Quando pensiamo all’ambizione, le prime cose che ci vengono in mente sono le storie di imprenditori geniali che, grazie alla loro determinazione, sono riusciti a cambiare il mondo; o frasi motivazionali che girano online e che invitano le persone a non smettere di credere nei propri sogni. Quasi mai, invece, ci soffermiamo sull’altro aspetto dell’ambizione, quello più oscuro e pericoloso, che porta i lavoratori sull’orlo dell’esaurimento nervoso e che spesso rovina la loro vita e quella degli altri. Eppure il tema era già noto in antichità e Shakespeare, nel Seicento, gli dedicò addirittura una delle sue più note e cruenti tragedie: Macbeth.
“Non sei senza ambizione, ma ti manca la crudeltà che deve accompagnarla,” dichiara Lady Macbeth al marito nella Quinta scena del Primo atto dell’opera. Pronuncia queste parole dopo essere venuta a conoscenza della profezia che le tre streghe hanno rivelato a Macbeth, secondo la quale sarebbe presto diventato re di Scozia. Teme però che il marito sia un uomo troppo onesto e gentile per compiere il proprio destino. Lo invita così a essere più crudele e opportunista, se necessario. Altrimenti sarà destinato al fallimento. All’inizio, Macbeth viene presentato al pubblico come un eroe, un uomo coraggioso che combatte per la sua patria, ma in breve, accecato dalla brama di potere e dall’ambizione smodata, si trasforma in un assassino senza scrupoli. La parabola drammatica dei Macbeth è un esempio perfetto delle conseguenze a cui può portare l’eccesso di ambizione. Per difendere la loro posizione Lady Macbeth e il marito sono infatti disposti a tutto, anche a commettere orrendi delitti. Il senso di colpa, però, finirà per tormentarli e consumarli fino alla morte. Il gesto con cui Lady Macbeth, in preda al delirio, prova inutilmente a lavare via il sangue dalle sue mani è una delle metafore più potenti della tragedia e rende molto bene il concetto che le macchie di sangue possono sì essere rimosse dal corpo, ma non dalla coscienza, che resta sporca per sempre.
La connotazione negativa della parola ambizione è insita nella sua etimologia. Il termine ambizione deriva infatti dal latino “ambitio”, composto da “ambi”, che vuol dire “tutte le direzioni”, e “itum”, participio passato del verbo “eo”, che significa “andare” e si può quindi tradurre con l’espressione “andare ovunque”. Questo perché la parola faceva riferimento alla pratica diffusa tra i candidati che aspiravano a delle cariche importanti di andare in giro in cerca di consenso, favori e voti, per soddisfare la propria brama di potere e di ricchezza. Oggi, la smania di successo non è diminuita, ma semmai aumentata. Schiacciati dalla pressione sociale e dal precariato, che ci rende instabili e vulnerabili, eccellere e distinguersi, prima a scuola e all’università e poi sul lavoro, diventa spesso la strada obbligata per assicurarsi un futuro e una posizione professionale rispettabile.
Se le priorità e la sensibilità dei lavoratori negli ultimi due anni sono cambiate, con sempre più persone che mettono il benessere davanti alla retribuzione e due lavoratori su tre che si dicono disposti a cambiare lavoro se obbligati a rinunciare allo smart working, allo stesso tempo è vero che nel mondo, durante il primo anno di pandemia, la depressione e i disturbi d’ansia sono aumentati del 28% e del 26% e anche le disuguaglianze sono continuate a crescere. I meccanismi perversi e spietati dell’attuale sistema economico e del mercato del lavoro hanno fatto aumentare a loro volta esponenzialmente i casi di burnout nel mondo, soprattutto fra i più giovani. Secondo un sondaggio di Indeed, motore di ricerca in ambito lavorativo, più della metà degli intervistati (il 52%) ha rivelato di aver sofferto di burnout nel 2021, contro il 43% registrato l’anno precedente. I più colpiti sono i millennials (59%) e i ragazzi della Gen Z (58%). In Italia, secondo una ricerca Doxa per Mindwork, un lavoratore su due denuncia malessere psicologico sul lavoro. In particolare, sono i più giovani e le donne a mostrare maggiore insofferenza verso l’ambiente di lavoro e a dimettersi a causa del disagio emotivo. Il 49% degli under 34, poi, si è dimesso almeno una volta per salvaguardare la propria salute mentale. Addirittura, come riporta uno studio di Bain & Company, i lavoratori italiani under 35 sarebbero i più stressati d’Europa e fra quelli più stressati in tutto il mondo, terzi dopo i giapponesi e i brasiliani.
