Qualche anno fa, quando aveva tre anni, il figlio di Charlize Theron aveva confessato a sua madre di essere una bambina. Per anni giornali e giornalisti hanno pubblicato i soliti scatti rubati, commentando gli strani gusti di questo bambino che usciva con la madre con indosso vestiti da bambina, finché in una recente intervista l’attrice ne ha parlato apertamente: “Pensavo di avere un figlio e una figlia, invece ho due figlie.” Una dichiarazione molto semplice, amorevole volendo, concisa. L’opinione pubblica è impazzita: “Non è possibile che una persona a tre anni sappia già con assoluta certezza il proprio genere di appartenenza!”, “La biologia non mente!”, “Se nasci maschio resti maschio!” Sembrano argomentazioni simili a quelle di chi non concepisce il concetto di fluidità di genere: non sembra possibile che una persona decida quando si sveglia di giorno in giorno a quale genere appartenere. La fluidità di genere non è un capriccio quotidiano, ma significa andare oltre lo schema binario dei generi, cioè oltre il maschile e il femminile come polarità intoccabili.
La storia è molto simile a quella di Shiloh Jolie-Pitt, figlia di Brad Pitt e Angelina Jolie – fusi dalla stampa nell’androgino ed “etero-romantico” “Brangelina” – che da qualche anno (ormai ne ha 12) ha deciso di farsi chiamare John e nelle occasioni pubbliche si veste da maschio, in giacca e cravatta. La somiglianza con il padre è però una sorta di bonus lasciapassare: “almeno è bello come lui.” Per Charlize non c’è nessun appiglio al Dna, dal momento che le due figlie sono adottate. Il tutto comunque ricade nella semantica del gossip e delle celebrities, individui considerati abbastanza bizzarri da permettere ai loro figli di decidere e soprattutto di vivere liberamente la loro identità di genere, come se i ricchi potessero permettersi questo ed altro. Nonostante possa suonare paradossale ci troviamo di fronte a una “spersonalizzazione dell’infanzia” che reputa i bambini e le bambine come persone incapaci di percepirsi correttamente e di fare delle scelte nei propri confronti: si invoca sempre il “Nessuno tocchi i bambini”, anche quando sono i bambini stessi a volersi sperimentare, modificare, imporre come individui. Le etichette “gender variant” o “trans” derivano da un’autodeterminazione e da percorsi che i bambini e le bambine difficilmente hanno già concluso, ma che potrebbero comunque servire da punto di riferimento in un’altra fase della loro vita. L’idea che non si sia in grado di decidere per sé è poi uno stigma che accompagna le persone trans per tutto il resto della loro vita. Questo fa parte di un atteggiamento patologizzante, che trasforma la gestione di un vissuto particolare in una malattia da diagnosticare. Purtroppo, in questo momento, la patologizzazione è necessaria in quanto permette di accedere a visite e farmaci del Servizio Sanitario Nazionale.
La varianza di genere comporta non riconoscere la propria identità con il sesso assegnato socialmente alla nascita, e non sempre questo si identifica con quello opposto. Bisogna prendere in considerazione anche le diverse esperienze, come ad esempio quelle dei bambini che non si riconoscono in nessun genere o che lo vivono in maniera fluida, tutte esperienze valide se vissute liberamente. Avere a che fare con un bambino gender variant in un’età compresa tra i 3 e i 7 anni pone inevitabilmente diverse questioni e mette in crisi un buon numero di concetti. Da che le definizioni di omosessualità e transessualità – che, ricordiamo, sono termini medici – sono state codificate dalla scienza e dalla medicina, si è sempre cercato per loro una causa scientifica. In passato lo stesso paradigma è stato usato nella ricerca dell’origine della criminalità. In entrambi i casi, ci si chiede continuamente se la “causa” sia genetica o determinata dall’ambiente o dalla famiglia. Quale che sia la causa, se parliamo del benessere di bambini da 3 anni in su, poco importa, visto che già a quell’età devono far fronte agli stereotipi di genere nei giocattoli, nelle storie, nella cultura. I bambini in parte sanno scegliere da soli, in parte vengono a contatto con questi stereotipi, assorbendone i valori impliciti
Quello che dovrebbe prevalere è il benessere della persona nonostante le norme sociali eterocis, che prendono l’individuo eterosessuale e cisgenere (cioè non trans) come paradigma umano. L’obiettivo dovrebbe essere la prevalenza dell’individuo sulle norme. La situazione opposta invece – le norme che vincono sull’individuo – è il centro dell’elaborazione fatta in particolare dalla destra conservatrice che strumentalizza i bambini, compresi quelli gender variant. L’anno scorso Generazione Famiglia e Citizen Go, associazioni vicine alla destra cattolica, ha fatto il giro dell’Italia con un pullman per opporsi alla fantomatica “teoria del gender”. E anche da parte del femminismo più radicale arrivano critiche sull’uso dei bloccanti per la pubertà e sulla politica trans in generale. Tutti questi soggetti politici fanno dell’ossessione per l’autodeterminazione del corpo altrui (aborto, gestazione per altri, eutanasia, uso di ormoni e bloccanti) una strategia politica accettabile e inconfutabile. I bambini gender variant sono soggetti in grado di determinarsi come individui ma che, per la loro età, non possono difendersi da questi subdoli attacchi e che rischiano perciò di essere manipolati.
