Alzheimer e demenza sono un’emergenza sempre più importante in un Paese che invecchia, come l’Italia - THE VISION

Con un’età media di 45 anni e una popolazione che continua a invecchiare – sono più di 7 milioni i cittadini over 75 per meno di 10 milioni under 18 – il problema globale delle malattie neurodegenerative riguarda l’Italia da molto vicino. Per sensibilizzare su queste patologie, che per l’Organizzazione Mondiale della Sanità dovrebbero essere una priorità della salute pubblica, nel 1994 fu istituita la Giornata Mondiale dell’Alzheimer, fissata per il 21 settembre, giorno che quest’anno ha portato a qualche speranza sugli avanzamenti della medicina, che purtroppo nel complesso restano timidi. L’ottimismo, infatti, non ha ancora molto spazio rispetto a patologie come questa, che rappresentano ormai la settima causa di morte nel mondo e che hanno ricadute sanitarie, economiche, sociali. E che non bisogna, però, considerare una fatalità da accettare come tale: anche la malattia è una questione politica. 

Con 40 milioni di persone colpite nel mondo e 150mila nuovi casi all’anno solo in Italia, la malattia di Alzheimer rappresenta il 60% di tutte le forme di demenza; e considerando il suo andamento a livello globale, nel 2050 una persona su tre al mondo potrebbe esserne affetta. Già oggi, in Italia si stima che più di 4 milioni di persone soffrano di declino cognitivo, di questi, 1,7 milioni sono persone colpite da demenza, anche se le gradazioni sono varie e molteplici: bisogna anche considerare, per esempio, i 2,5 milioni di anziani che hanno subito un peggioramento della propria salute cognitiva a causa dell’isolamento e della drammatica riduzione di attività e contatti sociali a cui sono stati costretti durante la pandemia.

Il boom di diagnosi di malattie neurodegenerative di questi ultimi anni sembra essere sinonimo – e conseguenza – di una popolazione che invecchia, l’altra faccia della medaglia dell’aumento della speranza di vita, in netta contrapposizione con la denatalità, con il risultato del calo demografico che l’Italia sta sperimentando in questi anni. Demenza, Alzheimer e altre forme di degenerazione non sono mai stati tanto diffusi: si tratta di problemi relativamente nuovi, perché non abbiamo mai vissuto così a lungo. Il Censimento 2018-2019, infatti, non ha evidenziato solo un calo della popolazione complessiva – che è scesa sotto i 60 milioni – ma anche il suo invecchiamento inesorabile. Mentre nel 1951, per esempio, c’era meno di un anziano per ogni bambino, nel 2019 si è arrivati a cinque.

Sul piano medico, oggi, qualche speranza per le patologie in cui l’invecchiamento ci fa incorrere arriva dalla ricerca scientifica, che sta portando avanti degli esperimenti con alcune molecole promettenti nel rallentamento del decorso dell’Alzheimer; proseguire e intensificare questa ricerca è fondamentale, ma al momento non esistono farmaci in grado di bloccare la malattia né tantomeno di guarirla e non possiamo semplicemente restare fermi a sperare, mentre la popolazione invecchia e le patologie neurodegenerative si diffondono a ritmo allarmante. In Italia dovremmo destinare più risorse alla ricerca scientifica, dato che sono fortemente al di sotto della media europea, sia in termini di investimenti economici che di numero di ricercatori e dottori di ricerca – senza tralasciare che spesso chi arriva a questo titolo conduce una vita infernale fatta di precariato, burnout e stipendi infimi, a fronte di scadenze pressanti, tra articoli da pubblicare e citazioni da ottenere. Anche se con il PNRR si è cercato di cambiare qualcosa, pur con limiti e dubbi.

Quando si parla di malattie neurodegenerative c’è poi un altro aspetto molto importante da considerare e riguarda gli aspetti socio-culturali della malattia: il problema della cura. In una condizione di cronica carenza sul piano dell’assistenza alle disabilità, sia in termini economici che di strutture dedicate, una fetta non indifferente del welfare nazionale poggia sulle spalle della figura del caregiver, di solito un familiare – molto spesso una donna – che fa enormi sacrifici, anche lavorativi, per assistere il parente non autosufficiente. Un lavoro a tutto tondo scarsamente riconosciuto – problema che non si risolve con iniziative-tampone come i bonus – ma logorante sia fisicamente che psicologicamente, che la politica dovrebbe considerare, anche alla luce della sua crescente importanza di fronte alla crescita delle necessità della popolazione anziana. Si pensi, per esempio, che un terzo degli over 75 presenta una grave limitazione dell’autonomia, cosa che, per 1 anziano su 10, incide sia sulle attività quotidiane della cura di sé che su quelle della gestione domestica, anche se non è presente la malattia di Alzheimer.

