In un’epoca in cui i disturbi mentali sono in continuo aumento, facciamo ancora fatica non soltanto ad affidarci a uno specialista, ma anche a riconoscerli e a dar loro il nome esatto. Se, infatti, termini come laringite o aerofagia sono inequivocabili, quando si entra nella branca della medicina che riguarda la mente, quindi la psicologia e la psichiatria, nascono dei fraintendimenti lessicali che spesso finiscono per dirottare le varie problematiche su un altro piano del tutto diverso. Per fare un esempio: “depressione” e “tristezza” non sono sinonimi. Possono avere una parentela, certo, come sensazioni che superficialmente si accavallano, ma se la tristezza è un’emozione, la depressione – che viene definita da tempistiche e sintomi ben precisi – può rivelarsi un disturbo mentale (in questo caso si parla di depressione maggiore). Non voglio sminuire i patemi d’animo di nessuno, sia chiaro. Possiamo essere tristi per i più svariati motivi, più o meno gravi. Il disturbo depressivo però, secondo il Manuale MSD, comporta un’alterazione degli ormoni che regolano il sistema nervoso e prevede un trattamento farmacologico e psicoterapico.
Questa confusione linguistica ha fatto sì che ormai sia diventato un uso comune – anzi un “abuso” comune – quello di convincersi sempre più spesso di avere un problema che magari non corrisponde affatto al proprio stato mentale. Un report della Fondazione Soleterre, presentato lo scorso anno alla Camera dei Deputati, svela come il 12% degli italiani consideri la propria salute mentale cattiva o addirittura pessima. Non sempre, però, il disagio viene identificato: lo stare male attiva un’auto-indagine sul proprio stato di salute che spesso non porta a un consulto con uno specialista. Un po’ perché ancora c’è uno stigma nei confronti della psicoterapia; un po’ per la tendenza a “volercela fare da soli”, come se superare problemi neurologici fosse una prova di forza che ci compete per dimostrare a noi stessi di “non essere deboli”. Ma un disturbo mentale non è un sinonimo di debolezza e inoltre una diagnosi fatta da un professionista permette di chiarire l’entità del proprio problema, magari risolvendolo anche in tempi relativamente brevi. C’è chi crede di essere depresso e invece ha una forma di bipolarismo, o chi invece, pur convincendosi di avere tutti i disturbi del manuale, è “solo” ipocondriaco, o addirittura “non ha niente”.
L’altra parola collegata alla psicologia che più di tutte ha subito una trasformazione lessicale è “ansia”. E forse, in questo caso, è effettivamente un limite del nostro vocabolario, perché chiunque può dire di “sentirsi in ansia” in vista di un colloquio di lavoro o di un’altra situazione che può generare preoccupazione o tensione. Tutti abbiamo provato sensazioni del genere ma il disturbo di ansia generalizzata è un problema ben più complesso del nervosismo di fronte a un evento complicato, è un fattore che inficia la qualità della vita di chi ne soffre e che, anche in questo caso, deve essere trattato da professionisti, attraverso sedute e terapie farmacologiche.
Il problema è che chi dice di essere un po’ depresso, o in ansia, spesso è convinto che debba risolvere questa defaillance a modo suo. Magari tiene duro senza nemmeno rivolgersi al medico di base (che comunque potrebbe prescrivergli qualche goccia di benzodiazepine sul momento), men che meno allo psichiatra, figura rispetto alla quale nel nostro Paese ci sono ancora troppi pregiudizi. Dalla pandemia in poi, comunque, il consumo degli ansiolitici è aumentato notevolmente e purtroppo a volte se ne fa un uso scriteriato. Questo abuso di ansiolitici, in Italia, è in crescita soprattutto tra gli adolescenti, e ha dato vita a un mercato nero di benzodiazepine ottenute senza ricetta medica. Chi le assume spesso lo fa usando erroneamente la terza parola che andiamo ad analizzare: panico.
