Il democratico Joe Biden non è ancora stato eletto alla Casa Bianca ma ha iniziato a parlare in un tono presidenziale “a tutta la nazione”, incoraggiato dai dati elettorali in arrivo che lo rendono sempre più ottimista. In Stati-chiave in bilico come il Wisconsin e il Michigan Biden ha appena vinto; margini di avanzamento sono possibili con lo scrutinio dei voti postali nel Nevada e nella sua Pennsylvania, anche se in quest’ultima, come in Georgia e in Arizona sarà una battaglia all’ultimo voto. L’approccio di Biden da futuro presidente è molto diverso dalla retorica di Donald Trump negli ultimi quattro anni: è concentrato nel mandare messaggi di “calma” e di “unità” a “tutti gli americani”.
La violenza verbale della battaglia politica culminata con l’accusa di Trump di “frode elettorale,” supera qualsiasi precedente: tendere da subito la mano anche alla grossa fetta dell’elettorato avversario è d’obbligo per Biden che, anche dopo una sua vittoria ormai quasi certa, saranno incerti e molto faticosi da governare per i democratici. Scontri di piazza, oltre che a colpi di ricorsi giuridici, prendono corpo in queste notti in diversi Stati, a New York come nell’Oregon e in Minnesota, in Michigan e in Arizona, tra dimostranti pro e anti Trump. Adesso il leitmotiv della Casa Bianca – dove Trump resterà in carica fino al gennaio 2021 – è l’impugnazione legale dei conteggi degli Swing States “fino alla Corte Suprema” per il cosiddetto “voto postale truccato dai democratici”: azioni legali dei repubblicani sono già scattate in Pennsylvania, Michigan, Wisconsin, Georgia, Nevada.
Biden raccoglierà l’eredità di un Paese lacerato dalle politiche divisive dell’ultima amministrazione repubblicana. Le Presidenziali del 3 novembre 2020 hanno mobilitato la percentuale più alta di votanti dall’inizio del 1900 (una stima del 66,4% degli aventi diritto, contro il 73,3% di 120 anni fa) e mostrano come i sondaggi abbiano grandi difficoltà nel riconoscere degli Stati Uniti spaccati in due tra democratici e repubblicani. Alla vigilia del voto di questo autunno, i report dell’antiterrorismo e della polizia federale avevano anche avvertito che la minaccia interna maggiore per gli Stati Uniti non è da trovare nei jihadisti, bensì negli attacchi dei terroristi dell’estrema destra suprematista: il think tank del Center for Strategic and International Studies (Csis) ha ricostruito come, nei primi otto mesi del 2020, i gruppi suprematisti bianchi siano stati responsabili di 41 dei 61 tra atti e complotti a sfondo terroristico nel Paese, circa il 67% del totale. Contemporaneamente, la galassia sovranista dell’alt-right è diventata uno dei motori più aggressivi della propaganda elettorale di Trump: sui social network come nei dibattiti pubblici il presidente statunitense ha difeso frange estremiste dell’estrema destra come i Proud Boys, ignorando i ripetuti inviti a prenderne le distanze.
In questo quadro si inseriscono anche le istanze dei Black lives matter (Blm) e la sofferenza sociale per le centinaia di migliaia di morti da Covid-19 (oltre 240mila) e per le conseguenze economiche della gestione disastrosa della pandemia da parte dell’amministrazione Trump. In questo clima, mentre si ripetono le violenze della polizia contro gli afroamericani e i manifestanti, hanno ripreso a sfilare anche i cortei della sinistra dem e antagonista. Un livello di scontro politico, sociale, e razziale, così marcato, esteso e anche prolungato tra la popolazione non si ricordava negli Stati Uniti dalle manifestazioni degli anni Sessanta e Settanta che portarono alla conquista dei diritti civili degli afroamericani – conflitto cercato e spesso aggravato dalla stessa Casa Bianca. Negare i fallimenti del proprio operato, negando la crisi sanitaria e addossandone la colpa a nemici esterni, ai governatori o ai cittadini nemici dell’ordine, per un manipolatore privo di capacità gestionali e politiche come Trump era l’unica tattica per rimontare rapidamente e vincere le elezioni. C’è quasi riuscito: il sud e il centro rurale sono rimasti fedeli ai repubblicani, a eccezione della Georgia dove la vittoria si basa ormai su poche migliaia di voti. La mentalità razzista dei redneck era stata sfruttata con successo da Trump già nel voto del 2016. Quattro anni fa aveva stupito di più che gli operai degli Stati post-industriali del Rust Belt avessero scelto il candidato repubblicano; anche quest’anno nella “cintura della ruggine” del Midwest il populismo sovranista di Trump ha dato filo da torcere ai democratici e Stati come il Michigan e il Wisconsin sono stati conquistati a stento dai democratici.
