Secondo l’ultimo censimento dell’Istat, nel 2017 quella romena è la più grande comunità di stranieri residenti in Italia: oltre un milione di persone, risultato di una emigrazione cominciata già oltre cento anni fa ma diventata importante a partire dalla caduta del regime di Ceauşescu, nel 1989. Emigrazione che si dirige verso tutta l’Europa, con oltre quattro milioni di espatriati in trent’anni. Davanti a questo fenomeno solo due atteggiamenti sono possibili: costruire una falsa narrazione attorno all’immigrato come portatore di valori culturali inconciliabili con i nostri, e dunque etnicizzare il diverso sottraendolo al suo background socio-economico, oppure studiare le cause complesse che hanno portato a questo fenomeno di massa.
L’emigrazione da questo Paese comunitario potrebbe sembrare incomprensibile alla luce degli ultimi dati sullo sviluppo economico della regione: nonostante la fase di crisi economica che il mondo sta vivendo da oltre dieci anni, la Romania detiene il record europeo per crescita del Pil nominale, con tassi molto più elevati dei Pesi europei più avanzati. Ma a uno sguardo meno superficiale vediamo che la Romania è anche terza, dopo Bulgaria e Lituania, per il livello di disparità sociale. Questi dati mostrano la reale contraddizione interna di questa regione dell’Europa: accanto a città come Bucarest e Cluj, che beneficiano della crescita economica generale confinando il disagio sociale in quartieri periferici come Ferentari, esistono intere sacche di povertà dove non si vede l’ombra di investimenti privati o pubblici e dove lavoro e servizi sono quasi inesistenti.
Un esempio di questa situazione è il Banato. Situato a centinaia di chilometri da Bucarest, nel Settecento è stato un territorio autonomo sotto il dominio asburgico. Dopo l’effimera esperienza di una repubblica unita e indipendente nel 1918, il Banato venne diviso fra la Romania, che ancora ne occupa la parte principale, la Serbia e l’Ungheria. Nei centri più grandi come Reșița, capoluogo del distretto di Caraș-Severin e uno dei principali centri urbani della zona, le scuole sono aperte e funzionanti, così come l’ospedale, e le strade sono asfaltate: la città sembra povera e grigia, ma non molto diversa da tante città dell’Europa orientale. Eppure già si possono incontrare figure macilente che, girando su carretti improvvisati trainati da muli, raccolgono la plastica tra i rifiuti in cambio di pochi Lei al giorno.
A qualche decina di chilometri, verso il confine serbo, la situazione appare completamente mutata. Ad Anina, un centro di circa 8mila abitanti, i servizi sono quasi inesistenti. L’ospedale esisteva fino a tredici anni fa: oggi è stato chiuso e trasformato in un ospizio per anziani. È gestito da un’infermiera, due collaboratrici e un factotum che sono arrivati a tagliarsi lo stipendio per far fronte alle molteplici spese che sono chiamati ad affrontare. E anche così l’ospizio rischia di chiudere. Per le urgenze è rimasta una sola ambulanza che trasporta i malati all’ospedale di Reșița, a decine di chilometri di distanza.
Tutta l’area al confine con la Serbia deve l’attuale depressione economica alla chiusura, nei primi anni Duemila, della miniera di carbone – la più profonda d’Europa – che dava lavoro a migliaia di persone. Molti di questi lavoratori sono emigrati in vari Paesi europei, soprattutto in Italia e Germania. Ma di fronte a questa situazione non sono stati fatti interventi per trovare nuove fonti di reddito per la popolazione locale. Al contrario, i boschi della zona sono stati svenduti alle multinazionali, mentre chi ha ancora un lavoro deve accontentarsi di stipendi più bassi della media nazionale, che si attesta a soli 533 euro lordi mensili. Gli investimenti europei non sembrano toccare la regione se non per operazioni tanto costose quanto di dubbia utilità: qualche anno fa l’Unione ha varato un programma di costruzione di infopoint turistici nell’area, arrivando a spendere per ogni struttura centomila euro. Strutture che sono rimaste completamente inutilizzate, in un’area dove il turismo non è per nulla sviluppato.