“Sono nel panico per il compito di domani”, può dire uno studente. E probabilmente è realmente agitato, ma non soffre di disturbo di panico. Se gli attacchi di panico possono colpire l’11% della popolazione, solo nel 2-3% dei casi si instaura infatti il disturbo vero e proprio, che prevede altre implicazioni, tra cui il fenomeno dell’evitamento, dell’isolamento e dell’incapacità di mettere in atto azioni di vario genere. Un singolo attacco, se isolato, non porta necessariamente al bisogno di una terapia, al contrario del disturbo di panico che ha una diagnosi clinica e che purtroppo richiede tempo per essere affrontato e curato. Qui l’autodiagnosi, seppur ugualmente non giustificata, viene quasi spontanea e spesso crea scenari poco realistici a causa della vasta gamma di sintomi che il panico per sua natura porta con sé. Non esiste infatti una sintomatologia universale valida per tutti: c’è chi può sperimentare problemi respiratori, chi muscolari, chi crede di avere un ictus o qualche malattia incurabile. Spesso i pronto soccorso sono invasi da persone che, in totale buonafede, sono fermamente convinte di avere un problema fisico non riferito al panico. Forti dolori al petto e al braccio sinistro: “È sicuramente un infarto”. Manca l’aria: “Questo è un blocco respiratorio”. L’autodiagnosi viene poi smentita dai medici e questo potrebbe essere il primo campanello d’allarme per iniziare un percorso psicoterapico, peccato che anche in questo caso spesso non accada e si ritorni alla vita di prima, in attesa di una seconda crisi.
La confusione attorno a termini come “ansia”, “panico” o “depressione” diventa un problema capillare quando certi messaggi poi vengono veicolati sui social. Così iniziamo a usare un termine sentito di sfuggita da un influencer o letto in un meme, e si diffonde una convinzione errata. “Anche io allora sono depresso”. “Ehi, conosco la sensazione dell’ansia, sta parlando di me”. Non c’è nulla di male nello sdrammatizzare un momento difficile attraverso un meme; ma la cosa diventa problematica se scollega la percezione del disagio dalla realtà, soprattutto in assenza di una diagnosi – per carità, non sempre facile da ottenere.
Persino i medicinali diventano meme o status symbol, soprattutto perché presenti in diverse canzoni, specialmente nella scena rap-trap. Un quattordicenne scopre per la prima volta la parola Xanax attraverso Sfera Ebbasta, non da un medico. I rapper di turno, però, descrivono semplicemente gli ambienti che li circondano. Sta a un genitore, o al limite a un insegnante, spiegare a quello stesso quattordicenne che la sua malinconia adolescenziale non è per forza un disturbo depressivo e che assumere benzodiazepine senza una prescrizione medica non lo renderà più figo agli occhi dei compagni di classe e forse non lo farà nemmeno stare meglio sul lungo periodo. A essere deleterio è l’uso che spesso viene fatto dei farmaci, quando vengono assunti come droghe, e dunque ad alti dosaggi, cercando un rilassamento artificiale che, a seconda dell’assunzione, può diventare quasi una sedazione, creando una vera e propria dipendenza.
Il discorso può attorcigliarsi su se stesso all’infinito, perché spesso non esistono sinonimi per certe parole e inevitabilmente viene usata la stessa, pur interpretandone in maniera molto libera il significato. Tutto ruota quindi intorno all’educazione, al nostro buon senso, e ancor di più a quello di chi ha un megafono tale da poter veicolare certi messaggi di fronte a una grande platea, che sia un influencer, un artista o qualsiasi altro personaggio pubblico. Non possiamo pretendere di cancellare il termine ansia se non associato al disturbo d’ansia generalizzata, o tappare la bocca a chi parla di depressione senza soffrirne davvero.
L’unica azione che possiamo mettere in pratica è quella di disincentivare l’autodiagnosi, già dannosa di suo per altri tipi di sintomatologie, e ancor più pericolosa se associata alla salute mentale. Chi “oggi è un po’ depresso”, con una campagna di sensibilizzazione sulla salute mentale potrebbe capire di trovarsi semplicemente di fronte a una giornata no, e magari di fare attenzione ai suoi stati d’animo sul lungo periodo per capire se invece uno stato d’animo può nascondere un disturbo più grave. Prima di chiedere a Google sarebbe bene rivolgerci al nostro medico curante, o a un professionista della salute mentale, trovando – con tutto il tempo che ci vorrà – le parole migliori per comprendere e raccontare la nostra esperienza.