Siamo il Paese senza servizi per la famiglia. E se non figliamo diamo la colpa al “gender”. - THE VISION
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Abbattere il muro delle disuguaglianze sociali dovrebbe essere il primo obiettivo di ogni Stato. In Italia quel muro però ce lo si trova davanti fin dai primi anni di vita, e il problema degli asili nido ne è l’esempio più rappresentativo. Il rapporto di Save the children “Il miglior inizio” mette in luce uno scenario allarmante: soltanto a un bambino su 10, infatti, è garantito l’accesso agli asili nido pubblici. Questo compromette la vita all’interno dei nuclei familiari e costringe le madri a lasciare il lavoro, o comunque le mette di fronte a una scelta che sarebbe evitabile, se lo Stato garantisse loro un sostegno adeguato e migliori servizi. Alla base di queste carenze vi sono diversi motivi: una scarsa copertura sul territorio, il costo elevato, un deficit di servizi strutturali e, soprattutto, decenni di governi che non sono riusciti ad attuare una politica di inclusione, incentivi e aiuti alle famiglie.

Il rapporto di Save the children evidenzia inoltre non soltanto un netto dislivello tra l’Italia e i parametri fissati dall’Unione Europea, bensì una differenza anche a livello nazionale, dove alcune regioni del Sud  hanno coperture nettamente inferiori rispetto alle altre. L’obiettivo minimo dell’Ue riguardo l’accesso agli asili nido per i bambini sotto i tre anni è il 33%. In Italia siamo fermi al 24%, comprendendo le strutture private, e addirittura al 12% per quelle pubbliche. I numeri diventano impietosi analizzando la copertura garantita dal servizio pubblico al Sud: le situazioni peggiori sono in Calabria e Campania (2,6% e 3,6%), ma nessuna regione raggiunge il 10%. Tutto un altro mondo rispetto al 28% della Valle D’Aosta o al 26% dell’Emilia Romagna. Eppure dovremmo essere nella  stessa nazione.

Per studiare a fondo la tematica è necessario partire dalle difficoltà economiche che impediscono alle famiglie italiane di iscrivere i propri figli agli asili nido. Anche per quanto riguarda i costi c’è una discrepanza tra Nord e Sud. Un’indagine di Cittadinanzattiva ha indicato le città più costose per l’iscrizione: Lecco, Bolzano e Belluno occupano il podio, ma non si trova  nessuna città più a Sud di Livorno nella top 10. In queste realtà le famiglie pagano dai 400 ai 500 euro al mese per gli asili, quando va bene. Le città più economiche sono invece tutte al Sud: analizzando gli ultimi dati relativi all’anno scolastico 2018-2019,  si passa dai 100 euro di Catanzaro ai 170 di Enna. La media italiana è di 300 euro al mese, una cifra a cui vanno aggiunti i costi della mensa, che ammontano in media a 82 euro al mese. Un costo comunque insostenibile per molte famiglie italiane.

Un report della Fp Cgil parla infatti delle carenze nei servizi socio-educativi per l’infanzia, con 11.017 asili nido nel territorio italiano che non riescono a garantire una copertura adeguata per tutta la popolazione. Se 320mila bambini accedono al nido, ben 1.171.724 ne restano fuori. Un’esclusione che va considerata un’emergenza nazionale, in un quadro in cui lo Stato non salvaguarda il principio di uguaglianza nei servizi da offrire ai  cittadini. Per anni la politica ha promesso piani e interventi di sostegno alla genitorialità, azioni di welfare familiare e pari diritti a tutti i bambini. Ad oggi, nel 2019, le parole non si sono ancora sono tramutate in fatti.

 

Nel settembre del 2014 Matteo Renzi, presentando il piano di governo per i successivi tre anni, promise la creazione di mille asili nido in mille giorni. La base di partenza doveva essere il disegno di legge 1260, che prevedeva una riforma del sistema educativo prescolare. Ma il governo Renzi non è mai arrivato a quei fatidici mille giorni, essendo crollato prima, e non solo non sono state create nuove strutture, ne sono state chiuse alcune già esistenti, e sono aumentate le rette. Il governo gialloverde non se l’è cavata meglio, anzi. Lo scorso anno ha deciso di non prolungare un contributo nato in via sperimentale nel 2013, sotto il governo Monti, che aiutava le donne a conciliare maternità e lavoro grazie a un bonus per asili nido e babysitter. Non era la soluzione a tutti i problemi, ma consisteva in 3600 euro per sei mesi come alternativa al congedo parentale, da usare dal settimo mese del neonato fino a che non avesse compiuto 17 mesi. Ogni anno venivano erogati voucher per 30 milioni di euro, e più di 8mila madri lavoratrici ne facevano uso. Il governo gialloverde ha soppresso questa misura con l’intenzione di creare una nuova forma di aiuto strutturale. Ha avuto però solo il tempo per confermare una precedente misura del 2016, incrementando solo il bonus per il nido ma senza venire incontro alle esigenze lavorative delle madri. Questa misura doveva essere ampliata ma, come nel caso di Renzi, l’esecutivo è caduto prima, e a pagarne le spese sono state le famiglie – e soprattutto le donne – italiane.

