Quando si parla degli effetti delle teorie cospirazioniste, solitamente ci si concentra sulle ricadute politiche e sociali della loro diffusione. L’antivaccinismo è deleterio per la salute pubblica, QAnon ha contribuito alla radicalizzazione politica delle destre, e così via. Di rado si parla invece delle conseguenze private del complottismo e del modo in cui agisce nelle vite delle persone che ci credono e di quelle che le circondano. Molti di noi si sono trovati a un certo punto a interagire con un complottista su internet, magari provando a convincerlo dell’assurdità delle sue convinzioni o facendo battute e allusioni. Ma quando a credere nei complotti è un tuo caro amico, il tuo partner o un tuo genitore, spesso si tratta di un’esperienza difficile e dolorosa.
Molti studi e ricerche hanno provato a spiegare i meccanismi psicologici che stanno dietro alle teorie del complotto, mentre sono ancora pochi a indagare gli effetti che hanno sulla salute mentale. Spesso siamo portati a bollare i cospirazionisti come dei folli o dei “paranoici”, anche a causa della cultura pop, piena di personaggi che mescolano paranoia e complottismo; basti pensare a Murray Bauman di Stranger Things o a Marvin nella serie di film Red. Tuttavia, come spiegano gli psicologi Roland Imhoff e Pia Lamberty in uno studio pubblicato sull’European Journal of Psychology, questo paragone è scorretto: le teorie del complotto originano soprattutto da fattori sociali e non sono causate dalla salute mentale del singolo, anche se funzionano meglio su determinati tipi psicologici. Inoltre, mentre chi soffre di disturbo paranoide tende a diffidare di chiunque, il cospirazionista rivolge i suoi sospetti verso un determinato gruppo sociale oppure verso le autorità governative o le cosiddette élite. Se quindi è sbagliato colpevolizzare il singolo, questo non significa che chi si radicalizza non comprometta il proprio benessere mentale e i rapporti con gli altri.
Uno studio pubblicato su JMIR Public Health and Surveillance e condotto su 252 operatori sanitari ecuadoriani, ad esempio, ha concluso che quelli che credevano che il Coronavirus fosse stato prodotto in laboratorio (il 24.2% del totale degli intervistati) erano più inclini a sviluppare stress e ansia e riportavano maggiore insoddisfazione nel lavoro e nella vita. Anche se per ora la maggior parte degli studi sugli effetti del complottismo si concentra sui comportamenti causati dalla credenza in queste teorie (come rifiutare di vaccinarsi, non usare precauzioni per i rapporti sessuali a rischio se si nega l’esistenza dell’Hiv, ma anche prestare meno attenzione al lavoro perché si è distratti dal cercare propaganda complottista), è ormai chiaro che le persone che credono ai complotti tendono a chiudersi in un mondo tutto loro, a passare molte ore su internet alla ricerca delle prove di ciò che sostengono e spesso anche a diventare aggressive nei confronti di chi invece è considerato una “pecora” che non ha ancora accettato “la verità”. L’alienazione sembra essere infatti una delle conseguenze più comuni correlate alle teorie del complotto, un comportamento che ha gravi ripercussioni anche sulle persone vicine, dal momento che alimenta il sospetto, l’isolamento e la diffidenza.
Non è un caso che negli Stati Uniti alcune cliniche abbiano cominciato a offrire servizi di riabilitazione per la “dipendenza da teorie del complotto”, al pari di altre dipendenze comportamentali, e che spesso questi meccanismi siano stati associati ai culti e alle sette. Una delle prime cose che succedono quando si entra in una setta è l’allontanamento dai propri familiari, che vengono considerati degli ostacoli per il raggiungimento della crescita personale e della verità. Lo stesso accade anche a molte persone che si avvicinano alle teorie dei complotti: più si addentrano nella cospirazione, più tendono a diffidare delle altre persone, che sono viste come irragionevoli o cieche di fronte alle “evidenze” che queste teorie propongono. Nel caso di QAnon, il meccanismo settario è ancora più evidente, dal momento che c’è anche un leader ben identificabile, anche se nessuno sa chi sia: Q. Secondo il Centre for Analysis of the Radical Right del sito di inchiesta Open Democracy, QAnon è particolarmente efficace perché si basa su tre meccanismi che sono tipici dei culti: fornisce una spiegazione semplice a un aspetto terribile della società (cioè che la violenza sessuale a danno dei minori sia un problema reale), basa la persuasione su un fascino di tipo emotivo e fornisce al credente un senso di comunità e di appartenenza a un gruppo.
