Da qualche tempo leggiamo articoli su un presunto aumento esponenziale di uomini trans, persone che, non riconoscendosi nel genere femminile assegnato alla nascita, si identificano in quello maschile. Si preferisce questa definizione al termine FtM (ovvero Female to male), oggi considerato obsoleto dalla comunità LGBTQ+ proprio perché essere trans non vuole dire intraprendere una transizione così netta. Il dibattito in realtà è attivo da qualche anno in Italia, sulla scia di Stati Uniti e Gran Bretagna. Nata in sordina, esiste una vera contro-narrazione con tanto di studi pseudoscientifici a supporto – prontamente smentiti dalla comunità accademica – ripresa anche in Italia da parte della stampa di destra ultracattolica, ma anche da testate come il Corriere della Sera o Avvenire. Con il dibattito ancora in corso sul Ddl Zan la questione è tornata centrale e, per esempio, D-Repubblica ha pubblicato il 15 maggio scorso un lungo e dettagliato dossier intitolato Viaggio ai confini del gender con vari articoli sulla questione dell’identità di genere e sull’”epidemia” transgender.
In particolare il pezzo di apertura sostiene si stia registrando un grande aumento di “female to male”, adolescenti femmine che si identificano come maschi e vogliono cambiare genere, influenzate dai social in una sorta di “contagio collettivo”. L’epidemia – termine che sembra suggerire come il transgenderismo sia una patologia medica – riguarderebbe in particolar modo Stati Uniti e Gran Bretagna, dove le cliniche del genere “spuntano come funghi” e sono tantissimi i casi di “detransitioners”, ovvero di ragazzin* che cambiano idea sul percorso di transizione. La notizia in tutti i casi è datata e fa riferimento a un’inchiesta pubblicata su The Atlantic nel 2018, con toni assai più pacati e giornalisticamente diversi da quelli utilizzati oggi dalla maggioranza delle voci anti-gender italiane. Una diversa sensibilità che già nel 2019 portava Nbc a riflettere su come una certa narrazione sul “transition regret” avesse contribuito a creare una pregiudizio sulle persone transgender. La cover story di The Atlantic è stata in seguito ampiamente messa in discussione da Slate, che ha evidenziato lo sguardo unilaterale del reportage: le storie di adolescenti raccolte da Jesse Signal sono solo quelle di persone che hanno ricevuto cure erroneamente, in un numero in proporzione molto inferiore rispetto a quelli che invece vivono una vita più felice dopo la transizione.
Se è comprensibile sostenere che nella costruzione del genere non si possa prescindere dal fatto che viviamo in una società iper consumistica, dove i bisogni sono indotti dall’offerta, e patriarcale, dove essere uomo può affascinare per questioni di potere, è molto pericoloso dire che intraprendere il percorso di transizione sarebbe dettato, come sostiene il dossier di D-Repubblica, dalla misoginia e dalla lesbofobia: una delle tesi sostenute dalla rivista è che si rifiuterebbe l’identità femminile per odio verso le donne, preferendo essere ragazzi che donne omosessuali.
Esiste davvero in Italia un aumento esponenziale di transgender? Si tratta di un aumento di casi o di referti? “Le persone transgender esistono e sono sempre esistite”, spiega a The Vision Jiska Ristori, psicoterapeuta presso Andrologia, Endocrinologia femminile e incongruenza di genere dell’ospedale Careggi di Firenze, “ma stiamo assistendo a un aumento di richieste di assistenza e non di ‘casi’. Purtroppo non è possibile avere una stima della popolazione transgender italiana, non essendo al momento disponibili studi epidemiologici pubblicati. Verosimilmente, la popolazione transgender non è aumentata. Assistiamo piuttosto a un aumento del numero di persone transgender che si rivolgono a centri dedicati. Quindi, a un aumento di richieste e a un’età media progressivamente più giovane. Tale andamento potrebbe essere spiegato dalla maggiore facilità di accesso e disponibilità di informazioni anche tramite il web e quindi da una maggiore facilità a richiedere aiuto quando ricercato. Inoltre, anche il riconoscimento di identità non binarie e la possibilità di interventi parziali ha spinto più persone a chiedere assistenza laddove prima probabilmente non si sentivano riconosciute”.
Per alcuni tabloid britannici ci sarebbe un aumento del 4000% di giovani uomini trans in Inghilterra, un dato senza alcun riscontro che però è stato ripreso da diverse testate italiane. Nel dossier di D-Repubblica è citato a più riprese il “Rapid Onset Gender Dysphoria”, un disturbo di cui si parla nello studio omonimo di Lisa Littmann del 2018, ricercatrice della Brown University School of Public Health, che ipotizza “una forma rapida di contagio sociale” di ragazzine che vogliono cambiare genere. Peccato che lo studio sia stato ritirato già nel 2019 e contestato dal National Center for Biotechnology Information (Nbci) e da The Sociological Review, ma soprattutto messo al bando dal World Professional Association for Transgender Health (Wpath), che lo ha considerato “un acronimo non riconosciuto in nessun manuale diagnostico”. Secondo il Wpath “lo sviluppo nell’adolescenza è ancora in evoluzione e non ancora pienamente compreso da scienziati, clinici, membri della comunità, e dagli altri soggetti interessati in misura uguale”.