Il prossimo presidente dovrà fare i conti con le macerie sociali, economiche e anche morali lasciate dall’Amministrazione repubblicana dopo una delle campagne elettorali più divisive nella storia del Paese. Il paragone con la battaglia all’ultimo voto tra Al Gore e George W. Bush sul risultato decisivo della Florida per le Presidenziali del 2000, che allora portò anche al ricorso (accolto) dei repubblicani alla Corte suprema contro il riconteggio, non regge con quanto sta accadendo oggi. Primo perché gli Stati in bilico nel 2020 per decretare la vittoria, oggetto delle guerre tra l’esercito degli avvocati di Trump e quello delle controparti dem, sono almeno sei (Arizona, Pennsylvania, Michigan, Wisconsin, Nevada, Georgia). Secondo perché allora il candidato Bush jr., al contrario di Trump (un presidente nell’esercizio delle sue funzioni), non accusò i democratici del reato penale e del tutto privo di prove di “rubare i voti”, né lo Stato della Florida di “frode” per la sua procedura elettorale. Lo scopo del nuovo attacco della Casa Bianca, anche alle istituzioni democratiche, è ancora una volta alzare il livello di scontro nel Paese, con conseguenze gravi che potrebbero sfuggire di mano prima di tutto a Trump. In un rapporto riservato del 29 settembre scorso pubblicato da The Nation, l’Fbi ha infatti segnalato la “minaccia di potenziali violenze estremiste”, “dalle elezioni Presidenziali e fino all’inaugurazione della nuova Amministrazione nel 2021” da parte di milizie o soggetti dell’estrema destra suprematista.
Simpatizzanti di questi gruppi armati figuravano anche tra gli arrestati, a ottobre, del gruppo che pianificava attacchi in Michigan e in Virginia, per rapire i due governatori democratici. L’Fbi ha messo in guardia sul rischio di atti eversivi dell’estrema destra, fomentata da Trump, in crescita anche con “l’aumento delle tensioni sociali per le restrizioni locali e statali legate al Covid-19, e delle azioni violente e criminali commesse nel corso delle legittime proteste”, tensioni che con oltre 100mila contagi e mille morti circa al giorno da Covid-19 aumenteranno ancora. Mentre il mondo intero, inclusi i candidati alla Casa Bianca, attende il verdetto sul voto, le sezioni elettorali dove ancora si scrutinano le schede sono assediate da sostenitori pro-Trump anche armati, come è successo in Arizona, respinti da agenti antisommossa. Di notte si manifesta in diverse altre città e l’impressione è di essere all’inizio di un inverno caldo tra le due Americhe che si fronteggiano fuori dalle urne.
Una insegue il miraggio dell’opulenza pacchiana di Trump. L’altra è quella di Biden, un ex vice presidente e politico navigato 77enne che aspetta di salire l’ultimo gradino della Casa Bianca dopo una carriera di 36 anni come senatore del Delaware. Improvvisazione e arroganza contro esperienza e fiducia nella trattativa e nell’ascolto, anche degli avversari. Dopo quattro anni di Trump ciò che serve agli Stati Uniti è soprattutto la “normalità” che rappresenta Joe Biden. Ora la sua prima sfida è convincere di questo anche la metà del Paese che non ha votato per lui.