La querelle che si sta consumando in queste ore a colpi di botta e risposta tra Laura Boldrini e Mattia Feltri è forse uno dei momenti più imbarazzanti del giornalismo italiano. Ho pensato a quale aggettivo potesse meglio riassumere il momento in cui il direttore responsabile di Huffington Post decide di non pubblicare un intervento sul blog che Boldrini tiene sulla testata dal 2012 perché “conteneva un apprezzamento spiacevole su mio padre Vittorio”, e non mi è venuto in mente altro che cringe, che in italiano non ha un corrispettivo preciso, l’imbarazzo per procura che si prova quando qualcuno fa qualcosa di talmente fuori luogo da far sentire a disagio anche noi. Questa vicenda racchiude infatti quella che probabilmente è la caratteristica più spiacevole del giornalismo italiano (e non solo): il familismo, l’interesse personale che sovrasta quello pubblico, condito peraltro dalla solita buona dose di paternalismo che qui, da sostantivo astratto, si materializza nell’ostinata protezione di Mattia Feltri nei confronti del padre andando a colpire una donna che parla di violenza sulle donne.
Il tutto comincia con un intervento di Boldrini previsto il 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, che citava alcune notizie delle ultime settimane, tra cui il caso di revenge porn della maestra di Torino e l’arresto dell’imprenditore Alberto Genovese, accusato di violenza sessuale ai danni di una ragazza di diciotto anni. Il testo si concentrava in particolare sulla rivittimizzazione secondaria, o victim blaming, cioè la pratica di imputare alla vittima la colpa della violenza subita. A un certo punto Boldrini cita anche l’editoriale di Libero sul caso Genovese, scritto da Vittorio Feltri: “Mi riferisco polemicamente a quei giornali che fanno di misoginia e sessismo la propria cifra. Cosa dire del resto dell’intervento di ieri di Feltri su Libero, in cui si attribuiva la responsabilità dello stupro non all’imprenditore Genovese ma alla ragazza diciottenne vittima?”. Stando a quanto raccontato sia dall’onorevole che dal direttore di HuffPost, Mattia Feltri chiede di omettere il riferimento. Boldrini si rifiuta, dicendo che avrebbe reso pubblica la vicenda, e così ha fatto.
La toppa di Feltri, come dice il proverbio, è peggio del buco. Se già il direttore si era messo in una posizione discutibile preferendo non fare uno sgarbo al padre piuttosto che pubblicare l’articolo così com’era, la risposta – arrivata in seguito alle numerose critiche – riesce a essere peggiore per toni e contenuti: “Ritengo [Boldrini] sia libera di pensare e di scrivere su mio padre quello che vuole, ovunque, persino in Parlamento, luogo pubblico per eccellenza, tranne che sul giornale che dirigo. […] Al pari di ogni direttore, ho facoltà di decidere che cosa va sul mio giornale e che cosa no. Se questa facoltà viene chiamata censura, non ha più nessun senso avere giornali e direttori. Oltretutto l’onorevole Boldrini, come altri, su HuffPost cura il suo blog. Quindi è un’ospite. E gli ospiti, in casa d’altri, devono sapere come comportarsi”. Boldrini ne prende atto e pubblica l’editoriale sul Manifesto.
Senza chiamare in causa la censura, come ha fatto Feltri, l’assurdità di questa storia si misura dalle premesse. È vero, il direttore ha facoltà di decidere l’andamento e la linea del suo giornale, come stabilisce anche il contratto nazionale di lavoro giornalistico, ma in quanto giornalista ha anche altri obblighi: come ha scritto il presidente dell’Ordine dei giornalisti, “privatamente si è devoti al proprio genitore, pubblicamente si esercitano ruoli e responsabilità”. Feltri avrebbe potuto far uscire questo articolo e risolvere tutto con una conversazione privata con il padre – tra l’altro strenuo difensore della libertà di espressione, finché non ne è lui il bersaglio. Ha invece deciso di non pubblicare l’articolo perché conteneva “un apprezzamento spiacevole su mio padre Vittorio”, quando Boldrini ha soltanto riferito il contenuto di un articolo di cui Vittorio Feltri sembra peraltro andare molto fiero. Se Mattia voleva preservare proprio rapporto col padre – problema che non dovrebbe nemmeno porsi nell’ottica di un giornalismo imparziale ed etico – avrebbe potuto anticipare la polemica spiegando perché aveva ritenuto di non pubblicare l’intervento di Boldrini. Sarebbe stato criticato lo stesso, ma almeno non avrebbe fatto la figura del censore.
