Nella serata del 24 maggio, Aurora Leone, attrice del gruppo comico The Jackal, è stata cacciata dal tavolo della cena celebrativa della Partita del cuore dal direttore generale della Nazionale Italiana Cantanti, Gianluca Pecchini, nonostante fosse nella lista dei convocati della squadra Campioni per la Ricerca. “Le donne non possono stare al tavolo delle squadre” e “Le donne non giocano” sarebbero state le parole rivolte da Pecchini a Leone, stando alla testimonianza della stessa Aurora e dell’altro Jackal Ciro Priello su Instagram. Inoltre, quando Leone ha ribattuto che non era un’accompagnatrice e aveva tutto il diritto di sedere al tavolo con gli altri giocatori, perché ufficialmente convocata e con tanto di divisa per giocare il giorno successivo, le sarebbe stato invece risposto che il completino se lo sarebbe potuta comunque mettere in tribuna, perché le donne non giocano.
Che il calcio non ami particolarmente le donne è noto da tempo, e a dimostrazione di questo basterebbe dare un’occhiata all’abissale squilibrio salariale e di prestigio che sussiste tutt’oggi fra il calcio maschile e quello femminile. Secondo le Norme Organizzative interne della Federcalcio italiana le calciatrici sono considerate “dilettanti”, e per questa ragione non possono firmare veri e propri contratti ma solo scritture private o accordi economici con le società sportive che – sempre per legge – non possono superare i 30.658 euro l’anno. Briciole rispetto alle cifre milionarie dei contratti dei professionisti uomini.
Ma questo episodio assume una tinta ancora più surreale dal momento che non si trattava di un evento sportivo vero e proprio, ma di una partita organizzata per un ente benefico che più volte ha trattato il tema della violenza sulle donne e che nel 2018 ha addirittura ricevuto gli stessi fondi di D.i.Re, la principale rete di centri antiviolenza in Italia, per i progetti di prevenzione e contrasto della violenza di genere. Ciò che sconvolge è anche il fatto che offese così cariche di pregiudizio e sessismo possano essere arrivate da una delle figure di maggior rilievo di un ente nato con fine benefico e inclusivo come la Nazionale Cantanti.
La Nazionale Cantanti ha poi provato a rimediare con delle storie Instagram, ora cancellate, dove si è difesa sostenendo che molte donne in passato hanno sostenuto i loro progetti e che lo staff, le conduttrici e la squadra arbitrale quest’anno è composto da sole donne (4 in tutto, e sotto il primo livello di management). “Alessandra Amoroso, Madame, Gessica Notaro, Gianna Nannini, Loredana Bertè, Rita Levi di Montalcini, sono solo alcuni dei nomi delle tantissime donne che dal 1985 (anno in cui abbiamo giocato a San Siro, per la prima volta, contro una compagine femminile), hanno partecipato e sostenuto i nostri progetti”, aveva scritto la Nazionale cantanti. La classica e imbarazzante toppa peggio del buco che molti social media manager si ostinano a non voler imparare a gestire diversamente. Pecchini il 25 maggio si è dimesso dal suo incarico, non senza diffondere prima una nota ufficiale in cui ha tentato di minimizzare l’accaduto come una reazione esagerata da parte di Leone e Priello. Sandro Giacobbe, musicista e storico membro della Nazionale Cantanti, ha rincarato la dose affermando che Leone si sia inventata tutto di sana pianta per avere più follower.
Un copione già visto. Donne che da vittime diventano carnefici. Donne costrette a lottare per avere il loro posto nella vita e nel dibattito pubblico, anche quando ne avrebbero pieno diritto. Il tutto nel silenzio della maggior parte degli uomini. Nessuno a parte Aurora Leone e Ciro Priello, durante la cena del 24 maggio si è alzato da tavola dopo le parole di Pecchini. Nella realtà dei fatti è questo quello che succede quando si subiscono discriminazioni di genere, di etnia o di classe: si rimane da soli. Dopo vengono tirate fuori madri, sorelle e collaboratrici donne come scudo dalle accuse; le competenze e la meritocrazia, con l’immancabile dichiarazione di qualcuno che denuncerà la dittatura del “politicamente corretto” che dirà che non si più dire nulla. E nel balletto di dichiarazioni il senso di quello che è successo e la lezione che si dovrebbe imparare sarà già evaporata, risucchiata in un calderone di tweet, post e commenti.
Ciò che è accaduto dovrebbe farci capire che il maschilismo non è la distorsione del pensiero di pochi, ma un’idea salda e radicata nella nostra cultura. Di fronte a questa presa di coscienza la cosa migliore da fare sarebbe cercare di combatterlo nel quotidiano piuttosto che commentarla sui social: sarebbe molto meglio se tutti coloro che in queste ore stanno commentando inferociti sui social mettessero la stessa energia e lo stesso impegno praticando nella realtà e nella quotidianità una cultura alternativa in grado di sradicare la cultura sessista ancora salda nel nostro Paese. Perché la questione che pone quanto accaduto ad Aurora Leone non è tanto che il calcio è uno sport sessista o che nel 2021 esistono ancora persone che ritengono che una donna non possa giocare a calcio, ma quanto noi riteniamo normale che si possano barattare valori e principi come la parità di genere per convenienza. Quanto è spaventoso che mentre accadeva un fatto simile le persone presenti alla cena non siano intervenute contro un episodio ingiusto e degradante nei confronti di una donna, nonostante Aurora Leone stesse lamentando di esserne vittima.
Chi era a quel tavolo e chi assiste a discriminazioni ha l’occasione di reagire e di usare il suo potere e il suo privilegio nel momento giusto. Quanto accaduto mette a nudo le responsabilità maschili, e quanto sia sempre più fondamentale che gli uomini se ne facciano carico. Possiamo scegliere da che parte stare: se dalla parte di quelli che continuano a mangiare e a occupare la propria sedia come se niente fosse, o dalla parte di chi si alza e agisce, provando a cambiare le cose. Non abbiamo bisogno di uomini indignati sui social, ma di uomini indignati nella vita reale, che si siedano al nostro fianco e che si alzino con noi quando come donne veniamo sminuite in occasioni pubbliche e ufficiali da retaggi sessisti e misogini. Chiedere e pretendere la partecipazione delle donne non è una questione di politicamente corretto o di quote rosa, ma dovrebbe essere lo standard minimo a cui attenersi in ogni circostanza. È una questione di giustizia, non una formula magica capace di riparare i mali dalla collettività. Molti ritengono ancora che il femminismo sia un’opinione, una scelta, un gusto personale, qualcosa che può essere condivisibile o meno, e non quello che è: una componente della lotta per i diritti umani. È arrivato il momento di capirlo e di pretendere che anche gli uomini ne prendano consapevolezza, combattendo davvero al fianco delle donne.