La percezione italiana dei fenomeni migratori, complice la propaganda incessante dei partiti xenofobi di destra, è sempre più orientata verso atteggiamenti ben riassunti da frasi come: “Non possiamo accoglierli tutti” o “Gli stranieri non si integreranno mai”. Il clima di costante emergenza, stando a uno studio presentato lo scorso agosto dall’Istituto Cattaneo, ha portato gli italiani a pensare che gli immigrati residenti nel Paese siano il 25% della popolazione, contro il dato reale che si aggira intorno al 7%. Un’altra idea diffusa è che l’Italia abbia conosciuto l’immigrazione solo nell’ultimo decennio, ma questa convinzione può essere smentita tornando agli anni Novanta, quando il Paese si è trovato a gestire quello che oggi viene ricordato come l’esodo albanese.
Il 7 marzo del 1991 l’Italia scoprì di essere considerata “Lamerica” del popolo albanese. In Albania stava crollando il regime comunista di Enver Hoxha, di ispirazione marxista-leninista, che aveva condannato il Paese all’isolamento e alla povertà assoluta. Spinti dalla promessa di benessere dei canali televisivi italiani, che ricevevano anche dall’altra sponda dell’Adriatico, furono in 25mila a tentarne la traversata. Partirono soprattutto dalle campagne, dove viveva il 70% della popolazione, utilizzando navi mercantili e imbarcazioni di fortuna che raggiungevano il porto di Brindisi, cariche di uomini, donne e bambini affamati. La città, che non era preparata ad accogliere una folla di questo tipo, si ritrovò in piena emergenza umanitaria. Il sesto governo Andreotti tentennò per cinque giorni prima di intervenire decidendo di aiutare i boat people: alcuni vennero trasferiti in Sicilia, altri in Basilicata, altri ancora in abitazioni private e centri sociali pugliesi.
L’ondata migratoria di marzo, accompagnata da una forte empatia da parte degli italiani, si replicò a distanza di cinque mesi esatti. Il 7 agosto 1991, 20mila fuggiaschi si riunirono a Durazzo, prendendo d’assalto la nave mercantile Vlora, di ritorno da Cuba con un carico di zucchero. Una volta a bordo costrinsero il comandante Halim Milaqi a salpare per l’Italia. Il cargo raggiunse Brindisi il giorno successivo, ma, dopo il divieto di attraccare da parte della prefettura della città, fu costretto a dirigersi verso il porto di Bari. A differenza di quanto accaduto poche settimane prima, il governo si oppose allo sbarco degli albanesi. Le persone a bordo del Vlora vennero prima sistemate nello stadio della Vittoria di Bari e poi, con la falsa promessa di essere trasferite a Venezia, rimpatriate a Tirana.
A distanza di quasi trent’anni da quello che diversi giornali definirono un “assalto” o una “invasione”, gli albanesi sembrano scomparsi dalle cronache nazionali. All’epoca, l’ostilità nei loro confronti era così alta che l’ex presidente della Camera Irene Pivetti disse sostenne addirittura che andassero “ributtati in mare”. Aggiunse: “E quando sparano sulle nostre forze dell’Ordine le loro navi andrebbero affondate”.
Oggi, secondo i dati forniti nel 2019 dal Ministero del Lavoro, i cittadini di origine albanese regolarmente soggiornanti in Italia sono quasi 428.332. Con l’11,6% del totale rappresentano – dopo quello marocchino – il gruppo più numeroso dei cittadini non comunitari che vivono nel Paese. Molti risiedono nel Nord Italia, in particolare in Lombardia (21,3%) e in Emilia Romagna (13%), ma è in Toscana che si trova la seconda comunità più numerosa (14,9%). Rispetto agli anni in cui venivano accusati dell’impennata di crimini, oggi nessun partito politico penserebbe di bersagliarli durante la campagna elettorale. Il motivo è che la comunità albanese si è perfettamente integrata e gli italiani non li percepiscono più come una minaccia.
