La morte dello studente di diciotto anni Lorenzo Parelli, avvenuta venerdì scorso nello stabilimento di un’azienda metalmeccanica di Lauzacco, in provincia di Udine, ha riacceso il dibattito sull’alternanza scuola-lavoro. Si è tornati infatti a riflettere sul senso di una legge che sottrae tempo ed energie alla didattica per avvicinare gli studenti al mondo del lavoro, rivelandosi per di più molto spesso un modo per alimentare sfruttamento in assenza delle necessarie garanzie giuslavoristiche.
Le origini di questa misura risalgono al 2003, quando la Riforma Moratti stabilì che gli studenti di almeno 15 anni avrebbero potuto scegliere di realizzare parte del loro percorso formativo alternando studio e lavoro. È però nel 2015 che, con la legge 107 della “Buona Scuola” promossa dal Governo Renzi, lo svolgimento di almeno 400 ore di alternanza per gli istituti tecnici e professionali e 200 per i licei è diventato obbligatorio. Quello che oggi è stato ribattezzato dal Miur “Percorso per le Competenze Trasversali e l’Orientamento” (PCTO), però, dovrebbe essere “un momento di formazione pratica in contesti lavorativi” in grado di favorire “politiche di transizione tra il mondo della scuola e il mondo del lavoro”.
Questi percorsi di lavoro non retribuito, invece, non solo falliscono nel creare una continuità e un contatto tra questi due ambiti, ma spesso si prestano a occasioni di sfruttamento e prevaricazioni. Secondo un’inchiesta realizzata dall’Unione degli Studenti, che ha coinvolto 15mila ragazzi delle scuole superiori, è emerso che il 57% degli studenti frequenta percorsi di alternanza non inerenti al percorso di studi – ad esempio, nei licei gli studenti sembrano aver fatto solo fotocopie nei comuni o catalogato libri nelle biblioteche –; il 40% dichiara di aver visto violare i propri diritti sul luogo di lavoro; e il 38% poi ha dovuto sostenere delle spese di tasca sua per portare a termine le ore obbligatorie.
Ciò che rende l’alternanza scuola-lavoro una misura fallimentare non è tanto la volontà di offrire agli studenti una visione più concreta delle possibilità che il loro percorso di studi potrebbe offrire, quanto piuttosto le modalità con cui questa intenzione viene messa in atto. Negli ultimi anni, anche a causa di una classe politica che ha favorito ad alimentarla, è diventata egemone una visione aziendalistica della scuola, che viene vista come un’istituzione il cui scopo principale è la formazione di futuri lavoratori, garantendo una spendibilità economica e pratica dell’istruzione – spesso frettolosa – e molte volte poco concorde alle inclinazioni e alle aspirazioni degli studenti. La legge della “Buona scuola” del governo Renzi ha addirittura promosso la “scuola impresa”, permettendo agli istituti di commercializzare beni o servizi prodotti durante le attività didattiche – da studenti non retribuiti – “per incrementare l’autonomia contabile delle istituzioni scolastiche ed educative statali e semplificarne gli adempimenti amministrativi e contabili”. La circolare del Miur continua spiegando che “l’impresa didattica funziona come una vera e propria azienda, con un proprio bilancio e i relativi registri di contabilità, di magazzino ecc.”. Non solo quindi si sono portati gli studenti nelle aziende, ma si è tentato di rendere le scuole aziende a tutti gli effetti, con l’intenzione dichiarata di accrescere i profitti degli istituti, mascherando il tutto come attività didattica.
Per di più, si è continuato – anche di recente – a predicare un’istruzione asservita alle “esigenze del mercato” e a quelle “del digitale”, senza considerare che tanto l’uno quanto l’altro trarrebbero vantaggio da una generazione di ragazzi che hanno speso il tempo sufficiente a scuola per uscirne preparati in senso ampio, dotati di spirito critico e coscienti delle loro potenzialità. Perché questo non si traduca in un determinismo sociale per cui solo chi ha la possibilità di frequentare licei e università possa aspirare a un lavoro soddisfacente a una visione del mondo sfaccettata e plurale, il tempo della didattica e dell’apprendimento deve essere garantito e difeso per tutti i ragazzi. Se è vero che negli istituti tecnici e professionali l’aspetto pratico è importante, per la natura stessa degli indirizzi, è anche vero che è fondamentale preservare un tempo e uno spazio che i ragazzi devono poter dedicare all’apprendimento puro, “improduttivo”, liberi da ciò che riguarda il lavoro in senso stretto.
