Insieme a bagni, carceri e ospedali, lo sport è un ambito dove vige una rigida divisione per genere. Alcuni mesi fa ha fatto scalpore la notizia, poi smentita, che la catena britannica di palestre David Lloyd (presenti anche in Italia) aveva stabilito che, per usare lo spogliatoio del genere di scelta, una persona trans avrebbe dovuto presentare un Gender Recognition Certificate. Il certificato riporta una diagnosi di disforia di genere, oltre alla prova di aver vissuto per almeno due anni nel genere scelto e che sia una scelta definitiva. Il documento nel Regno Unito è necessario durante l’iter di modifica anagrafica, anche senza la riassegnazione chirurgica dei genitali.
Non si conosce né il motivo di questa decisione, ripresa da molti giornali, né della successiva smentita. È probabile che la pubblicità negativa – anche dovuta al fatto che le catene concorrenti hanno dichiarato di accogliere le persone trans – e soprattutto la violazione dell’Equality Act, una legge antidiscriminazione, abbiano avuto un ruolo importante nella decisione di ritirare la dichiarazione. Siamo di fronte a un esempio comune delle discriminazioni e della burocratizzazione che il corpo delle persone trans subisce che ha una doppia valenza di tutela e di controllo. La divisione per genere di spazi come bagni e spogliatoi viene giustificata con la tutela della privacy e il rischio di molestie sessuali da parte dell’altro genere, cioè degli uomini sulle donne. Era un sistema che poteva funzionare, fino all’emergere delle soggettività trans. Sono però le donne trans a subirne le conseguenze, considerate uno spauracchio mostruoso, quasi come se fossero portatrici di peni molestatori con una volontà autonoma rispetto alla persona. Quest’idea riflette una concezione comune sulle donne trans viste come predatrici sessuali, ninfomani e come uomini travestiti, che riescono a introdursi negli ambienti femminili per molestare e trarre vantaggio dalla loro corporatura. Ci sono stati pochi casi di molestie e al contrario diverse donne trans sono state attaccate e cacciate dagli spogliatoi, anche in contesti scolastici. Nel caso di atleti trans, ma ancora di più di atlete trans, il pregiudizio è ancora più forte: le sportive trans sono uomini, hanno un Dna maschile e non possono competere sullo stesso piano delle donne cisgender.
Lo scorso febbraio fa la tennista lesbica Martina Navratilova aveva duramente criticato l’inclusione di donne trans nelle competizioni femminili a causa di una presunta superiorità muscolare e fisica. È innegabile che un atleta di sesso maschile abbia una struttura muscolare sviluppata e potenziata, anche in base al tipo di allenamento, ma è anche vero che non tutti i maschi sono uguali, con la stessa corporatura o struttura ossea. Le terapie ormonali sostitutive non cambiano il corpo solamente sul piano morfologico, modificando i lineamenti e ridistribuendo i grassi, ma agiscono anche sulla densità ossea e sui muscoli. Gli inibitori di testosterone che fanno parte della terapia di una donna trans riducono la massa muscolare. Non è possibile calcolare un coefficiente di mutazione fisso né fare una previsione puntuale per tutte le persone che seguono una Tos, la terapia ormonale sostitutiva: ogni corpo reagisce in maniera diversa ai vari tipi di farmaci disponibili per la Tos.
Lo sport, però, non è solo una questione di massa muscolare, ma è anche gioco, tattica, strategia, capacità di prevedere e relazionarsi con l’avversario, gioco di squadra. Ridurre tutto a una questione di Dna o di livelli ormonali è squalificante per la professionalità di queste persone. Che sia giusto o sbagliato, chi critica l’accesso alle competizioni alle atlete e agli atleti trans non offre una soluzione alternativa. Le due soluzioni ipotizzabili sono la competizione nelle gare del genere assegnato alla nascita o l’interdizione totale dalle competizioni. Se l’obiettivo dell’esclusione delle sportive trans dalle gare femminili è garantire l’equità nella competizione, bisognerebbe anche ricordarsi che non è per niente equo nei confronti di atleti e atlete che hanno intrapreso un percorso di transizione.
