Una donna di 28 anni, Elisa Pomarelli, è stata uccisa a Piacenza da un collega di 45, Massimo Sebastiani, che da tempo era ossessionato da lei perché voleva una relazione. L’uomo ha confessato di aver strangolato la ragazza dopo un pranzo insieme in una trattoria, e di aver occultato il corpo. Sebastiani si è nascosto per due settimane con la complicità del padre di una sua ex fidanzata, Silvio Perazzi, ora indagato per favoreggiamento.
Nelle ore successive, i media italiani hanno raccontato la vicenda in modo melodrammatico, quasi apologetico nei confronti dell’assassino, descritto da Il Giornale come “un gigante buono” o da La Repubblica come “un uomo semplice”. Si è insistito in modo particolare sul pentimento del reo confesso, descritto “disperato” e “in lacrime” davanti al pm. Nonostante le critiche durissime ricevute da alcuni professionisti dell’informazione, dall’Ordine dei giornalisti e anche da alcuni politici, oggi molti giornali hanno rincarato la dose, commentando la dichiarazione del presidente dell’associazione Gay Center Fabrizio Marrazzo che ha affermato in una nota che la ragazza è stata uccisa due volte “come donna e come lesbica” e che il suo assassinio è stato un “atto punitivo”. Non pago della figura fatta appena un giorno prima, Il Giornale parla oggi di una “polemica che svilisce Elisa”, che “non portava bandiere arcobaleno, non sfilava al gay pride”, come se il suo orientamento sessuale fosse una querelle che non conta nulla in questa vicenda, quando magari è stata proprio la ragione del rifiuto.
Ad aver svilito Elisa è la narrazione che hanno fatto i quotidiani italiani, incapaci di parlare di femminicidio nonostante ogni due giorni muoia una donna in Italia per mano di un uomo che pensa sia una sua proprietà. Una narrazione irrispettosa, sensazionalistica e misogina, che indugia sulla prospettiva dell’assassino e che incastra la donna in una passività senza via di scampo.
Un uomo strangola una donna e si parla di uno “scarto d’intenti”, come se un omicidio fosse paragonabile a un piccolo incidente stradale in cui non ci si è capiti bene, e non si è data la precedenza a chi veniva da destra. Un uomo nasconde il cadavere di una donna e si parla delle lacrime di lui, spaventato e tentennante di fronte ai giudici, descritto come un omone goffo che in fondo era “incapace di fare del male”. Si parla di un “gioco pericoloso”: il gioco per cui una donna viene perseguitata da un uomo ossessionato da lei e, nonostante abbia più volte messo in chiaro che non è interessata, lui la carica a forza in macchina e l’ammazza.
Il Giornale, poi, si chiede: “Se Elisa non lo amava perché continuava a uscire con lui, ad andarci in vacanza, insomma a illuderlo?“. Agevolo il compito al collega Luca Fazzo e rigiro la domanda: “Se Sebastiani era stato rifiutato, perché continuava a cercare Elisa, a voler stare con lei, insomma a cercarla insistentemente, fino ad arrivare a ucciderla?”. E azzardo anche una risposta: perché i media continuano a parlare di amore in relazione alla violenza, a giustificare comportamenti predatori e violenti, a riportare storie di prevaricazione e sopraffazione come se fossero film o romanzi rosa. Perché questa narrazione normalizza la violenza nella cornice dell’amore romantico, geloso e possessivo, in cui una donna non ha altro ruolo che quello di accettare per sfinimento una relazione, anche quando non la vuole.
Quando Susan Brownmiller parlava di cultura dello stupro intendeva esattamente questo: un sistema che considera la violenza di genere un fatto normale, e sminuisce in continuazione le responsabilità dell’aggressore, per trovare le colpe della donna. Per Brownmiller la cultura dello stupro è “una scala masochistica che va dalla passività alla morte”. In questa scala, la donna deve accettare di subire le attenzioni di un uomo e ogni sua azione che esula dal recinto della passività – e quindi della normalità – è una colpa. È anormale non solo per chi commette il crimine e punisce fisicamente la donna, ma anche per chi da fuori deve farsi carico del compito di informare sulla vicenda. In questo caso una donna lesbica rifiuta un uomo che per questo la tormenta. Lei, per motivi che non sta a noi indagare, non lo elimina completamente dalla sua vita, e questo per i cronisti diventa la questione che si deve sviscerare e dibattere, ricamandovi sopra un inutile processo alle intenzioni. Non ci si chiede perché la violenza maschile sia così pervasiva e sistemica; non perché le istituzioni non sappiano affrontare un problema sociale così rilevante; non perché un uomo si sia sentito in dovere di eliminare una donna che l’aveva rifiutato; ma perché lei abbia accettato – cioè passivamente subìto – la compagnia dell’uomo, se non lo amava.