Ma è la seconda risposta di Mattia Feltri a rivelare la natura di questo scontro: ecco che Boldrini diventa “non ragionevole”, “non corretta” e i suoi comportamenti “fanatismi”, le “accuse di sessismo e altre fantasie […] il napalm dei nostri tempi”. Non una presa di distanza dalle parole del padre, che Mattia Feltri nomina solo per spiegare che non ne vuole parlare pubblicamente, per proteggere anzitutto se stesso, ma solo accuse nei confronti di Boldrini, elogi nei confronti della redazione (che effettivamente non ha nessuna responsabilità in questa storia) e un mea culpa che suona come un’autoflagellazione non richiesta: “Ho sbagliato, sono uno stupido”. Si può immaginare che non sia facile avere un padre ingombrante come Vittorio Feltri, ma d’altronde quando scegli di diventare giornalista devi fare dei compromessi e delle scelte che ti rendono antipatico a un sacco di persone, familiari inclusi, ancor più se hai deciso di seguire le loro orme. E può capitare che un figlio abbia idee politiche diverse dai genitori, se non opposte. Mattia Feltri è un liberale che si è formato sul Foglio di Giuliano Ferrara e che è passato da poco tempo su un giornale ancora più liberale, l’Huffington Post. Intanto negli ultimi anni si è costruito la fama di pungolatore sul Buongiorno de La Stampa con i suoi corsivi ironici di commento alle notizie di attualità, soprattutto politiche.
Proprio perché questo è il suo credo politico la vicenda con Boldrini appare ancora più sgradevole. Sarebbe stato più credibile se, in quanto liberale, avesse difeso il diritto del padre a dire quello che gli pare, anche a scrivere un articolo riprovevole e offensivo nei confronti di una vittima di violenza sessuale. Invece, chiedendo a Boldrini di omettere il riferimento, è come se avesse difeso innanzitutto se stesso e il suo diritto a pensarla, silenziosamente, come Vittorio: non prendere le distanze da chi commenta uno stupro in quel modo significa avallare quella visione del mondo. Mattia Feltri forse non si è mai lasciato andare al maschilismo conclamato del padre, ma ha idee che, sulle questioni di genere, si fatica a definire progressiste: stiamo pur sempre parlando infatti di un giornalista che ha schernito su un quotidiano nazionale le proposte per il linguaggio inclusivo e che da sempre alimenta la retorica sulla presunta pericolosità del “politicamente corretto”. Il problema più grande è che Mattia Feltri non solo ha preferito l’interesse personale a quello pubblico, in contrasto con l’ottica pluralista che l’Huffington Post si prefigge di avere, ma con il suo gesto ha confermato – come scrive Giulia Siviero su Il Post – “un sistema che in un modo o nell’altro (per sciatteria, per volontà, per complicità, per motivi privati, perché si sta inalando troppo «napalm», non so) continua a portare avanti il proprio anti-femminismo, la difesa del proprio privilegio, la conservazione reazionaria di ruoli e gerarchie”.
È infatti impossibile non considerare, in tutta questa storia, una questione più ampia: a detenere e a conservare il potere mediatico, il potere di decidere cosa è un “apprezzamento spiacevole” e cosa no, non solo è un gruppo sociale ben definito (dei 25 quotidiani più diffusi nel nostro Paese c’è una sola direttrice responsabile, Agnese Pini de La Nazione), ma un gruppo che si auto-conserva e che, nel caso di Feltri, passa addirittura di padre in figlio, come spesso, per tradizione, è stato fatto in Italia in maniera più o meno palese. È chiaro che questo sistema conservatore, nel senso più letterale che questa parola può avere, non possa contribuire in alcun modo a creare una vera opinione pubblica. Che non significa – come scrive Feltri – “ingaggiare duelli con altri giornali”, ma avere il coraggio di analizzare la complessità della realtà e assumersi le proprie responsabilità, specialmente se hai scelto una qualifica come quella del direttore responsabile di una testata
Questa pagina triste e imbarazzante del giornalismo italiano è forse la summa di tutti i suoi problemi: il direttore di una testata figlio di un ex giornalista che si è dimesso dall’Ordine in polemica per i numerosi procedimenti disciplinari a suo carico che, costretto ad ammettere di aver fatto un gesto nel suo interesse privato, attacca l’irragionevolezza della sua avversaria e la accusa di usare il suo quotidiano per la sua guerra privata contro Libero anziché dire semplicemente come stanno le cose, e cioè che Mattia Feltri non vuole che si parli del padre Vittorio. Tranne quando c’è da dare notizia della sua dimissione dall’Ordine, ovviamente, e allora come per magia, sulle pagine dell’Huffington Post, trova spazio persino l’agiografia che ne ha fatto Alessandro Sallusti.