Quando facevo la scuola materna, un bambino mi tirò le trecce. Io scoppiai a piangere e le maestre mi dissero che invece dovevo essere felice perché quel bambino aveva espresso in quel modo interesse nei miei confronti: gli piacevo. Questo fu uno dei primi episodi, ma non l’unico. La violenza verbale e fisica esercitata da parte dei ragazzi sulle ragazze viene spesso giustificata, in un modo o nell’altro. Che sia un raptus incontrollabile, che sia per via del loro animo istintivo e sanguinario, che sia perché noi donne abbiamo offeso il loro onore, la violenza maschile è sempre scambiata per troppo interesse, troppa premura, troppo amore.
Di amore ce ne parlano fin da piccoli. “E vissero tutti felici e contenti” è il finale di ogni favola che si rispetti. Ecco che la principessa è stata tratta in salvo dal principe e adesso può coronare il proprio sogno d’amore. Mentre lui ha superato prove e avversità, ha percorso un viaggio di formazione che lo ha trasformato e lo ha fatto diventare un eroe, lei non ha fatto altro che aspettare, rinchiusa in un castello, che arrivasse un uomo (qualsiasi) a salvarla. Per poi essere chiusa in un altro castello, ma con un anello al dito.
Dov’è il percorso di formazione della principessa? Quando sceglie di diventare la moglie del principe? Quando sceglie quale principe sposare? Per anni nei film Disney le principesse non facevano altro che aspettare che qualcuno le salvasse oppure si sacrificavano per il benessere di qualcun altro (e se andava bene venivano ricompensate per questo), come ne La Bella e la Bestia, in cui Belle si sacrifica per liberare suo padre. Sono donne e quindi amano, e l’amore richiede sacrificio e dedizione.
Per fortuna, e grazie a lotte importanti che hanno portato l’argomento sotto i riflettori, negli ultimi anni le cose stanno cambiando, anche attraverso le favole che raccontiamo alle bambine e ai bambini. Un esempio sono gli ultimi film di animazione: abbiamo una bellissima principessa che chiede la propria mano pur di non sposarsi con uno sconosciuto (Ribelle, 2012), una regina gelida e autoritaria che riesce a salvare il proprio regno grazie all’amore della sorella (Frozen, 2013) e una ragazza che solca gli oceani per salvare il proprio mondo (Oceania, 2016).
Tuttavia, questi film d’animazione sono fruiti soprattutto dai più piccoli, o comunque è su di loro che hanno l’effetto più importante. Gli adulti ormai si sono formati su un immaginario ben diverso, costruito non solo dall’ambiente in cui sono cresciuti ma anche dai prodotti culturali che hanno fruito, la maggior parte dei quali tramandava una visione parziale, frutto di stereotipi. Questi racconti ci hanno inculcato un immaginario ben definito sull’amore e sul ruolo delle femmine nella società. Ci è stato insegnato che il valore di una donna risiede nella bellezza – la famosa Sindrome di Cenerentola, teorizzata nel 1981 da Colette Dowling – ma anche che deve essere silenziosa e affidabile, e che deve sacrificarsi per il bene degli altri, che in cambio di tutto questo l’uomo si prenderà cura di lei.
Diane Negra, docente di Film Studies and Screen Culture presso lo University College di Dublino, in What a girl wants? analizza i film romantici, destinati tradizionalmente a un pubblico femminile. In questo studio mostra come nei “chick lit” (genere narrativo che tratta di sentimenti e destinato alle ragazze) anche se sembra che le donne si autodeterminino (visto che le protagoniste sono brillanti e autoironiche e apparentemente critiche), in realtà le loro scelte vengono comunque influenzate dall’idea dell’amore romantico e da un’idea di femminilità stereotipata. Così, invece che andare davvero alla ricerca di se stesse e uscire fuori dagli schemi, le protagoniste di queste commedie si trovano ad aderire a precisi canoni di genere: essere giovani, belle, in forma, curate, amorevoli, amanti delle proprie origini, avere la preferenza di tornare nella piccola città di provincia in cui si è nate e fare un lavoro più umile piuttosto che avere ruoli dirigenziali e vivere in una grande città, essere una madre a tempo pieno e così via. Parodia di queste norme è la serie Crazy ex-girlfriend (2015), visibile su Netflix, in cui Rebecca, affermata avvocata di New York, decide, dopo aver incontrato Josh, ragazzo con il quale ha avuto una breve relazione da adolescente, di trasferirsi in West Covina (California) per raggiungerlo, e di fare una vita più semplice e rurale (e di essere pagata molto meno).
Quest’idea dell’amore non solo impedisce alle donne di emanciparsi e di scegliere davvero liberamente e per sé, ma costringe in qualche modo gli uomini a dimostrarsi sempre decisi e risoluti, a sapere cosa vogliono le loro compagne, e a essere ossessivamente iper-protettivi. L’immaginario romantico è alla base, quindi, di un tipo di relazione squilibrata, impari, a volte anche violenta e abusante, perché la donna viene considerata come un bene materiale.
