Il Coronavirus è stato in grado di portare alla luce problemi mai risolti del nostro Paese che prima non vedevamo o che fingevamo non esistessero. Nelle ultime settimane ci si sta rendendo conto che il settore dell’agroalimentare italiano si regge per una grande parte sulla manodopera straniera, in molti casi irregolare. Un sistema che favorisce sfruttamento, violazione dei diritti umani basilari e incassi miliardari per la criminalità organizzata e gli imprenditori che sfruttano il sommerso, con un danno tanto per i diritti dei lavoratori del settore quanto per i datori di lavoro che agiscono nel rispetto della legge.
Ci sono volute tonnellate di frutta e verdura a marcire nei campi e agricoltori e imprenditori sull’orlo della disperazione per la mancanza di manodopera perché si cominciasse a parlare di regolarizzazione dei braccianti stranieri. Come prevedibile, non sono mancate le polemiche di chi riesce comunque a gridare allo scandalo. Mentre a fine marzo in Portogallo il governo ha regolarizzato tutti gli stranieri senza documenti perché la pandemia ha messo a repentaglio il loro diritto alle cure, in Italia si è cominciato a discutere della possibilità di regolarizzare i braccianti stranieri nel settore agricolo soltanto ora che l’emergenza sanitaria rischia di avere ripercussioni anche sul mercato alimentare e sul suo indotto.
La Coldiretti a metà aprile stimava già oltre 200 milioni di euro di danni sui raccolti, con possibili effetti anche sulla stabilità dei prezzi. La Confederazione degli agricoltori italiani (Cia) parla di un ammanco complessivo per oltre il 40% della produzione lorda vendibile e, per quel che riguarda le esportazioni, già nel mese di Marzo l’Istat aveva rilevato un crollo dell’export complessivo italiano verso l’area extra europea del 13,9%. Sempre secondo i dati forniti da Coldiretti, al momento nei campi italiani mancano all’appello almeno 200mila lavoratori e bisognerà sostituire molti dei 370 mila stagionali stranieri bloccati alle frontiere per le misure di sicurezza anti COVID-19. Nella maggioranza dei casi si tratta di lavoratori stranieri stagionali, europei o extracomunitari, che ogni anno raggiungono l’Italia per il periodo delle raccolte; molti arrivano dall’Est Europa, spesso dalla Romania.
Tanti altri dall’inizio della pandemia sono barricati negli insediamenti abusivi in cui vivono, con la paura di uscire perché temono il contagio. A Borgo Mezzanone, un ghetto nel foggiano tra i più affollati del Sud Italia, i 2mila braccianti implorano gli italiani di non entrare. È uno dei tanti ghetti presenti su tutto il territorio nazionale, perché contrariamente a quanto si crede non è un fenomeno limitato al Mezzogiorno. Si tratta di buchi neri del sistema di accoglienza nei quali gli unici vincitori sono il degrado e la criminalità vecchia e nuova, come la mafia nigeriana.
Se ora mancano i braccianti è anche perché molti con l’emergenza sanitaria si sono resi conto che le loro condizioni e i loro salari, senza diritti e senza tutele, non valgono la loro vita e la loro dignità. “Nei campi non mancano braccianti ma diritti”, ha affermato Aboubakar Soumahoro, dirigente sindacale italo-ivoriano dell’Usb in prima linea dall’inizio della pandemia nelle campagne pugliesi insieme ai volontari per distribuire mascherine e disinfettante. Mentre le autorità continuano a ripetere di stare a casa e di lavarsi le mani, c’è chi non ha una casa e non può rispettare il distanziamento sociale, e molto spesso non ha accesso neanche ad acqua corrente ed elettricità. Lo scorso luglio Soumahoro ha occupato con un gruppo di braccianti la basilica di San Nicola di Bari per chiedere alla regione Puglia e al governo azioni concrete al riguardo e abbandonare questo regime di indifferenza. Sono quasi 4mila i braccianti agricoli che solo tra la Calabria e la Puglia abitano in insediamenti privi delle minime condizioni igieniche e di decenza, gli stessi che durante questa pandemia hanno continuato a lavorare nei campi senza i dispositivi di tutela. Solo nella Piana calabrese di Gioia Tauro sono circa 1200 i braccianti che vivono nelle tendopoli.