A differenza dei nuovi immigrati che “rubano il lavoro” gli albanesi che lavorano in Italia sono il 54% della popolazione tra i 15 e i 64 anni, contribuendo alla crescita occupazionale e del Pil nazionale. La maggior parte della manodopera albanese si concentra nel settore industriale, che supera quella nel settore primario e quella nei servizi pubblici e sociali. Spiccano, in riferimento alla tipologia professionale, gli occupati nel lavoro manuale specializzato e gli impiegati, mentre il dato dei titolari di imprese individuali di origine albanese supera il 9%.
Un altro importante elemento di integrazione è l’inserimento delle seconde generazioni nel circuito scolastico. La scuola, infatti, con la socializzazione e l’educazione alla diversità, può essere considerato il primo e più importante luogo per l’inclusione degli stranieri nel tessuto comunitario. Ormai da anni, l’Albania risulta il primo Paese di origine degli studenti non comunitari. Nell’anno scolastico 2018-2019 si sono contati 116mila giovani albanesi iscritti a scuola, con un’incidenza maggiore nella primaria (36,8%). Secondo la statistica elaborata dal Miur sulle iscrizioni alle facoltà universitarie, sarebbero quasi 10mila gli studenti di nazionalità albanese che frequentano un corso di laurea triennale o biennale.
Anche la diminuzione complessiva dei reati degli ultimi anni ha favorito il cambio di percezione nei confronti della comunità albanese. La ricerca Has immigration really led to an increase in crime in Italy? condotta da Donato Di Carlo, Julia Schulte-Cloos e Giulia Saudelli ha dimostrato con l’analisi dei dati Istat dal 2007 al 2016 che il tasso medio dei crimini commessi nelle regioni italiane da parte degli stranieri si è abbassato di circa il 65%.
Nel frattempo, sull’altra sponda dell’Adriatico, l’Albania stava vivendo prima della pandemia un periodo di straordinaria crescita economica grazie a un piano efficace di modernizzazione e di lotta alla corruzione, che l’ha resa uno dei Paesi preferiti dagli investitori stranieri. Sempre più imprese italiane e straniere decidono di delocalizzare nei Balcani e in Albania in particolare. Anche il turismo registrava alti tassi di crescita soprattutto nella capitale Tirana, candidata al titolo di Capitale Europea della Cultura 2024, e alle meno costose Valona e Saranda. Nonostante il boom del loro Paese di origine sono ancora pochi gli albanesi che hanno deciso di farvi ritorno, dopo aver vissuto e studiato nelle scuole italiane. Non è da escludere, però, un’inversione di tendenza. Un ruolo importante in questo caso è giocato dalle rimesse inviate verso il Paese d’origine. Molti studiosi sono concordi nel confermare che maggiore è il capitale accumulato durante gli anni di permanenza in Italia e più alte sono le probabilità di un futuro ritorno. Intanto, solo nel corso del 2020, la comunità albanese ha inviato nel Paese di origine rimesse per un valore di 144 milioni di euro, secondo i dati forniti dalla Banca d’Italia. A questa prospettiva si unisce il fatto che i rientranti avrebbero, in virtù delle nuove conoscenze e dell’esperienza maturata, più alte possibilità di dedicarsi al mondo dell’imprenditoria o delle professioni specializzate, lavorando in settori a loro preclusi al momento dell’espatrio.
Ricordare il travagliato esodo albanese vuole dire, anche e soprattutto, focalizzare la nostra attenzione sull’immigrazione odierna. È la storia stessa a insegnarci che quello dei flussi migratori è un fenomeno irreversibile e irrinunciabile. Come ci dimostra la comunità albanese, la via vincente per gestire l’immigrazione è la creazione di canali di migrazione legale, con politiche che facciano incontrare domanda e offerta, favorendo l’integrazione attraverso il lavoro. L’unico effetto della politica dei porti chiusi, invece, è aumentare il numero dei morti in mare e privare l’Italia e i Paesi di origine dei migranti di una grande occasione di crescita culturale ed economica.