La nostra epoca è caratterizzata da una generale fase di transizione che ha riguardato diversi settori, basti pensare alla tecnologia informatica, al mondo del lavoro, o alla cura per la persona. L’ambito che sembra più resistente a un cambiamento strutturale di paradigma, almeno in Italia, è quello della mobilità. Nonostante gli autoveicoli oggi abbiano una strumentazione di bordo da far invidia a un aereo, si muovono esattamente come venti, trenta o quaranta anni fa, grazie cioè a un motore a scoppio endotermico che produce emissioni inquinanti, come ossidi di azoto e idrocarburi, considerati a tutti gli effetti agenti cancerogeni. Cosa stanno facendo i Governi per arginare il riscaldamento globale? L’esecutivo italiano conosce la situazione generale dei trasporti pubblici e del parco auto presente nel nostro Paese? Può essere la famigerata ecotassa una soluzione radicale al problema?
Si calcola che nel nostro Paese circolino 38 milioni di veicoli, di cui più di un terzo (14 milioni) di vecchia generazione (euro 0, 1,2 e 3 sia benzina che diesel), ossia i più inquinanti. Il provvedimento del Governo inizialmente prevedeva un’imposta variabile per immatricolazioni di auto nuove a seconda della classe di emissione (numero di CO2 per Kg), che sarebbe dovuta scattare dal 2019, e una serie di incentivi per la rottamazione delle auto di vecchia generazione a favore delle ibride o elettriche. La prima bozza dell’ecotassa, però, ha raccolto le critiche e la diffidenza di costruttori e cittadini comuni. Si è scoperto infatti che col provvedimento proposto dal M5S, un’utilitaria rischiava di essere tassata più di un’auto di lusso ibrida. Per fare un esempio banale, per l’acquisto di una nuova Panda a benzina si rischiava di pagare dai 400 ai 1000 euro.
Solo a seguito delle proteste di cittadini e aziende l’ecotassa ha subito un notevole ridimensionamento. Colpirà, infatti, solo le auto “di lusso” e i Suv, pur senza considerare che ormai qualsiasi veicolo nuovo ha emissioni di gran lunga ridotte rispetto, ad esempio, a vecchi diesel euro 0 o euro 1. Restano confermati nella proposta del Governo, invece, gli incentivi fino a 6mila euro per l’acquisto di auto ibride ed elettriche. Anche in questo caso, però, in assenza di una politica di investimenti sulle colonnine di ricarica per i veicoli a emissioni zero, sarà difficile avere un impatto su larga scala rispetto alle immatricolazioni delle suddette auto. L’ecotassa, in sostanza, appare l’ennesima trovata di facciata che non risolverà il problema di fondo: la carenza di infrastrutture per una mobilità sostenibile ma anche una corretta manutenzione della rete esistente di strade e ferrovie.
In Francia, Emmanuel Macron – non certo il modello di riferimento del governo gialloverde – ha affrontato un mese particolarmente difficile proprio a causa dei provvedimenti in direzione di una transizione ecologica del concetto di mobilità. Le violente proteste dei gilet gialli in tutto il Paese hanno portato l’esecutivo francese a rinviare qualsiasi tipo di iniziativa come un’ecotassa o l’aumento delle accise sul carburante. Portare il concetto di mobilità verso il cambiamento non è certo semplice, nemmeno per un governo che fa proprio del cambiamento il suo cavallo di battaglia.
Ma se tassare il trasporto privato non è una mossa particolarmente innovativa, di sicuro è più semplice e immediato che intervenire in maniera strutturale sul servizio pubblico su ferro, ad esempio, completando una serie di opere a “bassa velocità” di cui il nostro Paese avrebbe urgente bisogno.
Lo scorso 10 dicembre, come di consueto, è entrato in vigore il nuovo orario dei treni regionali e di quelli a lunga percorrenza. Nella sostanza, però, la vita dell’Italia produttiva non cambierà. Nei prossimi giorni, molti di noi usufruiranno dei treni ad alta velocità, riempiendoli come fossero metropolitane all’ora di punta, per tornare nei luoghi di origine e godere di qualche giorno di relax, lontani dal caos quotidiano e dalle peripezie della vita da pendolari. Nel nostro Paese rinunciare alla propria auto per spostarsi è diventata una scelta quasi sovversiva. D’altronde la geografia dei luoghi di produzione e di consumo è standard: ci sono le grandi città con uffici e servizi e c’è la provincia attorno, con zone residenziali, quartieri dormitorio, centri commerciali, cinema, campagne incolte e, ovviamente, smog. Come due mondi che comunicano poco e male, separati, più che uniti, da connessioni lente, da qualche ora passata in coda in automobile e collegamenti su rotaie che hanno almeno 15 anni di vita (e anche di più nel 40% dei casi).