Un caso molto controverso riguarda l’atleta intersex mezzofondista Caster Semenya, che vive una situazione ormonale di iperandrogenismo, cioè una produzione sopra la media di testosterone. In diverse occasioni le sono state mosse non troppo velate accuse di mascherare il suo “vero” sesso perché considerata troppo mascolina per essere una donna. La Iaaf, l’Associazione Internazionale delle Federazioni di Atletica Leggera, le aveva imposto una terapia farmacologica per ridurre il livello di testosterone, ma l’atleta aveva fatto ricorso al Tribunale arbitrale sportivo di Losanna (Tas). Anche se il Tas ha rigettato il ricorso nel maggio scorso, la Corte suprema del tribunale federale svizzero ha sospeso la decisione della Iaaf, permettendo alla campionessa olimpionica di tornare a gareggiare temporaneamente. Intanto Semenya ha dichiarato di essere stata trattata dallo Iaaf come un “ratto da laboratorio” e che la terapia che aveva intrapreso, le cui conseguenze non sono ancora note, la faceva sentire costantemente male. Questa storia dimostra come il binarismo di genere non risparmi nessuno, compresi coloro che lavorano in un ambito dove i corpi dovrebbero contare più dell’apparenza estetica.
Il testosterone è solo uno degli ormoni che il corpo umano produce ed è impropriamente considerato l’ormone maschile. Il testosterone è prodotto, in quantità diverse, sia da persone di sesso maschile che di sesso femminile. In ambito sportivo favorisce lo sviluppo muscolare, oltre a una produzione più alta di globuli rossi, che portano le molecole di ossigeno ai muscoli. Una maggiore ossigenazione muscolare si traduce in una resistenza muscolare superiore. Per questo una delle sostanze dopanti più usate – che ha causato la squalifica di atleti come la mezzofondista Yuliya Stepanova (e tutta la squadra russa) alle Olimpiadi di Rio nel 2012 e Alex Schwazer – è l’Epo, un farmaco usato in casi di anemia e dopo i cicli di chemioterapia. La crescita del numero dei globuli rossi provocato dall’Epo causa un aumento della viscosità del sangue, cioè un rallentamento del flusso sanguigno, ma ha come effetto collaterale il rischio di infarto, embolia polmonare e trombosi. In generale, le persone che seguono trattamenti ormonali a base di estrogeni, che siano donne trans o donne cisgender in menopausa che seguono una Tos, sono esposte al rischio trombosi, così come le donne che prendono la pillola anticoncezionale o altri contraccettivi ormonali. Il legame tra ormoni, doping, genere e sport è molto complesso e non è possibile ridurlo a un determinismo genetico, quando il corredo informativo genetico è talmente complesso da non poter essere considerato un fattore determinante nell’organizzare competizioni sportive eque. Di fatto costituisce un criterio discrezionale che porta comporta un’irragionevole discriminazione delle persone trans dalle competizioni.
Al di là dell’ambito agonistico, l’accesso allo sport è un problema trasversale. Prima di tutto per le implicazioni legate al cambio anagrafico, che in Italia richiede almeno due anni. Una soluzione potrebbe essere quella di rendere disponibili le carriere alias anche in ambito sportivo. Questo provvedimento amministrativo, già in uso in molti atenei italiani, permette alle persone trans di avere tesserini e badge con il nome scelto, in attesa dell’effettivo cambio anagrafico. L’Unione Italiana Sport per Tutti (Uisp) ha già attivato questa possibilità per iscritti e iscritte trans.
Atleti e atlete trans sono dei modelli di riferimento molto forti per la comunità trans. La narrazione dominante riguardo le persone trans è spesso quella del corpo sbagliato, da modificare con cure ormonali e chirurgia, anche con la prospettiva di rientrare in modelli estetici binari. I corpi delle persone trans possono cambiare, ma solo fino a un certo punto. L’accettazione del proprio corpo può passare anche attraverso la pratica sportiva, sia individuale che in squadra. In Brasile, il Paese con il più alto tasso di omicidi a sfondo transfobico, dei ragazzi trans hanno formato un’intera squadra di calcio. In Brasile, così come in Italia e nel resto del mondo, lo sport è uno strumento potente per dimostrare che le persone trans e intersex possono gareggiare, competere, vincere o perdere, ma soprattutto sconfiggere il pregiudizio di chi si ostina a considerarle delle anomalie.