Da Terraingiusta, dossier che da cinque anni Medu (Medici per i Diritti Umani) fornisce sulle condizioni di vita e di lavoro dei braccianti stranieri nella piana di Gioia Tauro, emerge che le condizioni di vita dei braccianti continuano a deteriorarsi. A Rosarno, dove nel gennaio 2010 scoppiò la rivolta dei migranti contro caporalato e condizioni disumane, non è cambiato nulla. Dal 2018 al 2019 in un solo anno quattro persone sono morte carbonizzate in incendi che hanno coinvolto baracche di fortuna. Incendi come quello in cui è morto Moussa Ba a 28 anni, quando la roulotte dove dormiva è stata distrutta dalle fiamme, o il 18enne Suruwa Jaiteh, o ancora Sylla Noumo, morto carbonizzato a 32 anni. La vita dei braccianti non è minacciata solo da incidenti e condizioni di vita indegne, ma anche da aggressioni violente e razziste: sempre a San Ferdinando, nel giugno 2018 venne ucciso a colpi di fucile il giovane sindacalista Sacko Soumayla e altri due braccianti vennero feriti mentre stavano cercando delle lamiere per costruire un alloggio di fortuna nella tendopoli. Questo clima di illegalità diffusa e disprezzo per i diritti umani di base non colpisce soltanto gli immigrati irregolari, ma ha ormai corrotto larghe fasce del comparto agricolo, come dimostra la vicenda di Paola Clemente, uccisa dalla fatica il 13 luglio 2015 mentre raccoglieva l’uva ad Andria per 2 euro l’ora.
È quasi impossibile parlare di lavoro agricolo irregolare senza nominare la piaga del caporalato. Il 23 aprile sono emersi i dettagli di un’inchiesta che ha fatto scattare le manette per due imprenditori agricoli, accusati di sfruttare dipendenti stranieri e irregolari costringendoli a lavorare per più di dieci ore al giorno con una paga di 4 euro l’ora. Un’azienda agricola su quattro in Italia (30mila in totale) si affida all’intermediazione del caporale per reclutare la forza lavoro. L’ultimo rapporto dell’Osservatorio Placido Rizzotto su agromafie e caporalato parla di paghe medie che si aggirano intorno ai 20-30 euro al giorno, con un orario medio che oscilla tra le 8 e le 12 ore. In alcuni casi si parla di un compenso a cottimo di 3-4 euro per ogni cassone da 375 chili riempito. Si tratta di salari inferiori di circa il 50% rispetto a quanto previsto da Contratto collettivo nazionale di lavoro (Ccnl) e Contratto collettivo provinciale del lavoro (Ccpl). Nelle realtà più gravi di sfruttamento analizzati è emerso addirittura che lavoratori migranti percepivano un salario di un euro l’ora. Le donne sotto caporale sono doppiamente discriminate e percepiscono un salario ancora inferiore del 20% rispetto agli uomini.
Se ricostruire le condizioni degli stranieri irregolari occupati nel settore agricolo può essere complicato, la loro presenza nel comparto è un dato strutturale che ha trasformato la nostra società e il sistema economico. Sono circa 700mila i lavoratori stranieri impegnati nell’agroalimentare in Italia e di questi circa 400mila sono vittime del caporalato. Sempre secondo il quarto Rapporto su caporalato e agromafie dell’Osservatorio Placido Rizzotto con Flai Cgil, il lavoro irregolare nel nostro Paese vale 77 miliardi di euro, incidendo per il 15,5% sul valore aggiunto del settore agricolo.
Purtroppo tutte le proposte al vaglio in questo momento che riguardano la regolarizzazione dei migranti irregolari sono focalizzate sul reperire manodopera, senza porsi l’obiettivo più lungimirante di mettere fine allo sfruttamento. Alcune associazioni di categoria e imprenditori propongono di far lavorare i percettori del reddito di cittadinanza o chi al momento è inoccupato. Si pensa anche alla proposta di un “corridoio verde” con alcuni dei Paesi da cui parte il maggior numero di stagionali o alla reintroduzione dei voucher, a cui però restano contrari i sindacati per il rischio di aumentare i casi di sfruttamento.
Come ha affermato la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, “la questione nasce dall’esigenza di trovare una soluzione ai problemi che stanno emergendo nel settore dell’agricoltura”. Nella bozza del decreto in 18 articoli che sarà presto resa definitiva, all’articolo 1 si afferma che “al fine di sopperire alla carenza di lavoratori nei settori di agricoltura, allevamento, pesca e acquacoltura” chiunque voglia mettere sotto contratto di lavoro subordinato “cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale in condizioni di irregolarità” può fare domanda allo sportello unico per l’immigrazione. Il contratto non deve essere superiore a un anno e genera, dopo una serie di verifiche burocratiche, un permesso di soggiorno rinnovabile tramite nuovi rapporti di lavoro.
Per come è concepito adesso, il nuovo decreto rischia di trasformarsi nell’ennesima legge disumanizzante nel solco della legge Bossi-Fini, dando un valore al permesso di soggiorno solo nella misura in cui l’avente diritto è utile alle esigenze dell’economia del Paese. La regolarizzazione è fondamentale per fare uscire queste persone dalla loro invisibilità, ma non è una misura sufficiente se non si supera il concetto di esclusione alla base delle politiche in tema di immigrazione, lavoro e accoglienza in Italia. La pandemia può diventare una grande occasione per lasciarsi alle spalle questo approccio con proposte che rimettano al centro la dignità e i diritti umani di tutti i lavoratori, irregolari e regolari. Nei suoi ultimi discorsi Giuseppe Conte ha spesso parlato di un “nuovo umanesimo” in politica. Ora bisogna passare dalle parole ai fatti perché i braccianti, prima di essere lavoratori, sono esseri umani.