Nel rapporto annuale di Legambiente, “Pendolaria”, emergono tutti i disagi di una vita passata a bassa velocità. Dal 2002 a oggi i finanziamenti statali hanno premiato per il 60% investimenti in strade e autostrade e, solo durante la scorsa legislatura, sono stati costruiti 3.900 km di strade provinciali, regionali e nazionali, 217 km di autostrade, 62,6 km di linee ferroviarie ad Alta Velocità e solo 58,6 km di metropolitane e 34,5 km di tramvie. Eppure, sempre secondo Legambiente, sono oltre 25 milioni gli italiani costretti a vivere in aree metropolitane a fronte di continui disinvestimenti della politica rispetto al trasporto pubblico su rotaia. Parliamo di circa il 42% della popolazione nazionale, destinata molto probabilmente ad aumentare nei prossimi anni, che ha quotidiane difficoltà e che spesso utilizza il proprio veicolo per necessità, contribuendo ad aumentare i livelli di inquinamento, polveri sottili, e, dunque, il riscaldamento climatico globale. Tra l’altro il parco veicoli particolarmente vecchio che abbiamo in Italia acuisce nettamente il problema. Uno studio di Renault sulla differenza tra l’impatto ambientale di un auto elettrica rispetto a una diesel dimostra che una berlina elettrica emette in media il 44% in meno di gas serra di un veicolo diesel della stessa categoria, mentre una city car elettrica emette in media una quantità di gas serra tre volte minore (63%) rispetto a una city car a benzina. Ma prima di cambiare l’intero parco auto della nazione, bisognerebbe focalizzarsi sul completamento delle opere di elettrificazione esistenti o da finire per il trasporto pubblico.
Secondo “Pendolaria”, servirebbero circa 10,8 miliardi di euro per completare alcune infrastrutture già in programma e considerate prioritarie per i pendolari italiani, per cui sono stati stanziati meno di un terzo dei fondi inizialmente preventivati. Quasi quanto il famigerato reddito di cittadinanza. Tra le opere a bassa velocità in cantiere e mai completate, ad esempio, il servizio metropolitano Padova-Treviso-Mestre, l’elettrificazione della Brescia-Parma, la linea 2 della metro di Torino, la metro leggera dell’area vasta di Cagliari, il completamento delle linee tranviarie di Palermo, la chiusura dell’anello ferroviario a Roma nord, e il quadruplicamento della linea Genova Voltri- Brignole che sarà pronto solo nel 2021. Tutte infrastrutture indispensabili per migliorare la qualità della vita dei cittadini, ma soprattutto che farebbero bene a un ambiente saturo di idrocarburi, PM10, e monossidi di azoto derivanti dalla combustione delle auto con motore endotermico.
La miopia della politica di questi anni, oltre a non aver consentito il completamento di opere strategiche, ha chiuso un occhio davanti ad aumenti ingiustificati delle tariffe regionali per il trasporto pubblico, come nel caso della Campania, arrivata a cifre maggiorate del 48% nel periodo 2010-2018 nonostante una riduzione del 15% del servizio. Ma, in generale, in tutta la penisola negli ultimi otto anni si è diffusa a una tendenza simile, combinata a una scarsa manutenzione della rete ferroviaria esistente. Ricordiamo tutti il deragliamento del treno Milano-Cremona all’altezza di Pioltello dello scorso gennaio che costò la vita a tre persone, probabilmente causato da un giunto difettoso tra le rotaie, uscito dai cantieri di RFI. E anche la strage del treno regionale Andria-Corato del luglio 2016, che provocò 23 vittime. Su quella tratta ancora oggi esiste il binario unico alternato, per cui occorre affidarsi alla prontezza dei macchinisti per evitare possibili disastri. In Sicilia, d’altronde, quasi l’intera rete ferroviaria esistente poggia ancora sul binario unico e solo 180 km su 1379 di strada su ferro è a doppio binario. D’altronde, le oltre tre ore per raggiungere Palermo da Catania (circa 200 km) lo dimostrano.
Insomma c’è un’Italia che viaggia perennemente a bassa velocità, il nervo vivo del Paese, che rischia ogni giorno la propria vita solo per andare a lavorare. Un’Italia che non ha bisogno di una tassa spot sulle auto, ma di un sistema integrato e sostenibile di trasporti. Un orizzonte ancora troppo distante per la miopia di una certa politica.