In Italia l’argomento è stato trattato in ambito psicologico e sociologico, ma sono solo due le pubblicazioni rivolte a un pubblico più ampio. Sono scritte entrambe da due donne che hanno una figlia gender variant, cioè un bambino che preferisce il rosa, che un giorno ipotetico potrebbe voler diventare una bambina e il cui problema principale è il mondo fuori dalla protezione delle mura domestiche, come la scuola. In questo articolo userò per loro il femminile, perché in italiano il neutro non esiste e il maschile è decisamente sbagliato. Un’autrice è italiana, si chiama Camilla Vivian e il suo libro si intitola Mio figlio in rosa (Manni), l’altra è statunitense, si chiama Lori Duron e il suo libro è Il mio bellissimo arcobaleno (Ultra), tradotto dal più sognante Raising my Rainbow.
Anche se non sono celebrities, le loro figlie sono comunque al centro di critiche. Entrambe le autrici hanno deciso di aprire un blog per raccontare la loro esperienza, prima con qualche titubanza, poi capendo sempre di più quanto quell’esposizione, che non è mai scontata, serva soprattutto alle altre famiglie che sono nella stessa situazione. Al centro delle attenzioni e della narrazioni ci sono sempre le figlie, anzi, il rapporto tra l’autrice e la propria figlia. Traspare la non accettazione della retorica trans del corpo sbagliato, per cui il corpo con cui si nasce è non solo del genere e del sesso non desiderato, ma è un corpo totalmente sbagliato. Il termine psichiatrico con il quale viene chiamata questa situazione è “disforia di genere”. Spesso questa cognizione nei bambini va intesa in senso sociale, nel rapporto con gli altri, prima che rispetto al proprio corpo, che in quel momento, senza gli ormoni prodotti durante la pubertà e l’adolescenza, non ha ancora marcati tratti di genere. “Sarà una fase” è il primo compromesso non nevrotico tra le esigenze dei figli e le difficoltà di gestire da soli e sole la crescita di un figlio in ambienti mai pronti né informati su questioni di genere. La fase ha un tempo determinato e una fine certa. Per alcune persone sono davvero delle fasi, per altre il percorso continua con l’autodeterminazione in quanto persona trans.
Ho conosciuto Camilla Vivian quando ho presentato il suo libro nella rassegna Raising my Rainbow, che insieme al Progetto Alice e alla Libreria delle Donne di Bologna abbiamo dedicato all’infanzia gender variant (e abbiamo ricevuto anche un’intimidazione da parte del gruppo di militanti i estrema destra Evita Perón, che fa capo a Forza Nuova). In Italia, Vivian è forse l’unica che porta in giro la sua esperienza come discorso pubblico e politico in un’ottica depatologizzante, e cioè che non racconta le persone gender variant e trans con gli strumenti della medicina e della psichiatria. Avere a che fare con un bambino gender variant significa anche entrare in quello spazio di possibilità e di ambivalenza insostenibile che si crea tra “sono un/a bambino/a” e “mi vesto come una/un bambina/o”, una possibilità creativa che spaventa e che si deve imparare a saper sostenere e incoraggiare. È necessario sviluppare un discorso culturale e politico che vada oltre l’essere trans di per sé, ma affronti seriamente delle modalità di gestione delle identità gender variant e trans in maniera innanzitutto non patologizzante. Per andare oltre l’idea di gender variance o transness come in sé problematica, come qualcosa da aggiustare, quanto piuttosto come il prodotto di norme culturali anche conflittuali. Oltre ovviamente all’immenso lavoro contro le discriminazioni omo-transfobiche che in parte passano da questa idea di malattia che le persone trans portano con sé.