Ovviamente, a prescindere dal lavoro di cura e dal suo riconoscimento, ci sono altri fronti su cui lavorare. La prevenzione, in particolare, è fondamentale ed è anch’essa un problema sociale: al di là di predisposizione genetica e familiarità, lo stile di vita può essere determinante nella prevenzione di molte patologie, comprese quelle del cervello, ma l’informazione in merito è ancora troppo scarsa. Se infatti è vero che il declino neurologico e cognitivo è legato innanzitutto a tassi di invecchiamento ed età avanzata che fino a oggi non si sono mai visti, per cui prima di morire facciamo in tempo ad ammalarci come mai prima d’ora, e alla predisposizione, queste non sono le uniche cause. Anche uno stile di vita poco sano, tra sedentarietà, alimentazione grassa e ricca di proteine animali, zuccheri e alcolici, sul lungo periodo contribuisce all’insorgenza di patologie anche gravi, come appunto quelle neurodegenerative, ma anche del diabete, dell’ipertensione, dei tumori e delle malattie cardiovascolari.

Proprio per l’assenza di farmaci efficaci – ma anche per i costi economici e sociali che le cure, comprese quelle farmacologiche, comportano – la prevenzione è fondamentale. Una dieta equilibrata e il fare attività fisica regolarmente sono fondamentali anche per le forme di demenza, ma in una realtà che vede soltanto l’8% della popolazione consumare la quantità raccomandata di frutta e verdura e il 35% che non fa alcuna attività fisica (dato che quasi raddoppia dopo i 75 anni) – giusto per citare gli indicatori più macroscopici – è chiaro non siano molto radicate nella popolazione. A questo poi si aggiunge la diffusa carenza di sonno – con 9 milioni di italiani che soffrono di insonnia – un altro nemico, largamente sottovalutato, della salute cerebrale. Anche perché gli strumenti e le informazioni sull’impatto dello stile di vita sulla salute, il tempo e le possibilità economiche che i cittadini hanno per mettere in atto queste semplici forme di prevenzione, sono tutt’altro che scontati: è dovere – oltre che interesse –  dello Stato fare informazione e garantire che i suoi cittadini vi abbiano accesso, così come sostenere programmi che incentivino e rendano possibile lo sviluppo di queste abitudini. 

Un’altra forma di prevenzione fondamentale è poi il mantenere attivo il cervello, cercando di imparare sempre qualcosa di nuovo o studiando una lingua straniera, sfruttando la sua naturale plasticità, anche semplicemente leggendo. Purtroppo, anche su questi fattori – che sono influenzati dal livello di istruzione e dai servizi presenti sul territorio – non siamo messi particolarmente bene. La solitudine e l’assenza di reti sociali fanno la loro parte: la socialità, infatti, è un ingrediente fondamentale per la salute mentale e cognitiva, poiché il cervello viene stimolato dai contatti; le connessioni sociali, poi, influendo positivamente sullo stress, sul tempo trascorso all’aperto e su altre abitudini come il fumo, per l’effetto positivo della connessione emotiva contribuiscono a migliorare la salute mentale nel suo insieme e a mantenere un indice di massa corporea sano (come evidenziato dalle ricerche che dimostrano come obesità e diabete siano effettivamente influenzate dalla mancanza di relazioni profonde), mentre l’isolamento sociale può aumentare i sintomi depressivi e anche la mortalità. Oggi, tra l’altro, anche prima del declino connesso all’età lo sviluppo cognitivo stesso in molti casi non è ottimale; i motivi sono vari: da un lato la tecnologia che, mentre ci solleva dai compiti più semplici dandoci l’opportunità di occuparci di qualcosa di più interessante o utile, ci fa allenare meno molte funzionalità cognitive; dall’altro lato l’inquinamento chimico rappresentato dagli interferenti endocrini e un vero e proprio bombardamento di stimoli che il cervello non sa più come elaborare, con il risultato che, avendo perso la capacità di concentrarsi, non riesce più a portare a termine efficacemente i compiti mentali.

Tutti questi aspetti sono tanto più importanti man mano che si invecchia, ma secondo la scienza non è mai troppo presto per iniziare a mettere in atto questo tipo di prevenzione, cosa di cui troppo spesso ci si preoccupa solo quando emergono i sintomi di una patologia. Ed è anche la politica, nella sua gestione della sanità pubblica, a doversi occupare di migliorare sia l’assistenza ai malati sia l’informazione sui fattori di rischio legati allo stile di vita e alle scelte che compiamo quotidianamente in maniera più o meno consapevole, che non sono mai solo scelte individuali, ma vengono influenzate dalle politiche statali e locali, anche per quanto riguarda la prevenzione delle patologie.

La nostra società si concentra soprattutto sull’apparenza, eppure dovremmo preoccuparci della salute e della cura di quel che resta invisibile dall’esterno, come il cervello, rischiando di passare in secondo piano. C’è la speranza, però, che la nuova, timida attenzione che la pandemia ha risvegliato sulla salute mentale e sul problema del lavoro di cura sia l’occasione per iniziare a occuparsi seriamente di questo tema che ci riguarda tutti, come singoli e come società.

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