La ripresa della pandemia in Medio Oriente ha bloccato per il momento il processo di annessione della Cisgiordania da parte di Israele, che nell’accordo di governo di aprile tra i conservatori (Likud) di Benjamin Netanyahu e i centristi (Blu e Bianco) di Benny Gantz sarebbe dovuto iniziare il primo luglio 2020. Nulla si è ancora mosso, per fortuna: se il parlamento israeliano avesse votato l’estensione unilaterale della sovranità israeliana “fino a circa il 30% del territori palestinesi occupati nella West Bank”, come vorrebbe il premier Netanyahu stando ad alcune indiscrezioni rivelate da un ufficiale israeliano anonimo al sito Axios, la comunità internazionale sarebbe arrivata ancora una volta tardi per impedirlo. Sia le Nazioni Unite che l’Unione europea condannano la “grave violazione del diritto internazionale”, ma si limitano agli avvertimenti. A maggio l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri Josep Borrell si era sbilanciato dichiarando che erano “in fase di discussione delle sanzioni”, ammettendo tuttavia “posizioni diverse nell’Ue”, anche se da anni tutti i 27 membri considerano “illegali tutti gli insediamenti israeliani” a Gerusalemme Est e nella Cisgiordania occupate dalla Guerra dei sei giorni del 1967.
L’annessione è un passo oltre l’occupazione, ma è un sentire sempre più comune che il corso degli eventi non possa più invertirsi. Quasi il 90% della valle del Giordano, come ha ricostruito l’ong israeliana per i diritti umani nei territori occupati B’Tselem che mappa gli insediamenti, è già sotto il controllo israeliano: dichiararne la sovranità non cambierebbe nella sostanza le condizioni dei palestinesi. Eppure le annessioni non sono passaggi formali, ma spartiacque della storia, e anche l’Economist mette in guardia dal sottovalutare i rischi di un atto simile: per Israele significa “Restare o meno uno Stato ebraico e contemporaneamente democratico”. L’annessione della Cisgiordania rappresenterebbe un ulteriore salto di “qualità” nella violazione di una lunga serie di risoluzioni dell’Onu da parte di Israele, a cominciare dalla 181 del 1947 sulla ripartizione in due Stati. Dal Palazzo di Vetro il Consiglio dei diritti Umani ricorda che “l’annessione di un territorio occupato costituisce una violazione grave della Carta delle Nazioni Unite e delle Convenzioni di Ginevra”, contraria anche alla “regola fondamentale affermata a più riprese dal Consiglio di sicurezza e dall’Assemblea generale dell’Onu, secondo cui è inammissibile l’acquisizione di un territorio con la guerra o con la forza”.
Infrangere questa regola fondamentale in Crimea è costato alla Russia sanzioni internazionali e all’Iraq la guerra del 1991. In risposta “all’annessione illegale della Crimea e alla deliberata destabilizzazione dell’Ucraina” dal 2014 l’Ue applica misure restrittive contro il Cremlino, mentre sanzioni ancora più pesanti sono in vigore da parte degli Stati Uniti. Dopo l’invasione irachena del Kuwait, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu autorizzò l’intervento militare ricordato come la Prima guerra del Golfo, guidato dagli Stati Uniti in testa a una coalizione sotto l’ombrello delle Nazioni Unite. Lo stesso principio non era valso però, anni prima, per la conquista israeliana nel 1967 delle alture siriane del Golan e del Sinai (quest’ultimo restituito all’Egitto in seguito agli accordi di pace di Camp David del 1978). Sarà lo stesso anche in questa occasione, per la semplice ragione che il veto statunitense nel Consiglio di Sicurezza blocca da sempre qualsiasi iniziativa internazionale contro Israele – anche quando a chiederla con vigore sono l’Assemblea nazionale o altri organismi del Palazzo di Vetro.
L‘Unione europea avrebbe in compenso le mani più libere per esprimere la sua contrarietà: è in rotta con Trump e potrebbe agire in contrasto con l’agenda attuale della Casa Bianca. Considerato anche che la Germania e la Francia premono su Netanyahu per un passo indietro, e che la Germania dal 1 luglio presiede per un semestre il Consiglio dell’Ue determinando le politiche europee. A giugno il ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas è volato in Israele a incontrare i membri del nuovo governo Netanyahu-Gantz, anche per far presente che l’annessione da loro programmata è incompatibile con la legalità internazionale: “Siamo consapevoli dell’eredità storica nelle relazioni tra la Germania e Israele, sappiamo quanto questa materia sia sensibile”, ha affermato, “ma a farne le spese non devono essere i diritti dei palestinesi”. Grossa eco nell’opinione pubblica mediorientale ha poi riscosso l’editoriale di Boris Johnson “contro l’annessione”, che il premier britannico ha fatto uscire a sorpresa il primo luglio,“da appassionato sostenitore di Israele”, sul tabloid israeliano Yediot Ahronot: “Questa violazione della legge internazionale”, avvisava il numero 10 di Downing Street, “non ci permetterebbe di riconoscere modifiche ai confini del 1967 che non siano concordate da entrambe le parti”. Il 26 giugno anche il parlamento belga ha approvato una risoluzione che chiede con urgenza al governo di approntare una lista di contromisure contro Israele in caso di annessione della West Bank.