I prezzi di molti prodotti, spesso venduti nei supermercati della tedesca Lidl, hanno preso a salire vertiginosamente. Il costo del latte in polvere di marca Nestlé, l’unica venduta in questa zona, è più alto che in Italia: quasi 60 Lei (circa 15 euro, contro i 10 euro del nostro Paese). E non si tratta di una questione di poco conto: in quest’area il latte in polvere è un prodotto vitale per le donne che restano senza latte materno a causa delle difficili condizioni di vita a cui sono costrette. La frutta, poi, è importata da Italia e Spagna: le immense distese di campi coltivati in Romania sono gestite da multinazionali straniere o da grandi investitori romeni, che preferiscono destinare i prodotti all’esportazione sul mercato europeo. Questo processo formalmente favorisce l’integrazione della Romania come stato membro dell’Ue, ma in realtà fa alzare i prezzi dei prodotti venduti al dettaglio, creando molti problemi alla popolazione locale. E la stessa sorte è riservata anche ad altri settori. L’italianissima Enel è l’unica società che fornisce energia elettrica nel Banato: una bolletta mensile arriva a costare 200, 250 euro, a fronte di stipendi poco più alti.
L’emigrazione di una fetta importante della forza lavoro ha prodotto una profonda distruzione della rete sociale: i nuclei familiari non esistono più, per cui capita che i bambini vivano da soli in case fatiscenti. L’abbandono scolastico è elevatissimo, ma spesso non è rilevato perché chi dovrebbe eseguire il censimento, in queste aree nemmeno ci arriva. In molti casi le scuole pubbliche funzionano solo grazie a un intervento esterno, come la scuola elementare di Bradet, a pochi chilometri da Anina. Il paese, nato negli anni Cinquanta come base militare sovietica per controllare il confine con la Yugoslavia, dopo il crollo dei regimi dell’Est Europa alla fine degli anni Ottanta si è trasformato in un villaggio fantasma. Qui la Ong italiana “Il Giocattolo”, che da decenni opera nell’area, ha ristrutturato la scuola elementare portando avanti un progetto di doposcuola che coinvolge numerosi bambini anche dei paesi vicini.
Quella abitativa, del resto, è diventata ormai un’emergenza diffusa. Le famiglie più povere vivono in baracche di quindici o venti metri quadri, in condizioni igieniche estremamente precarie. I membri della comunità Rom, quasi il 3% degli abitanti del Paese, non se la passano certo meglio. Spesso sono confinati in interi quartieri dove non esiste acqua corrente, elettricità, riscaldamento adeguato: è il caso di Geuri, un complesso di vecchi condomini ai margini di Anina, dove decine di famiglie vivono in condizioni spaventose. Gli incendi all’interno degli stabili sono all’ordine del giorno, così come le malattie dell’apparato respiratorio che colpiscono molti bambini già nei primi anni di vita.
La situazione non è molto diversa a Oraşul Nou. Questo quartiere di Oravitşa, piccola cittadina a una manciata di chilometri da Anina, sorge su una collina che domina il paese. Venne ideato dagli architetti del regime di Ceauşescu, che voleva aprire un nuovo pozzo della miniera della zona e quindi spostare sulla collina una parte degli abitanti di Anina. Ma con il cambio di regime del 1989 lo scavo del pozzo venne interrotto, e così anche i lavori di costruzione delle case. Oggi quei casermoni, che non sono isolati a livello termico in una zona dove a dicembre cadono oltre 60 centimetri di neve, sono abitati dagli emarginati, dai disoccupati e talvolta da orfani che non godono nemmeno della protezione di una minima rete sociale.
Da questa e altre aree depresse della Romania (Banato, Moldavia romena) proviene la maggioranza degli stranieri residenti in Italia. Negli ultimi anni abbiamo visto la politica del nostro Paese costruire un discorso politico basato sulla etnicizzazione del conflitto: si è costruita una dicotomia tra lavoratori italiani e immigrati, si è etnicizzata una questione come l’immigrazione che ha dietro di sé invece profonde cause socioeconomiche. Ma questo discorso semplicistico – conveniente per chi vuole alimentare una guerra fra poveri – non è accettabile per chi il fenomeno vuole studiarlo, comprenderlo e quindi gestirlo al meglio.