Coral Herrera, in Mujeres que ya no sufren por amor. Transformando el mito romántico, spiega come il “mito romantico” costringa le donne al sacrificio e alla sottomissione. Le donne, ci dice, si trovano spesso in relazioni dolorose, spinte a desiderare un partner ideale che non esiste e che le salvi dalla loro condizione di insoddisfazione o sofferenza. Questo desiderio è influenzato dalla società, dall’educazione ricevuta, dalle favole, dai film, dalla religione. L’amore “romantico” appare quindi come una costruzione culturale fondata sui valori dell’ideologia patriarcale: si basa, infatti, sulla proprietà privata, sul possesso e l’esclusività. La famiglia nucleare – fondata tradizionalmente su questo tipo di concezione del legame amoroso – è alla base della nostra società, anche a livello politico ed economico.
Ce lo hanno insegnato fin da bambine che il nostro happy ending è un matrimonio riuscito. Tuttavia l’amore romantico è alla base del circolo vizioso della violenza. Il desiderio di una donna di appartenere a un uomo, di essere tutto per lui, la rende totalmente dipendente da esso. E non si tratta solo di dipendenza economica, ma anche affettiva. La dipendenza emotiva femminile non fa differenza tra classe sociale, etnia, religione, genere, orientamento sessuale o età. Anche se nel mondo occidentale liberarsi da queste pressioni può apparire più semplice, in realtà, spesso mancano le risorse per uscire da una relazione abusante. La psicologa Brunella Gasperini afferma che questa dipendenza e questa sottomissione dipendono anche da quello che le donne pensano di meritarsi: “Ci sentiamo inadeguate, pensiamo di non poter avere di meglio. Restiamo perché avvertiamo di essere in trappola, il nostro aggressore ci marca stretto, non siamo autonome economicamente, ci viene detto che il divorzio non sta bene, lui promette di cambiare, non sappiamo dove andare, abbiamo paura per i nostri figli, siamo sole. Temiamo di essere giudicate, ci vergogniamo”.
La violenza sulle donne e il sessismo trovano terreno anche a causa di questa idea di amore che ormai dovrebbe essere scardinata, perché tra le altre cose contribuisce a imprigionare le donne in un sistema profondamente squilibrato che le convince a non denunciare, facendo passare determinate dinamiche come normali, e per di più le colpevolizza. La nostra cultura idealizza le donne come esseri superiori – e già questa è una narrazione controproducente – capaci di amare a prescindere dalle avversità, a sacrificarsi per i propri uomini, per i propri figli. Alle donne viene chiesto di amare gli uomini con la stessa devozione con cui si ama Dio o Gesù. “A noi donne ci insegnano ad amare la libertà dell’uomo, non la nostra”, afferma ancora Herrera. E ce lo dimostrano anche le numerosissime storie raccontate da Amore Criminale, serie televisiva andata in onda per la prima volta nel 2007 su Rai 3.
E se una donna vuole liberarsi da questa relazione di dipendenza, l’uomo non è capace di accettare il rifiuto, perché il mondo è a sua disposizione, è l’eroe che conquista cose, persone e territori. Da qui deriva la mancata accettazione dei “No”. Stalking, persecuzioni, molestie e femminicidio deriverebbero proprio da questa concezione del possesso. Le donne vengono punite per non volersi sottomettere, per volere essere libere, per volersi emancipare, per aver smesso di credere che qualcuno le salverà.
La relazione di coppia dovrebbe basarsi sulla solidarietà, sull’aiuto mutuo, sul piacere, sull’amicizia e sul cameratismo, cioè sull’idea di lavorare in squadra in modo che la vita ne sia arricchita e diventi più semplice e piacevole, così come già professava nel 1969 Ti-Grace Atkinson, scrittrice americana e femminista radicale. L’amore, quindi, dovrebbe basarsi prima di tutto sull’amicizia, quindi su un tipo di relazione paritaria, in cui non vi è possesso. Il modello romantico non è l’unico esistente, ciascuno deve avere la possibilità di sperimentare e creare il modo di amare e di amarsi che ritiene più congeniale alla sua natura. L’amore romantico, pur trasmettendo anche concetti positivi ed essendo sicuramente adatto ad alcune persone, finisce per essere il meccanismo più potente per perpetuare il patriarcato. La lotta per scardinare sessismo e maschilismo passa anche attraverso l’idea dell’amore. È davvero l’ora di abbattere gli stereotipi di genere, di cambiare la nostra concezione dell’amore e la narrazione che ne viene diffusa dai media. Questo, e non un principe azzurro, renderebbe davvero le nostre vite migliori.