Questo tipo di azioni è quanto si aspetta dall’Europa il segretario generale dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) Saeb Erekat, già negoziatore degli accordi di Oslo del 1993, secondo cui “l’annessione cessa con l’imposizione di sanzioni. Non si tratta di respingere una proposta di pace, ma di dire no a un tentativo di legittimare il furto come strumento nelle relazioni internazionali”. Alla base dell’accelerazione israeliana in Cisgiordania c’è infatti la bozza dell’Amministrazione statunitense “Pace per la prosperità”: il cosiddetto “piano del secolo” che i palestinesi hanno ribattezzato la “truffa del secolo”, ideato a tavolino dal genero ebreo di Trump e suo advisor Jared Kushner. I Kushner frequentano da anni la famiglia Netanyahu e non è un caso che la proposta della Casa Bianca ricalchi il progetto ideato negli anni Settanta dalla destra sionista per un grande Stato di Israele nelle terre bibliche, creato sulle ceneri della cosiddetta “opzione giordana” per i palestinesi: accollare l’identità nazionale di milioni di profughi e apolidi dal 1948 alla vicina Giordania. Il piano Trump-Kushner rottama di fatto il progetto dei “due Stati per due popoli” promosso in tutte le risoluzioni dell’Onu e basato sull’arretramento di Israele ai confini precedenti alla guerra lampo del 1967.
Nei decenni di trattative Israele ha ripopolato Gerusalemme Est e la Cisgiordania con oltre 600mila coloni: l’Alto commissariato per i diritti umani delle Nazioni Unite conta a oggi oltre 235 insediamenti illegali sparsi nell’Area C della West Bank, che fino a un’intesa sullo status finale della Palestina è sottoposta al pieno controllo israeliano. La famigerata area C copre il 60% della Cisgiordania, mentre il 20% delle aree B (a doppia amministrazione israeliana a palestinese) è di fatto in mano a Israele. Appena il 20% delle Aree A assegnate esclusivamente all’Autorità nazionale palestinese (Anp) può dirsi quindi palestinese, e se il piano di “pace” di Trump diventasse operativo questa realtà verrebbe ufficializzata: l’auto-governo di Ramallah perderebbe il diritto a rivendicare fino a due terzi della Cisgiordania, con le città a sovranità palestinese (Jenin, Betlemme, Ramallah, Nablus, Gerico) ridotte a isole circondate da insediamenti israeliani: il sigillo a un apartheid istituzionalizzato con la beffa di una cosiddetta capitale palestinese individuata ad Abu Dis, villaggio di 13mila anime nella periferia di Gerusalemme Est.
Per l’Anp e per Hamas un piano del genere è impossibile anche da negoziare, e di conseguenza Netanyahu procede unilateralmente, ma con fin troppi appoggi. Sconcerta che un leader centrista come Benny Gantz, premier in alternanza con Netanyahu, abbia accettato un programma che prevedesse l’annessione bocciata anche dalla Corte suprema israeliana. E sconcerta ancora di più che quanto avviene in Palestina stia passando in sordina nell’Occidente focalizzato sull’emergenza sanitaria, come se la pietra tombale sugli accordi di Oslo e sulla speranza di un futuro per i 3 milioni di palestinesi che abitano la Cisgiordania non rappresenti l’ennesimo elemento destabilizzante per l’equilibrio del Medio Oriente. La questione palestinese è infatti la madre di tutti i conflitti regionali: il re Abdallah II di Giordania, tra i Paesi arabi più legati agli Stati Uniti e custode dei territori palestinesi, minaccia un “massiccio conflitto con Israele” in caso di annessione; per ragioni di consenso interno neanche l’Egitto potrebbe continuare a dialogare con Israele, costringendo il presidente Abdel Fattah al Sisi a rivedere gli accordi di pace.
È paradossale poi come, in questa cornice potenzialmente esplosiva, più che per il pressing diplomatico Israele rimandi l’annessione per le proteste di frange dei coloni dell’ultradestra che vorrebbero togliere ai palestinesi anche la finta capitale di Abu Dis, per l’ambizione di Trump di imbastire almeno un impossibile negoziato di facciata con i palestinesi, e soprattutto per l’arrivo di una seconda ondata di COVID-19 che ha costretto il governo di emergenza a occuparsi prima di tutto del lockdown. I palestinesi si ritrovano così a dover confidare più nei guai dei nemici che in chi dichiara loro sostegno ritirando poi la mano, specie se si tratta degli Stati Uniti: nel 2017 i democratici si indignavano per la posizione di Trump su Gerusalemme capitale unita di Israele, ma ora in campagna elettorale anche Joe Biden, ex vicepresidente e braccio destro di Barack Obama, dichiara di voler “mantenere” se eletto l’ambasciata statunitense a Gerusalemme, pur “non condividendo la scelta di Trump”. Come se una volta presa una decisione simile non si potesse più invertire lo status quo. L’annessione della Cisgiordania rischia di diventare l’ennesimo passo irreversibile verso la distruzione di quel poco che rimane della sovranità istituzionale del popolo palestinese, oltre che un pericoloso precedente nello sdoganare di nuovo la legge del più forte nelle relazioni internazionali.