Nonostante queste evidenze, l’ambiente di lavoro resta il luogo meno adatto per esprimere il proprio disagio emotivo: il 40% degli intervistati dal sondaggio Doxa ha riferito, infatti, di non sentirsi libero di parlare del proprio malessere con i colleghi o superiori in ufficio. La salute mentale continua quindi a essere un tabù nelle aziende italiane (solo il 5% delle organizzazioni considerano questo aspetto problematico), tanto da spingere una persona su tre ad assentarsi dal lavoro a causa di disagi psicologici, correlati a un eccessivo carico di ansia e di stress. Correlato a questo malessere diffuso è il fenomeno della Great Resignation. Un’ondata senza precedenti di dimissioni che ha investito gli Usa, con oltre 25 milioni di dimissionari negli ultimi sei mesi del 2021, e in misura ridotta anche il nostro Paese.
Nonostante questa nuova presa di coscienza collettiva, però, l’ambizione e il mito del successo restano radicati nella nostra società e continuano a influenzare profondamente le nostre scelte. Se da una parte gli studiosi del comportamento organizzativo considerano l’ambizione una leva per la motivazione e per il progresso della società, dall’altra, il suo eccesso rischia di trasformarsi in carrierismo e smania di successo, in nome dei quali il fine giustifica qualsiasi mezzo. Nel saggio del 1961 The Achieving Society, lo psicologo comportamentale David McClelland cercò di spiegare come il bisogno di potere, successo e affiliazione influenzasse la motivazione in un contesto lavorativo. Il suo modello si basava sulla cosiddetta teoria dei tre bisogni, la quale si fondava a sua volta sull’idea che in ogni essere umano fossero presenti tre fattori motivazionali: successo, affiliazione e potere. Il fattore predominante, secondo McClelland, era quello che andava poi a definire il carattere della persona. Mentre il bisogno di successo nasce da un’ambizione positiva, ovvero quella di raggiungere obiettivi e traguardi importanti, la brama di potere deriva invece da un’esigenza negativa: la necessità di controllare, influenzare e superare gli altri. Secondo lo psicologo statunitense, questo tipo di personalità tenderebbe a voler primeggiare, imporre le proprie idee e acquisire uno status di cui potersi vantare: per queste persone, infatti, l’ottenimento del potere è psicologicamente più importante del raggiungimento degli obiettivi aziendali e della soddisfazione economica.
Sentirsi importanti e apprezzati è sicuramente una delle necessità più diffuse e più ricercate nella società attuale, tanto che molti giovani corrono il rischio di diventare vittime del perfezionismo ossessivo, meccanismo alla cui base si trovano spesso paure e problemi irrisolti, come il terrore di non essere accettati, l’insoddisfazione cronica, il bisogno di non deludere i propri genitori, oltre a un forte senso di inferiorità e a un’eccessiva considerazione del giudizio altrui. La psicologia ha inoltre dimostrato che la ricerca morbosa del successo è causa, a sua volta, di diverse patologie: frustrazione, stress, depressione, disturbi alimentari e, nei casi più gravi, suicidio.
Non a caso la vita di molte delle star più amate dal grande pubblico è finita in disgrazia o in tragedia. Da Marilyn Monroe, morta ufficialmente di overdose ma in circostanze misteriose nella sua casa di Los Angeles, a Judy Garland, cresciuta sotto i riflettori dopo il successo ottenuto nei panni di Dorothy nel film Il mago di Oz e trovata morta dal suo quinto marito, a soli 47 anni. Dietro un’immagine patinata e scintillante, si nascondevano spesso abusi, depressione cronica e un rapporto di odio-amore con la popolarità. Vite schiacciate dal peso del successo.
Anche se fin da piccoli ci insegnano il contrario, dovremmo imparare a coltivare una forma più sana di ambizione, che ci permetta di vivere in armonia con il mondo che ci circonda e si basi non sullo scontro e sulla sopraffazione del prossimo, ma sulla collaborazione e sull’aiuto reciproco. Un nuovo modello che abbia al centro il bisogno di affiliazione, di cui parlava McClelland, e che spinga le persone a preferire il lavoro di gruppo e la collaborazione alla competizione. La risposta all’egoismo imperante e all’ambizione smodata che caratterizza questi tempi si può trovare allora nella riscoperta delle relazioni sociali, nella solidarietà diffusa e nella riappropriazione del proprio tempo, impiegato non più per primeggiare e ottenere prestigio sociale, ma per coltivare passioni e affetti a lungo trascurati.