Adesso, con l’insediamento del Conte-Bis, è ricominciato il valzer delle promesse. Durante il discorso tenuto alla Camera nel giorno della fiducia per il nuovo governo, Giuseppe Conte ha dichiarato che il primo atto dell’esecutivo giallorosso sarà proprio un intervento sugli asili nido: “Questo Governo, quale prima misura di intervento a favore delle famiglie con redditi bassi e medi, si adopererà con le Regioni per azzerare totalmente le rette per la frequenza di asili nido e micro-nidi a partire dall’anno scolastico 2020-2021 e per ampliare, contestualmente, l’offerta dei posti disponibili, soprattutto nel Mezzogiorno”. Anche se nessuno sa da dove spunteranno fuori le risorse per azzerare le rette da un lato, e ampliare l’offerta e quindi aprire nuove strutture dall’altro, la speranza è che il buon proposito abbia una sorte diversa rispetto a quella dei suoi predecessori. O anche solo che il governo possa durare più del tempo di qualche promessa estiva.

Un altro aspetto da modificare è certamente la concezione stessa dell’asilo nido, che andrebbe trattato non come un parcheggio, ma come come un luogo di effettiva possibilità educativa per i bambini. Un recente rapporto di Openpolis spiega inoltre come i bambini con istruzione pre-primaria siano più sviluppati nelle competenze numeriche e letterarie e abbiano una maggiore capacità di adattamento nei successivi gradi di istruzione. Soprattutto perché, come viene evidenziato in uno studio dell’Unicef, nella fascia dai 3 ai 6 anni l’85% dello sviluppo celebrale di un bambino è già avvenuto, quindi l’educazione sotto i 3 anni consente di plasmare uno sviluppo in un terreno ancora fertile. A tal proposito l’Unicef chiede ai governi di dedicare al settore dell’istruzione prescolare almeno il 10% dei bilanci scolastici nazionali. I dati Ocse elaborati da Openpolis indicano per l’Italia un arretramento rispetto agli altri Paesi europei nella classifica della percentuale del Pil speso nell’istruzione prescolastica. Il nostro Paese è allo 0,50%, mentre la Svezia all’1,40, e soltanto Paesi Bassi e Irlanda son messi peggio di noi. È il momento di intervenire, per conferire all’educazione prescolastica il giusto ruolo.

È quindi fondamentale comprendere cosa si fa al nido, attribuirgli un valore sociale ed educativo che vada oltre l’assistenzialismo, come fanno già molti asili privati. La struttura di un nido è plasmata su misura per garantire al bambino di sentirsi a suo agio nell’ambiente che lo circonda. La struttura di un nido in Italia è plasmata su misura per garantire al bambino di sentirsi a suo agio con l’ambiente che lo circonda. Ad esempio, la capienza difficilmente supera i 60 posti, in modo da poter seguire in modo appropriato ogni singolo bambino e permettere un progetto educativo basato anche sulla socializzazione. Il micro-nido non supera la capienza di 10-15 posti, e il servizio di nido-famiglia poi, gestito dalla cosiddetta Tagesmutter, si prefigge addirittura di garantire gli stessi servizi in un ambiente casalingo, con meno rischi di contagio e gruppi di soli 5 bambini. In Italia, come in altri settori, siamo arrivati in ritardo nell’istituzione degli asili, e non c’è da stupirsi che ci sia ancora una concezione molto arretrata, nonostante il nostro Paese abbia dato i natali a pedagoghi come Maria Montessori.

La legge che ufficializza il nido come un servizio sociale di interesse pubblico (la 1044/71) risale infatti al 1971, mentre i primi Kindergarten sono nati in Europa addirittura nel 1837, grazie a Friedrich Fröbel. Il primo esperimento italiano risale al 1850, con la fondazione a Milano del “Ricovero per lattanti”, un asilo gratuito, riservato ai figli degli operai. All’epoca l’abbandono minorile era un fenomeno largamente diffuso, con i neonati che venivano lasciati nella Ruota degli esposti, abolita nel 1868. Adesso, fortunatamente, con lo sviluppo economico del dopoguerra l’abbandono è drasticamente calato, ma la mancanza di un adeguato sostegno statale resta un forte deterrente per tutte quelle famiglie che stanno pensando se fare un bambino o meno, un profondo deficit strutturale che porta alla consapevolezza di essere perennemente svariati passi indietro rispetto al resto dell’Europa per numero e qualità dei servizi.

Sarà quindi necessario per il nuovo governo offrire un aiuto tangibile alle famiglie. Azzerare le rette per le famiglie di reddito medio basso sarebbe di certo un ottimo inizio, se le promesse venissero rispettate. Ma non basta: bisognerebbe tornare al progetto di un allargamento della copertura nazionale attraverso la costruzione di nuove strutture. Non per forza con i mirabolanti proclami dei mille giorni di Renzi, ma almeno attivandosi per un progetto politico a lungo termine, volto all’eliminazione delle disuguaglianze sociali. È così che dovrebbe essere, almeno in una nazione civile – che ormai fa sempre più il paio con “ricca”. Ma siamo in Italia, e dunque non ci resta che incrociare le dita e rendere straordinarie delle misure in realtà ordinarie, auspicare delle azioni che già da decenni dovevano essere leggi. Accontentarci della normalità, perché sarebbe già un traguardo.

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