Di storie come quella di Elisa ce ne sono, purtroppo, moltissime. E altrettante sono le narrazioni che le veicolano. Si parla sempre di “raptus” o di “un gesto improvviso”, anche se le indagini magari non hanno ancora escluso la premeditazione. Si inquadra sempre il femminicidio nel campo semantico della pazzia, parlando di “gelosia folle”, “relazioni malate”. Mai nessuno che parli di cultura del possesso o di legittimazione della violenza. Tutti i casi, diversissimi per il contesto in cui sono avvenuti, vengono accomunati da un’unica esposizione, pietistica e melodrammatica: quella dell’amore. È così che si normalizza l’idea che l’amore abbia conseguenze estreme, limiti oltrepassabili, e che se uno ti ama “troppo” non significa che ti ama un sacco, ma che è capace di ucciderti. E questo danneggia gli uomini, che si convincono che certe forme di dominio e controllo siano normali, ma soprattutto danneggia le donne, incapaci di riconoscere la violenza. Poi ci si chiede perché molte non riescano a uscire dalle situazioni di pericolo, non colgano i segnali di una situazione che sta precipitando e, infine, non denuncino quanto subiscono: forse perché la stampa italiana, per raccontare un omicidio, si preoccupa solo di capire perché la vittima sia caduta nella “trappola” dell’assassino.
C’è poi il grande rimosso della questione, ed è quello dell’orientamento sessuale di Elisa. Oggi su La Repubblica Enrico Ferro scrive che è ingiusto dire che Elisa fosse lesbica perché “sarebbe un’invasione voler incasellare questa ragazza in una definizione, entrare nel suo io e tentare di catalogarlo. Dopotutto aveva solo 28 anni”. Perché solo quando l’orientamento sessuale è diverso dall’eterosessualità si parla di catalogazione? Perché una donna non può, all’alba dei trent’anni, essere certa di essere lesbica? Elisa lo era, e sembra un fatto tutt’altro che secondario, visto che è stata uccisa perché ha rifiutato un uomo. Invece Il Giornale preferisce parlare di “polemica” e sottolineare che Elisa “è morta una volta soltanto, per avere accettato l’amicizia sbagliata, senza capire che illudere quell’uomo ossessionato da lei era un tragico errore pagato con un prezzo indicibile”. Ancora una volta, questa storia viene raccontata colpevolizzando Elisa, e in questo caso parlando del suo orientamento sessuale come un’ulteriore prova della sua responsabilità.
Non ci si può nascondere dietro la scusa della mancanza degli strumenti: i corsi di aggiornamento, i manuali, i workshop per un linguaggio rispettoso delle differenze di genere a disposizione dei giornalisti sono davvero moltissimi. Le Commissioni pari opportunità di Federazione nazionale della stampa italiana, l’Ordine dei giornalisti, l’Unione sindacale giornalisti Rai e l’associazione Giulia Giornaliste hanno denunciato la mancata applicazione del Manifesto di Venezia “per una informazione attenta, corretta e consapevole del fenomeno della violenza di genere e delle sue implicazioni culturali, sociali, giuridiche”. Al punto 10, questo Manifesto raccomanda di evitare “termini fuorvianti come ‘amore’, ‘raptus’, ‘follia’, ‘gelosia’, ‘passione’ accostati a crimini dettati dalla volontà di possesso e annientamento” e di non “raccontare il femminicidio sempre dal punto di vista del colpevole, partendo invece da chi subisce la violenza, nel rispetto della sua persona”.
Il dovere del giornalismo è quello di perseguire la verità, e la verità è che nessuna donna merita né vuole essere uccisa per un rifiuto. La verità che abbiamo il dovere di raccontare è che la nostra società è condiscendente e solidale nei confronti della violenza di genere, e ci riempie la testa di stronzate come il fatto che le donne “se la cercano”, che anche quando dicono no è un po’ come se dicessero sì, che sono deboli e che per questo cercano l’uomo forte. Le definisce nell’ottica della passività, senza altre possibilità di riscatto, eternamente succubi. E la responsabilità è dei media che ci parlano così di quelle che, per molte e complesse ragioni, non riescono a sfuggire dalla violenza. In una società giusta le donne non dovrebbero sfuggire dalle situazioni di violenza, dovrebbero essere gli uomini a non crearle. Un rifiuto amoroso sarebbe soltanto un rifiuto e non uno stupro, una frequentazione amichevole sarebbe solo una frequentazione amichevole e non un femminicidio.
Non possiamo sperare che la società cambi se il modo in cui viene raccontata resta sempre lo stesso.