Internet è ogni giorno più presente nelle nostre vite e sta cambiando radicalmente le nostre abitudini. I colossi della tecnologia sono entrati nella nostra quotidianità, condizionando le nostre scelte e aumentando i loro profitti con cifre che sforano i miliardi di dollari. In tutto il mondo, mentre i lavoratori dipendenti continuano a subire tassazioni sempre più alte e penalizzanti, i giganti digitali continuano a massimizzare i loro ricavi con scappatoie, benefici fiscali ed esenzioni.
Secondo un rapporto di Mediobanca, grazie ai paradisi fiscali e ai Paesi a “tassazione agevolata” in giro per il mondo (Irlanda, Lussemburgo, Delaware e Cayman) le venticinque principali multinazionali digitali hanno risparmiato 74 miliardi di euro in tasse solo tra il 2014 e il 2018. La più agile, secondo il documento, sarebbe Apple, che ha risparmiato 25 miliardi di euro; seguono Microsoft con 16,5 miliardi, Google con 11,6 e Facebook con 6,3.
Amazon, per esempio, nel 2018 ha realizzato 11,2 miliardi di dollari di profitti, ma non ha pagato un centesimo di tasse sul reddito agli Stati Uniti, dove ha la sua sede legale. Secondo quanto dichiarato dalla società di Jeff Bezos, il mancato versamento di imposte federali è dovuto alla maturazione di uno sgravio fiscale dalla ratio opinabile che ammonterebbe a 128 milioni di euro. La società ha parlato in modo generico di crediti di imposta e di agevolazioni fiscali concesse per le stock option assegnate al management. In pratica, l’azienda concede delle azioni ai propri dirigenti che poi potranno rivenderle quando il valore sarà aumentato. A livello contabile, le azioni assegnate qualche anno prima e rivendute ad Amazon a un prezzo esorbitante fanno crescere in modo esponenziale le spese aziendali e riducono il reddito soggetto a tassazione. Questo meccanismo ha contribuito all’aumento del valore aziendale e nello stesso tempo al crollo dell’imponibile fiscale per il sito di e-commerce statunitense. Non è la prima volta che Amazon riesce a risparmiare tasse per milioni di dollari. Anche nel 2017, a fronte di profitti per 5,6 miliardi di dollari, la multinazionale non ha dovuto provvedere al versamento della tassa sui redditi al fisco di Washington.
L’atteggiamento di Amazon è riuscito a mettere d’accordo due personaggi politici molto distanti tra loro, come il candidato democratico Bernie Sanders e Donald Trump. Il presidente sembra però dimenticare che la dichiarazione dei redditi a somma zero è stata resa possibile anche attraverso la riforma fiscale approvata dalla sua amministrazione nel novembre del 2017. Il Tax Cuts and Jobs Act ha abbassato l’aliquota massima dal 35% al 21%, in teoria per incentivare gli investimenti delle imprese. Se è vero che l’economia statunitense cresce con ritmi oltre le aspettative, la riforma non è riuscita a contenere le conseguenze delle strategie delle aziende volte a massimizzare i profitti riducendo al minimo gli oneri fiscali.
Il think tank Institute on Taxation and Economic Policy (Itep) ha analizzato le abitudini fiscali delle società statunitensi negli ultimi 40 anni, denunciando la necessità di ridurre le scappatoie e i benefici fiscali che permettono alle multinazionali di restituire alla collettività cifre insignificanti a fronte dei miliardi di dollari di guadagno. Dalle ricerche dell’istituto emerge in particolare come la riforma voluta da Donald Trump non sia riuscita ad allargare la base di contribuenti e non abbia rimosso le esenzioni di cui spesso si avvalgono le società, finendo esonerate dal pagamento delle imposte.
In Italia non ospitiamo le sedi legali dei giganti del web e questo rende il recupero delle risorse fiscali ancora più complesso. Il nostro Paese risulta poco attrattivo per investimenti provenienti dall’estero a causa di diversi fattori tra cui una pressione fiscale maggiore rispetto ad altri Paesi europei, una giustizia dai tempi dilatati all’eccesso e una burocrazia troppo complicata per chi vuole trasferire in Italia parte del proprio business. Per esempio, mentre in Italia l’imposta sul reddito delle società si attesta al 24%, in Irlanda le multinazionali sono tenute a versare un’aliquota del 12,5%. L’Olanda, pur mantenendo un’imposizione fiscale in linea con quella italiana, formalmente pari al 25%, ha utilizzato altri strumenti, come gli accordi individuali con il fisco, per attirare i grandi investitori. L’Associazione italiana banche estere ha inoltre registrato come l’Italia sia il fanalino di coda tra i principali Paesi occidentali per attrattività di investimenti esteri, proprio per la sua inefficienza sistemica. Se si prendono i dati relativi ai bilanci del 2018 di Amazon, Twitter, Google, Airbnb e Tripadvisor, il conto complessivo di quanto versato al fisco non arriva a 15 milioni di Euro. Lo schema è quasi sempre lo stesso: i giganti del web non hanno una sede in Italia e forniscono i loro servizi attraverso Paesi europei più accomodanti nel livello della tassazione, come l’Olanda o l’Irlanda.
