-esposizione mediatica. Commentando questi numeri, Jerry Davis, professore di economia all’Università del Michigan, disse che “[…] i consumatori disposti a spendere 200 dollari per un paio di Nike non sono quelli che boicottano per via di Kaepernick”. Davis tocca un tema fondamentale nella discussione sul purpose driven marketing: Nike sapeva che il boicottaggio sarebbe stata la reazione di persone che in ogni caso quelle scarpe non le avrebbero comprate, sapeva che scegliendo quella parte del campo di battaglia si sarebbe ritrovata accanto la gran parte dei suoi consumatori. Ma si può considerare nobile una scelta fatta con la certezza di non correre un rischio diverso dall’inevitabile rischio d’impresa? Si può definire politica una decisione presa solo dopo essersi assicurati che il fatturato non ne risentirà? Si può considerare sincera un’opinione espressa solo dopo aver ricevuto conferma dal dipartimento ricerca e marketing?
L’amministratore delegato di Unilever, Alan Jope, ha detto che questo modo di far pubblicità rischia di “distruggere la già poca fiducia di cui gode la nostra industria”. Jope ha parlato infatti di “woke washing”, una deformazione del purpose driven marketing nata dal contrasto tra quello che le aziende dicono nelle loro pubblicità e i comportamenti che poi adottano nella quotidianità. Audi, ad esempio, spende milioni di dollari per acquistare uno spazio pubblicitario durante il Super Bowl e usarlo per sostenere la battaglia femminista “Equal pay for equal work”, ma poi si scopre che al momento della messa in onda dello spot l’azienda non aveva neanche una donna in consiglio di amministrazione o nell’executive team. Burger King lancia i Real Meal, un Happy Meal in cui panino, patatine e bibita vengono serviti in un pacchetto il cui design copre tutto lo spettro delle emozioni umane, perché non bisogna per forza essere happy, perché #itsokaytofeelyourway. La catena di fast food dichiara così di voler contribuire a migliorare il dibattito su temi come salute mentale, depressione e molestie, ma non risulta troppo credibile quando si scopre che nell’assicurazione sanitaria che fornisce ai suoi dipendenti non è prevista la copertura per la cura di patologie psichiatriche. Feminist Apparel può chiamarsi così e vendere tote bag con su scritto “Pizza rolls not gender roles”, ma la cosa non suona troppo sincera se poi si legge del licenziamento di tutte le dipendenti dell’azienda che avevano chiesto le dimissioni del fondatore e amministratore delegato Alan Martofel dopo che quest’ultimo aveva ammesso di aver molestato diverse donne. La statua della Fearless Girl che affronta il Toro di Wall Street, infine, è una trovata pubblicitaria della State Street Global Advisor per promuovere un index fund composto da aziende con tante donne in ruoli di primo piano. State Street è composta per l’82% da uomini ed è stata accusata di pagare le donne meno degli uomini, un’accusa che l’azienda ha speso 5 milioni di euro per risolvere con un patteggiamento.
Le aziende possono contribuire al miglioramento del mondo, ma per essere credibili quando dichiarano questa intenzione devono partire in primis da se stesse, da quei pezzi di società che controllano e influenzano, da iniziative che magari prevedano di perdere dei soldi invece che di guadagnarne, per costruire almeno una coerenza di base e non limitarsi a strumentalizzare battaglie molto importanti e sentite, contribuendo a svuotarle di significato. Le aziende possono partecipare al dibattito pubblico, ma devono dimostrare di non considerare le lotte sociali solo come un altro spazio pubblicitario da occupare, devono dimostrare di essere consapevoli delle sofferenze e delle rivendicazioni di chi protesta e di non avere a cuore solo la loro attenzione e il loro portafogli. Se Gillette vuole combattere la mascolinità tossica e schierarsi dalla parte del movimento MeToo, bene, ma tenga conto che a nessuno piace prendere lezioni di femminismo da un’azienda di rasoi che per decenni ha contribuito a costruire e a rafforzare quella stessa mascolinità tossica che ora condanna. Se Pepsi vuole dare il suo contributo al dibattito sul razzismo istituzionale e sulle violenze della polizia ai danni delle minoranze etniche, allo stesso modo si sforzi di comprendere la drammaticità del problema: un afroamericano ha le stesse probabilità di andare al college o di essere ucciso da un poliziotto, e questo non è un problema che si risolve scambiandosi un segno di pace, venendosi incontro, trovando terreno comune, e men che meno comprando un prodotto. Se Paddy Power vuole parlare di omofobia nel calcio e denunciare l’anomalia statistica che vede 0 omosessuali dichiarati tra i 500 calciatori della Premier League, fantastico, ma l’azienda di scommesse cerchi di capire che la ragione di un mancato coming out è spesso la paura delle conseguenze in famiglia, sul lavoro e in società. Non è un problema che si affronta dipingendo d’arcobaleno un pullman scoperto, ribattezzandolo il “pullman ufficiale dei calciatori professionisti gay” e spedendolo al Pride di Brighton al grido di “Come out and play”.
Le aziende possono e dovrebbero attraverso le loro politiche interne contribuire al miglioramento della società. Ma perché i cittadini credano nelle loro buone intenzioni, devono fare qualcosa di più radicale, rischioso e coraggioso. Milioni di dollari spesi in grandi campagne di marketing non bastano a cancellare dalla consapevolezza collettiva il fatto che l’obiettivo di ogni azienda è il profitto. Per quanto nobili possano sembrare i loro intenti e riuscite le loro pubblicità, l’attivismo politico secondo le corporation al momento consiste comunque nell’acquisto di un prodotto. Per quanto le tradizionali istituzioni politiche abbiano evidenti difficoltà a costruire identità, a orientare il dibattito, a formare l’opinione pubblica, a sostenere cause, a cambiare la società, non si possono sostituire i partiti con le aziende, le manifestazioni di piazza con la condivisione di uno spot su Facebook, la discussione pubblica con la diffusione di un hashtag su Twitter, le opinioni politiche con le preferenze d’acquisto, l’attivismo con il consumismo.
I grandi movimenti politici e civili del Novecento erano consapevoli dell’importanza di occupare il dibattito, di attirare l’attenzione dei media e di farsi ascoltare dall’opinione pubblica. Ma erano consapevoli anche del fatto che queste erano solo le premesse necessarie al miglioramento della società: le parole dovevano poi diventare iniziative sociali e culturali da proporre ai cittadini, proposte di legge da portare nelle assemblee rappresentative, sostegno elettorale da dare a un candidato. Per quanto la società sia cambiata e continui a cambiare, è cambiata sempre e soltanto quando qualcuno ha utilizzato al meglio questi strumenti. Nessuno ha mai cambiato nulla spendendo 200 dollari per un paio di scarpe.