È giusto che il personale sulle ambulanze sia volontario?
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Il servizio del 118 come lo conosciamo è frutto di uno sviluppo relativamente recente. Il Servizio Sanitario Nazionale è stato istituito nel 1978 e solo negli anni Novanta la legge vi ha integrato propriamente i servizi d’emergenza-urgenza, con la rete di ambulanze che vediamo sfrecciare ogni giorno. Il livello organizzativo sconta però ancora oggi un’estrema frammentazione. Da una regione italiana all’altra cambiano, infatti, qualifiche e specializzazione degli equipaggi, nonché la formazione che questi devono seguire, che risulta quindi disomogenea. Gli standard per la dotazione minima delle ambulanze e il sistema di classificazione delle urgenze sono stabiliti a livello nazionale, ma il quadro che si delinea resta eterogeneo su tutti i fronti e lontano dall’uniformazione degli indicatori di qualità dell’assistenza d’emergenza extra-ospedaliera, raccomandata a livello europeo dall’Oms. In Italia sono le singole regioni a gestire l’emergenza-urgenza, affidandola a cooperative, società private o associazioni di volontariato in regime convenzionale – direttamente o tramite la centrale operativa 118, l’Asl o le aziende come AREU (Azienda Regionale Emergenza Urgenza) in Lombardia, ARES (Azienda Regionale Emergenza Sanitaria) in Lazio e SEUS (Sicilia Emergenza Urgenza Sanitaria) in Sicilia. Ma in particolare sono proprio le associazioni di volontariato a coprire fino all’80% del servizio di 118 a livello nazionale.

Le associazioni dei volontari – di cui le più note e diffuse sono le Croci (Croce Rossa Italiana e non solo), l’Anpas e le Misericordie d’Italia – fornendo gran parte delle ambulanze e del personale, consentono allo Stato di risparmiare notevolmente: secondo una stima del Fiaso (Federazione delle Asl e degli Ospedali pubblici), un’ambulanza con soli dipendenti professionisti costerebbe tra i 700mila e 1 milione di euro l’anno, mentre grazie alla presenza volontari si scende a 250mila. Il personale assorbe la quota maggiore dei costi, che, da quelli per la figura del medico (circa 70 euro l’ora), scalano all’infermiere e al barelliere; i costi del mezzo, invece, incidono poco, con 4 euro l’ora per l’ambulanza e circa 3 per l’auto medica. Le ristrettezze economiche del settore sanitario e la mancanza di personale, aggravata dagli effetti di Quota 100, fanno sì che la maggior parte (55%) delle ambulanze italiane – di cui tre quarti di tipo B, quelle adibite non solo al trasporto e al monitoraggio dei pazienti ma anche ai trattamenti base – viaggino con a bordo i soli soccorritori, nel 30% dei casi con un infermiere e addirittura appena nel 15% con un medico. Una situazione ben lontana dagli scenari auspicati per il futuro, in cui una parte degli interventi dovrebbe essere risolta sul posto, evitando di congestionare il Pronto Soccorso ospedaliero.

L’Oms raccomanda l’uniformazione a livello europeo dei curricula dei soccorritori, che, svolgendo un pubblico servizio, sono tutelati da violazioni, minacce e resistenze, ma che per la legge italiana non sono professionisti sanitari, come invece in molti Paesi che inquadrano precisamente queste figure. In Germania, ad esempio, la figura centrale è il paramedico (Rettungsassistent), uscito da una formazione costituita da un corso di un anno e un tirocinio di almeno 1600 ore, che affianca il medico specializzato in medicina d’emergenza (Notarzt) ed è sostenuto da altre figure, tutte inquadrate nella legge federale, secondo una regolamentazione statale. In Svezia la maggior parte del personale sulle ambulanze è composta da infermieri specializzati, mentre in Francia ai volontari – che seguono una formazione equivalente, nel suo livello più alto, a quella dei pompieri, principali responsabili del soccorso – sono affidate per lo più le operazioni preventive (come le postazioni di ambulanze presso gli eventi) e gli incidenti minori.

Una distinzione di ruoli è auspicata per l’Italia dal presidente di Anpas Fabrizio Pregliasco, che pensa a un sistema in cui il volontariato si occupi del 118 tradizionale e dei semplici trasporti e gli operatori pubblici della parte specialistica. Un’altra possibilità è quella di convogliare una parte del volontariato – la cui rilevanza sociale è notevole – in altre fasi dell’assistenza, come i centralini. In ogni caso, una sistemazione è indispensabile e la politica, anche su pressione dei sindacati, ne sta prendendo atto. La primavera scorsa il Movimento 5 Stelle ha presentato una proposta di legge per il riconoscimento della figura dell’autista-soccorritore, per il quale chiede un corso di formazione di mille ore, più di quelle necessarie alla polizia Municipale. Peccato che, finora, non siano state ascoltate in merito le associazioni di volontariato, principali affidatari del servizio. Nel frattempo il Movimento 5 Stelle ha presentato una mozione per l’uniformazione nazionale del servizio, che preveda l’affiancamento tra personale strutturato e volontari, oltre alle dotazioni di geolocalizzazione chieste dall’Unione Europea da anni ma su cui l’Italia è ancora in ritardo.