L’Agenzia delle Entrate italiana ha iniziato solo oro a chiedere il pagamento delle imposte multinazionali del web, cercando di incassare quanto ogni società dovrebbe versare per i profitti generati nel nostro Paese. Facebook, per esempio, ha pagato soltanto 120mila euro di tasse nel 2017, ma ha promesso di cambiare atteggiamento impegnandosi a contabilizzare tutti gli incassi nel Paese europeo dove sono stati realizzati e non più a Dublino come ha fatto fino a oggi. La multinazionale di Mark Zuckerberg si è anche impegnata nel novembre 2018 a versare più di 100 milioni di Euro al fisco italiano a seguito di un accertamento concluso dall’Agenzia delle Entrate. Il merito è di un’indagine della Guardia di Finanza, coordinata dalla Procura di Milano, sugli inadempimenti fiscali del social network tra il 2010 e il 2016. Realizzare profitti in uno Stato e pagare le tasse dove si ha la sede legale è una prassi consolidata delle big corporation, favorito dalla colpevole assenza di una regolamentazione.
L’ultima battaglia in ordine di tempo del fisco italiano ha coinvolto Netflix, che in Italia conta 1,4 milioni di abbonati per dei ricavi complessivi stimati in circa 185 milioni di euro. Anche in questo caso, lo Stato italiano non risulta aver percepito alcuna somma a titolo di imposta sui ricavi generati in Italia dal colosso mondiale dello streaming. I servizi di Netflix vengono veicolati attraverso fibre e cavi presenti sul territorio italiano e l’azienda si limita a pagare le bollette. Per quantificare quanto potrebbe essere dovuto a livello fiscale da Netflix, la Guardia di Finanza sta ricorrendo ad un criterio particolare, sfruttando gli algoritmi che orientano le scelte individuali attraverso la profilazione degli utenti: I suggerimenti che riceviamo quotidianamente dal servizio di streaming dimostrerebbero la presenza di Netflix in Italia e il conseguente obbligo di versare le imposte dovute sui ricavi. Gli inquirenti sono spesso costretti a soluzioni inedite come questa a causa dell’assenza di un impianto normativo in grado di costringere le multinazionali online a pagare le quote di loro competenza.
Negli ultimi trent’anni il mondo occidentale ha considerato il neoliberismo come l’unico modello valido per garantire un benessere diffuso alla popolazione. Questo appiattimento ideologico ha causato la ritirata delle istituzioni pubbliche e della politica dall’economia, lasciando campo libero ai soggetti che hanno fatto del profitto a ogni costo il loro mantra. L’Unione europea ha due principi fondativi molto importanti nella libera circolazione dei capitali e in quella delle persone all’interno dei suoi confini. Una delle sue maggiori debolezze è la mancata unione fiscale. La potestà impositiva è rimasta un dominio dei singoli Stati membri e Bruxelles ha poteri limitati per omologare le leggi fiscali. In questo panorama, le società che guidano la rivoluzione digitale scelgono di stabilirsi nei Paesi fiscalmente più vantaggiosi, ma generano profitti in tutta Europa per poi restituire quasi nulla al fisco. È il momento di smettere di considerare la libertà di muovere risorse finanziarie come l’unica via possibile per il progresso dell’Unione e dei 27 Stati membri.
I nuovi modelli di business hanno bisogno di una riforma dei sistemi fiscali e l’approvazione di una web tax a livello sovranazionale potrebbe rappresentare un ottimo punto di partenza. La Commissione europea ha proposto l’introduzione di una tassa comunitaria il 12 marzo 2018, con il vincolo per i big della rete di pagare le tasse nel luogo in cui vengono generati i profitti e non dove hanno la sede legale, come gli è stato concesso fino a oggi. Il progetto non è ancora andato in porto per il mancato raggiungimento dell’unanimità tra gli Stati membri. Di recente l’Ocse ha annunciato l’ipotesi di una riforma a livello globale da raggiungere entro la fine del 2020, con l’intento di far pagare le tasse ai grandi gruppi multinazionali nel luogo dove guadagnano. La proposta è un altro tassello verso una riforma fondamentale e soprattutto una presa di coscienza internazionale che tarda ad arrivare.
Il nostro modello economico ha generato l’instabilità e le diseguaglianze che sono ormai sotto gli occhi di tutti. Le persone percepiscono un aumento sempre più acuto delle ingiustizie sociali a causa della deregolamentazione, delle politiche di austerità, del mancato accesso all’istruzione superiore e dell’indebolimento dei corpi intermedi, come i sindacati. Le multinazionali protagoniste della rivoluzione digitale sono chiamate a restituire parte degli enormi profitti che hanno accumulato durante questi anni. Gli Stati nazionali, l’Unione europea e le altre istituzioni pubbliche hanno il dovere di rivendicare il loro ruolo di controllori, oltre che agevolatori, del mondo economico, arginando la logica predatoria del profitto a ogni costo che sta per distruggere tanto le nostre società quanto il Pianeta dove viviamo.