Il diritto allo studio non è tale in nome di un qualche capriccio che vede un pregio nell’accumulazione di saperi inutili: è un diritto perché riguarda una delle dimensioni fondamentali per ogni essere umano, ovvero quella dell’accrescimento delle conoscenze e della presa di consapevolezza di sé e del mondo. Bruno Munari, designer e artista che ha dedicato molti dei suoi sforzi e delle sue ricerche all’educazione dei più giovani affermava nel saggio Fantasia che “il problema basilare […], per lo sviluppo della fantasia, è l’aumento della conoscenza, per permettere un maggior numero di relazioni possibili tra un maggior numero di dati. Nei primi anni della sua vita l’individuo si forma. Dipende dagli educatori se questa persona sarà poi una persona creativa o se sarà un semplice ripetitore di codici. Gli adulti dovrebbero rendersi conto di questa grandissima responsabilità dalla quale dipende il futuro della società umana”.
Se l’intenzione dell’alternanza scuola-lavoro fosse la sincera preoccupazione di far conoscere ai giovani il risvolto pratico del sapere, avvicinandoli alle professioni e ai mestieri che nel futuro saranno in grado di svolgere, sarebbe proficuo ripensare le modalità con cui questa intenzione possa essere messa in atto. Può essere utile includere, durante gli ultimi due anni di scuola, momenti di osservazione sui luoghi di lavoro svolte in gruppo e con l’affiancamento dei docenti o di tutor specializzati. La scuola, però, dovrebbe rimanere “scuola” anche in questi momenti e il contatto con la realtà lavorativa dovrebbe costituirsi più come laboratorio pratico che come esperienza di sfruttamento e rischio, come spesso si rivela essere. Aiutare i ragazzi a vedere che con ciò che studiano potranno, un domani, realizzare un progetto, partecipare alla realizzazione di un prodotto o mettere la propria intelligenza, manualità, creatività e, in termini generali, il proprio impegno in qualcosa di concreto che prende forma è giusto e può portare benefici. La stortura nasce dalla contrapposizione tra sapere e saper fare, come se esistessero delle nozioni che è necessario imparare – più per amor di forma e di tradizione che per reale utilità – e poi un mondo pratico, reale, in cui i ragazzi devono essere inseriti, dimenticando ciò che hanno studiato e iniziando a fare i conti con il mercato. Ma teoria e pratica, conoscenza e azione, non sono in contrapposizione: creare questa spaccatura contribuisce a una visione arrendevole, che di fronte alle ingiustizie di un mercato del lavoro che in Italia spesso si basa su sfruttamento e precarietà, o in altri casi su arretratezze e ottusità, non permette di opporre nuove visioni e nuovi metodi, facendo fruttare la fantasia a cui accennava Munari e smettendo di essere “ripetitori di codici”.
La scuola, quindi, non è un luogo in cui si perde o prende tempo, in vista del lavoro. È il luogo dove si acquisiscono gli strumenti per farsi esseri umani completi e sfaccettati, consapevoli che ci sono regole, saperi, strutture – del pensiero, della lingua, della scienza, della tecnica – che possono essere utilizzate per fare, nel lavoro, qualcosa di meglio di quello che c’è. Privare quindi i ragazzi del tempo del ragionamento, per un’alternanza che non offre un contatto sano con l’impresa e il lavoro, ma abitua a sottomettersi e ad accettarne i risvolti più deleteri, è un sopruso a cui tutti dovremmo opporci. La scuola deve tornare a essere il luogo della conoscenza e dell’operosità, ricordando che fra l’uno e l’altra non c’è contraddizione.