Uno dei problemi è la (presunta) disomogeneità nella formazione tra professionisti e volontari; a questi ultimi in Lombardia, una delle regioni in cui il personale delle ambulanze è quasi esclusivamente volontario, bastano 120 ore di corso per diventare soccorritore. Già nel 2015 una proposta di legge chiese una risistemazione che prevedesse per i soccorritori mille ore di formazione, di cui la metà di tirocinio; più recentemente si è arrivati a delineare il nuovo percorso per gli autisti-soccorritori, con 500 ore di tirocinio. Chi fa questa attività volontariamente non sempre può sobbarcarsi il peso di una formazione lunga e impegnativa. Il dubbio che sorge è sempre lo stesso: è opportuno che a prestare servizio sulle ambulanze – e ad avere quindi in mano la salute e la sicurezza dei cittadini – ci sia qualcuno che lo fa nel tempo libero, anche dopo una giornata di lavoro e che potrebbe essere impegnato tutta la notte? La situazione è complessa perché le parti da tutelare sono due: da un lato i soccorritori, che svolgono un servizio gratuitamente e sui quali ricadono responsabilità penali, civili, amministrative e disciplinari; d’altra parte i cittadini che dovrebbero usufruire di un servizio d’emergenza-urgenza in cui sono impiegate figure professionali. Con tutta la buona volontà e la dedizione, i volontari svolgono diversi servizi al mese, nel loro tempo libero, magari stanchi e non sempre in grado di far fronte agli imprevisti.

Il volontariato, inoltre, a causa della carenza normativa, si presta alle ambiguità, quando non a vere e proprie illegalità. È successo a Ferrara nel 2016, come raccontò all’epoca il Fatto Quotidiano: a seguito di indagini sull’affido del servizio ambulanze da parte dell’Asl ad associazioni volontarie accreditate con esclusione a priori delle cooperative, emersero casi di lavoro nero. Alcuni volontari prestavano servizio fino 350 ore al mese: un lavoro a tempo pieno, quindi, evidentemente, a nero; se poi avessero avuto un altro lavoro con cui mantenersi, non sarebbe stato rispettato il riposo previsto per legge (nel caso degli infermieri 11 ore tra un turno e l’altro). Sempre nel 2016, altri casi di presunte anomalie sugli stipendi travestiti da rimborsi spese ai volontari ci sono stati a Campobasso e a Brindisi. Già dal 2010, poi, la Finanza indagava a Milano su un sistema criminale di sfruttamento dei soccorritori, pagati a cottimo e senza alcuna formazione, gestito dai responsabili delle onlus che si occupavano delle emergenze, come raccontato nel 2014 da L’Espresso.  Per il volontariato dovrebbero valere le stesse regole sulla durata dei turni e dei riposi del lavoro dipendente, ma queste non sempre vengono rispettate, cosa che comporta rischi per la salute dei volontari e l’incolumità dei cittadini. Secondo Coes Italia, l’associazione degli autisti d’ambulanza professionisti, nelle zone in cui prevale il volontariato ci sarebbero più incidenti. Va detto che il problema non riguarda solo il volontariato: i dipendenti pubblici fanno anche doppi turni per compensare la carenza di personale, con il risultato che gli infortuni sul lavoro nel 118 sono più che nell’industria pesante (175 ogni mille dipendenti); lievitano anche le spese: quasi il 20% del bilancio Ares sarebbe destinato agli straordinari dei suoi dipendenti.

Da un lato mancano medici e infermieri, che escono dai confini nazionali per stipendi più allettanti, e dall’altro in Italia la metà degli infermieri ha contratti precari e lo stipendio è in media di 1284 euro. In questo contesto il volontariato è indispensabile a tenere in piedi, come fa da decenni, il 118, né al momento esistono risorse né progetti sensati per escludere i suoi operatori, tanto più che oggi non ci sono le risorse per sostituire chi va in pensione. Ma è giusto che lo Stato, per un servizio così delicato, si affidi alla costante presenza del volontariato, per sua stessa natura incerto? Il ministero della Salute riconosce la necessità di regolamentarlo per migliorare un servizio frammentato e impoverito dai tagli al settore sanitario – corrispondenti a oltre 37 miliardi di euro complessivi tra 2010 e 2019 – un vuoto difficilmente risolvibile con gli investimenti e le assunzioni promessi dall’attuale governo. Servono più investimenti pubblici, altrimenti non solo gli ospedali, ma anche le ambulanze faranno sempre più le spese della crisi del settore; i rischi sono innanzitutto per la salute e la sicurezza dei cittadini, che hanno diritto a un servizio garantito da professionalità riconosciute e adeguatamente retribuite. Nonostante il lodevole impegno nel servizio d’ambulanza, il volontariato non può per sua stessa natura garantire continuità e professionalità costante, per cui non è auspicabile l’eventualità di affidargli al 100% il servizio di emergenza. Quello sanitario è uno dei servizi che spetta allo Stato fornire ai cittadini – che pagano le tasse anche per questo – con le massime qualità e professionalità, senza fare completo affidamento alla solidarietà sociale, che pure è una ricchezza. Ma allora, se non aumentano stanziamenti, anche le società private sono costrette ad abbassare il livello del servizio offerto. O si danno più risorse pubbliche alla sanità o si lascia scadere il 118. Ecco la vera emergenza.

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