Che Roma sia una sorta di inferno pantagruelico in terra lo si capisce già quando si mette piede alla stazione Termini. Traffico, rumore, confusione e incuria sono gli ingredienti predominanti nella ricetta della Capitale, un mix che si alterna alla presenza dirompente di un patrimonio artistico e culturale tra i più belli e preziosi del mondo, concentrato di splendore e magnificenza di questa città schizofrenica. Una particolare forma di strabismo strutturale rende Roma un luogo dove è possibile per i suoi abitanti, nell’arco della stessa giornata, provare per lei amore incondizionato e odio viscerale, come nelle migliori relazioni tossiche. A innescare il moto di disprezzo verso questa città enorme e caotica ci sono tante cose, ma forse una delle più imbattibili è l’Atac. Per chiunque avesse passato più di 24 ore a contatto con l’azienda dei trasporti capitolini questa affermazione non può che risultare scontata: l’Atac è un mostro proteiforme che può manifestarsi sotto le sembianze di un autobus stracolmo e senza aria condizionata, un tram bloccato in mezzo alla Prenestina, un vagone della metro dove mancano ossigeno e speranze di sopravvivenza. Il Partito radicale, in seguito a decenni di sopportazione passiva di questa situazione folle, ha indetto un referendum per chiedere ai romani se volessero privatizzare o meno l’azienda. Si terrà il prossimo undici novembre e si tratta di un punto di svolta importante per il futuro di un pezzo consistente della vita pubblica capitolina. Ma se da un lato questo colpo di testa verso un nuovo futuro potrebbe salvarne le sorti, dall’altro sembra contenere in sé il germe di una direzione pericolosa, quella che si prende quando per risolvere i problemi di un servizio pubblico – il diritto di potersi muovere nella propria città – ci si affida al privato.
In primo luogo bisognerebbe chiedersi perché l’Atac è un concentrato di inefficienza e disastri. Nell’ultimo anno l’azienda dei trasporti di Roma ha regalato al pubblico una serie di spettacoli che definirei al confine tra il circense e la fantascienza, giusto per confermare ulteriormente l’idea che la Capitale del Paese stia sprofondando dentro una voragine popolata da demoni e fiamme. Autobus che prendono fuoco – con magistrali documentazioni eminenti, come quella di Carmen Di Pietro – scale mobili che si accartocciano su loro stesse, inondazioni dentro alle vetture in perfetto stile Titanic: tutto quello che riguarda l’Atac lascia intendere che si tratti più di un ostacolo che di un servizio al cittadino. E in effetti, non c’è neanche più bisogno di raccogliere altre testimonianze per venire a conoscenza di quella sorta di nostos omerico al quale bisogna prepararsi se si intende tornare a casa propria con i mezzi pubblici dopo una serata fuori, o in qualsiasi altro momento della giornata.
All’origine di tanta negligenza disastrosa ci sono, come sempre quando si parla di luoghi grandi e complicati, cause di varia natura. C’è da mettere in conto che Roma è una città immensa, ma non solo. Infatti come lei ce ne sono molte altre nel mondo, anche più estese. A renderne complessa la gestione è la sua struttura, che non consente uno sviluppo lineare della linea pubblica. Scavare per costruire una metro nell’Urbe e non aspettarsi di trovare quintali di reperti archeologici è come mettere la testa sotto un getto d’acqua e pensare di non bagnarsi i capelli. Ma questo aspetto, in realtà, potrebbe essere superato se solo ci fossero le risorse adeguate per la tutela di un patrimonio storico tanto abbondante, combinate con una certa celerità nella realizzazione di imprese simili. L’altra grande macchia sul curriculum dell’Atac è quella legata alle varie vicende di Parentopoli, il fiore all’occhiello della giunta Alemanno, l’operazione di redistribuzione ad amici e familiari di posizioni all’interno delle municipalizzate, comprese quella di una cubista che a quanto pare oltre all’intrattenimento da discoteca era anche avvezza alla gestione di enti pubblici. Ma non è la prima volta che l’azienda viene coinvolta in scandali simili: già con Tangentopoli aveva infatti preso parte a giri di mazzette che l’avevano ridotta in uno stato pietoso. Con la giunta Rutelli, tuttavia, l’Atac entra in un periodo di rinascita, grazie a politiche mirate come il prepensionamento dei dipendenti e l’aumento del costo del biglietto. La rete dei servizi si estende, raggiungendo così un vertice di espansione (120 milioni di km) che verrà poi ridotto del 30% – in alcuni casi anche del 50% – negli anni successivi, fino ai giorni nostri.
Nei primi anni Duemila, poi, in concomitanza con il Giubileo, avviene il primo cambiamento importante per le sorti dei mezzi pubblici romani, ovvero l’assegnazione di alcune linee e aree della città a consorzi privati. Tutt’ora infatti circa il 20% del servizio è affidato a Roma Tpl, una divisione che garantisce ai dipendenti di questa sezione dell’azienda stipendi più bassi, orari di lavoro più lunghi e immagino tante altre soddisfazioni professionali. Questo dato andrebbe preso in considerazione nel momento in cui si parla di privatizzare l’Atac, considerato che un piccolo banco di prova per questa modalità già esiste. Ma a spingere le ragioni per il sì a questo referendum sono altri sentimenti: è piuttosto comprensibile che, date le condizioni tragiche in cui questa si trova, venga da pensare che solo l’intervento della liberalizzazione possa essere risolutivo per la bonifica di uno stagno molto profondo. Del resto, se il pubblico non ha funzionato fino a questo momento, perché non provare con il privato.