Il Guardian ha raccolto alcune storie di chi ha visto familiari e amici scivolare nel cospirazionismo più estremo: Daniel, un trentaseienne del Kansas, racconta di non riuscire a dormire la notte per paura che il fratello Greg decida di sparare ai manifestanti del movimento Black Lives Matter; Susan sta pensando di lasciare il marito con cui sta da sette anni perché la sua vita è stata completamente risucchiata da QAnon. Su Reddit è nata invece una community con più di 50mila membri, “QAnon Casualities” (vittime di QAnon), per “avere supporto emotivo e sfogarsi” se si pensa che un proprio caro “sia stato trascinato via dal delirio di QAnon”. Le testimonianze sono struggenti: solidi matrimoni rovinati, figli adolescenti che vorrebbero allontanarsi dai genitori, amicizie compromesse per sempre. C’è chi chiede consiglio su come poter aiutare i propri contatti e chi ci ha rinunciato e cerca suggerimenti su come scappare di casa. Quello che colpisce di queste storie è che in molti casi le persone si avvicinano a QAnon o ad altri gruppi dopo aver perso il lavoro, stando a casa e passando sempre più tempo su internet, radicalizzandosi allo stesso modo degli estremisti religiosi. Gli adepti di QAnon sono quindi spesso persone in difficoltà che, come accade a quelli che entrano nelle sette, stanno solo cercando una rete di supporto.
Anche se in alcuni casi potrebbe essere utile l’aiuto di un professionista, psicologi ed esperti hanno cominciato a elaborare alcune strategie che i familiari o gli amici di una persona che crede nei complotti possono mettere in atto per aiutarla. Una cosa su cui sono tutti d’accordo è che opporsi a una teoria del complotto bombardandola con “i fatti” è abbastanza inutile, soprattutto se stiamo parlando con una persona estremamente radicalizzata. Quello che succederà, spiega Open Democracy, è ritrovarsi in un diallele, un ragionamento circolare in cui le premesse si fondano sulle conseguenze: se sostieni che non esiste alcun traffico di schiavi sessuali minorenni gestito da Hillary Clinton o Bill Gates, è perché sei un pedofilo e stai negando l’evidenza. Al contrario, la cosa migliore da fare è trovare un terreno comune. Per quanto fantasiose o assurde possano sembrare le teorie del complotto, hanno sempre origine da qualcosa di vero. Se non è l’élite mondiale democratica ad abusare sessualmente dei bambini, la tratta dei minori è un problema vero e reale. Se non è vero che siamo controllati con i microchip installati a nostra insaputa, la storia è piena di esempi di programmi di sorveglianza di massa.
Nadia Brashier, docente di Scienze cognitive ad Harvard, suggerisce di togliersi dalla testa di poter far cambiare totalmente idea a un complottista, men che meno da un giorno all’altro. “Anche dopo il debunking”, ha spiegato la scienziata a PBS, “spesso vediamo quello che viene chiamato ‘effetto di influenza continuo’, in cui la falsa credenza continua a persistere”, anche quando la persona riconosce e accetta i fatti reali. Pare, infatti, che nel nostro cervello le informazioni false possano convivere con quelle che le smentiscono, ma quest’ultime tendono a essere dimenticate o rimosse col tempo. Un’altra cosa importante è evitare di ostracizzare i cospirazionisti perché, come si è detto, l’isolamento e l’alienazione favoriscono la radicalizzazione. Di conseguenza, secondo Brashier, bisogna cercare di essere costanti con il supporto. Non basta un litigio a cena per far cambiare idea a qualcuno, è necessario sostenere le proprie tesi nel tempo, magari agendo prima che sia troppo tardi e cercando di essere sempre ragionevoli e gentili. Se vediamo che un nostro genitore – magari non troppo avvezzo con la tecnologia – è incline a credere a tutto quello che legge su internet, è più utile aiutarlo a scegliere fonti di informazione migliori e coinvolgerlo attivamente nella discussione sull’attualità, magari inviandogli link che riteniamo affidabili, piuttosto che abbandonarlo a se stesso e tentare di farlo ragionare quando ormai è troppo tardi.
Anche se di teorie del complotto si parla molto – contribuendo per certi aspetti a diffonderle involontariamente – dobbiamo parlare anche di chi ne cade vittima. Solo così possiamo sperare di sconfiggere un fenomeno che danneggia sia la collettività che le singole persone e chi sta loro accanto.