Ethan Bonali da anni si occupa proprio di studiare il “panico morale” provocato da certa stampa a proposito delle persone transgender, e già nel 2018 al Festival di giornalismo di Perugia aveva smontato insieme a Jane Fae, attivista transgender e giornalista inglese, varie notizie false diffuse dalla stampa nostrana. “Purtroppo la narrazione anti-gender parte sempre e comunque da presupposti sbagliati e patologizzanti”, dice Bonali a The Vision. “Pensiamo all’aborto, a quando era illegale. Poi è diventato legale, lo stigma è scomparso o quasi… ora ci sono ‘epidemie’ di aborti? No. Ora l’aborto è diventato un servizio più sicuro e meno rischioso”.
Esiste un aumento di uomini trans rispetto alle donne trans? A scanso di equivoci di FtM rispetto a MtF? Al centro Careggi di Firenze al momento sono seguiti 88 minori, di cui 57 femmine e 31 maschi. “L’aumento c’è. Prima della rivoluzione degli anni Settanta si parlava di 8 donne trans contro 1 uomo trans, in seguito la forbice si è ridotta da 8 a 6”, sostiene Ethan Bonali, “l’aumento dipende probabilmente dal fatto che è diminuito lo stigma nei confronti dei minori gender variant e si aspetta meno a dirlo a propri genitori. È ancora tabù, ma un po’ meno. Da cosa sono spinte le ragazze?”, si interroga Bonali, che conduce gruppi rivolti a genitori con figli transgender per l’associazione la Libellula di Roma. “Con i genitori che seguo non ho mai riscontrato nessun caso di misoginia interiorizzata o lesbofobia. Credo ci siano molte altre motivazioni più influenti! Questa è una generazione di genitori più in ascolto dei figli, più supportanti rispetto ai nostri genitori, anche perché ora ci sono per la prima volta corpi pubblici che escono. Oggi c’è Elliot Page, fiero di mostrare il proprio corpo tonico, tuttavia a molte sedicenti femministe questo dà fastidio, proprio perché è una storia positiva”.
Secondo Jiska Ristori del Careggi, lo stigma è ancora molto forte e la società in cui viviamo fortemente transfobica. Inoltre, secondo Ristori, è difficile che questa scelta venga fatta per “contagio”: “Tra i nostri utenti non ci sono state persone che si sono rivolte al centro spinti da una moda. Alcune persone ci raccontano che il contatto con i social e internet hanno aiutato nel prendere consapevolezza di sé, ma non nel senso che ne sono stati influenzati. L’identità di genere di una persona fa riferimento al nostro modo di sentirci rispetto all’appartenenza a un genere e non è influenzabile dalle storie con cui veniamo in contatto. Altrimenti ciò varrebbe anche per le persone cisgender”.
Complesso è anche il discorso sugli ormoni e sulla presunta facilità di somministrazione. Esprimere una preoccupazione per l’estrema facilità con cui, soprattutto all’estero, i medici prescrivono gli ormoni o i bloccanti della pubertà, e per l’età sempre più bassa delle bambine che si rivolgono agli specialisti con un’incongruenza di genere non porta nessun beneficio alla strada già tortuosa che le persone transgender si trovano a percorrere. L’Italia ha dal punto di vista giuridico e sanitario normative completamente diverse dalla Gran Bretagna come anche dagli Stati Uniti. Solo nell’ottobre 2020 l’Agenzia Italiana del Farmaco ha rilasciato una determina per cui in linea teorica la terapia ormonale può essere erogata gratuitamente in tutto il territorio nazionale.
In realtà, spiega a The Vision Alessandra Daphne Fisher, endocrinologa del Centro Careggi, “presenta dei criteri molto rigidi per la prescrivibilità della terapia ormonale di affermazione di genere. Tuttavia, la prescrizione a carico del Servizio Sanitario, in base alla nuova determina Aifa, può essere effettuata solo ‘previa diagnosi di disforia di genere/incongruenza di genere formulata da un’equipe multidisciplinare e specialistica dedicata’. Questo implica la presa in carico da parte di un centro specializzato che soddisfi questi requisiti”.
Complesso è in generale il discorso sul transgenderismo se non si parte dal presupposto che la vera ricchezza della queerness è anche ciò che fa davvero paura: la mancanza di confini netti e definizioni precise. L’espressione non binary, nata negli anni Novanta per descrivere identità “che rifiutano di situarsi all’interno del sistema di genere polarizzato”, crea ancora molti nervosismi. Lo spiega bene Maya De Leo in Queer, la prima opera italiana completa e di riferimento per la storia delle sessualità e identità LGBTQ+, un libro che mette in guardia una volta per tutte da discorsi superficiali e non corretti sul piano anche linguistico.
In Queer si parla anche di una figura di riferimento della comunità LGBTQ + e in particolare degli uomini trans, ma praticamente sconosciuto in Italia: Leslie Feinberg, “una figura dall’impatto straordinario nell’attivismo e nella narrative”, scrive Maya De Leo. Con il suo Stone Butch Blues, romanzo autobiografico divenuto oggi un libro cult e quasi introvabile, rivendicava per sé le identità di lesbica e transgender, cosí come l’uso dei pronomi femminile, maschile e neutro. Per Feinberg c’è bisogno di superare ogni divisione per lottare insieme contro ogni forma di ingiustizia: la protagonista e alter ego dell’autrice trova assurdo che i suoi colleghi operai, sfruttati e sottopagati, siano incapaci di riconoscere nelle butch delle compagne di lotta. Allo stesso modo non capisce la scelta di alcune femministe di escludere dai loro ranghi le butch e le femme perché le considerano rispettivamente “troppo virili” e “troppo femminili”. Era il 1993, ma come dimostrano le pubblicazioni recenti su molta stampa italiana, il cambiamento è ancora molto lontano dall’avverarsi.