La questione è stata spiegata in modo piuttosto lucido e coerente da Walter Tocci, assessore alla mobilità della giunta Rutelli, su Internazionale, illustrando i motivi per cui affidare la produzione alla concorrenza mantenendo la funzione gestionale pubblica potrebbe salvare la pelle all’Atac e restituire ai cittadini romani un servizio degno di una capitale europea. Si tratterebbe di avere i vantaggi del libero mercato e della competizione che questo genera tra le aziende, con un miglioramento implicito dell’offerta, ma senza rinunciare alla tutela pubblica che veglia sul funzionamento dell’azienda, facendo in modo che non si alzino i prezzi dei biglietti e che non si scoprano aree già fortemente penalizzate dalla loro collocazione periferica. Ma quale azienda privata, simbolo per antonomasia della caccia al profitto, sarebbe disposta a mettersi in una situazione tanto rigida e rischiosa per le sue stesse tasche? La questione è molto complicata: se da un lato prevale la voglia di buttarsi il passato alle spalle e dire addio alla vecchia Atac con hashtag della portata di #Bastatac, dall’altro sorgono dubbi sull’efficacia di una misura simile. Si potrebbe però osservare, come fanno i promotori del “sì”, che gli interessi esistono pure nel pubblico, e che una commistione di due modalità di gestione andrebbe a migliorare uno stato mummificato come quello attuale delle cose.
Non mancano in questa vicenda gli schieramenti, piuttosto esemplificativi delle direzioni che hanno preso i partiti. Specialmente il Pd, che si trova nuovamente a confermare la sua ormai quasi totale alienità da qualsiasi iniziativa politica che un tempo avremmo definito “di sinistra”, come la lotta alla privatizzazione, verso un cammino di esplicito liberismo. Carlo Calenda, la twitstar pariolina che meglio rappresenta lo spirito del renzismo, insieme a Roberto Giachetti, ex competitor di Virginia Raggi alla corsa al Campidoglio dalle origini Radicali, per esempio, supportano con fermezza il “sì” al referendum. Si tratterebbe di una mossa di smottamento alla giunta grillina, un primo passo verso l’espugnazione di ogni palazzo del Comune di Roma per riprendersi “tutto quello che è il nostro”, tanto per proseguire un parallelismo tra Gomorra e Giachetti che era già diventato meme qualche anno fa. Dal lato del no invece si schierano compatti sindacalisti, i promotori del Mejo de no, esponenti della sinistra romana – tra i quali anche una piccola parte del Pd, membri di Potere al Popolo, Stefano Fassina – e poi, dolcis in fundo, M5S, Lega e Fdi. Il paradosso di questa fase politica all’insegna dell’incomprensibilità si manifesta di nuovo sotto forma di referendum consultivo: la sinistra maggioritaria propone una liberalizzazione dell’azienda di trasporti urbana – attenzione, non una privatizzazione – mentre destra e altri schieramenti a lei affine votano per il pubblico. Solo la sinistra minoritaria prova a fare notare che forse non è il caso.
Che l’Atac e le aziende pubbliche in generale, specialmente quelle romane, necessitino di una rivoluzione strutturale per ritornare a funzionare nel modo in cui dovrebbero non ci piove. Ma che il messaggio oggi sia quello che per fare sì che le cose funzionino ci sia bisogno di un privato che investa mi sembra una conclusione a dir poco offensiva per il concetto di democrazia sul quale si fonda il nostro Paese. Dove c’è un privato, c’è un interesse – lecito, peraltro, è così che funziona il mercato libero – di guadagno, e questa cosa non può influire su ogni singolo aspetto della nostra vita pubblica. Questo referendum è anche un termometro per la giunta di Virginia Raggi, che in due anni di operato ha saputo generare solo altra rabbia e indignazione tra i cittadini della Capitale. Ma è anche un’occasione per domandarci se il fine giustifichi sempre il mezzo, se è davvero questa la strategia giusta per indebolire la Sindaca.
È possibile che un domani, se dovesse vincere il “sì” e se si dovessero realmente attuare queste modifiche radicali alla gestione dei mezzi di trasporto, l’Atac ritorni a vivere grazie all’aiuto della liberalizzazione, e sarà un bene per tutte le persone che vivono a Roma. D’altro canto però, fare l’opposizione dovrebbe significare proporre alternative migliori di quelle attuali, magari anche in linea con le proprie idee di riferimento, a quei valori che ultimamente sembrano essere stati scaricati in un pozzo senza fondo. E più che a dare a un privato l’Atac il Pd avrebbe potuto pensare a un bel piano di risanamento di questa azienda, un progetto che interrompa questo circolo vizioso per cui meno autobus ci sono più macchine si usano meno autobus passano. Certo, non è detto che funzioni, non è detto che certe misure – come la liberalizzazione – non siano effettivamente più efficaci, la gente non smetterà di non pagare il biglietto, né con una formula di gestione privata né con altre misure. Ma siamo davvero sicuri che sia questa la direzione che vogliamo dare alla nostra cosa pubblica?