“Non abbiamo fatto arretrare con successo le frontiere dello Stato in Gran Bretagna, solo per vederle reimposte a livello europeo con un super-Stato che esercita un nuovo dominio da Bruxelles”. Queste parole le ha pronunciate Margaret Thatcher durante un incontro al Collegio d’Europa di Bruges nel settembre del 1988. A rileggerle viene da chiedersi cosa avrebbe detto oggi la premier britannica nel vedere che l’Unione europea ha cominciato un cambio di rotta importante, probabilmente irreversibile e per certi versi rivoluzionario, diretto verso una maggiore centralità delle istituzioni comunitarie, anche in campo sociale.
La pandemia ha dato un forte impulso a questo cambiamento, rendendolo ancora più necessario e urgente. Nonostante le ultime stime della Bce indichino un primo segno di miglioramento, il Pil dell’Eurozona dovrebbe scendere dell’8% alla fine di quest’anno, ma le previsioni sono incerte per la scarsa prevedibilità dell’andamento dei contagi. Una recente ricerca ha stimato che a causa della pandemia 395 milioni di persone in più nel mondo cadranno in condizione di estrema povertà, facendo salire a oltre un miliardo il numero di coloro che vivono con meno di 1,90 dollari al giorno. In Europa le ultime stime contavano circa 113 milioni di poveri, con un cittadino su cinque affetto da almeno una forma di povertà. Anche in quest’occasione, come sempre è stato in passato, i migliori candidati a subire gli effetti della crisi con un’intensità maggiore saranno le fasce più deboli, coloro che provengono da classi sociali o regioni svantaggiate, i giovani, le donne e i disabili. Queste persone correranno un rischio maggiore di perdere il lavoro e di restare disoccupate a lungo, di non riuscire a pagare l’affitto della casa e trovarsi in condizioni di povertà e precarietà, allontanandosi sempre di più dalle classi sociali più agiate.
Sebbene il quadro sia complicato e richieda, oltre ai fondi, un progetto politico che ripensi la società alle sue radici, esistono iniziative che possono alleggerire il peso di chi è meno avvantaggiato. A sostegno degli indigenti, per esempio, in Europa da diversi anni esiste il Fead, il Fund for european aid to the most deprived: un’iniziativa da 3,8 miliardi di euro finanziata all’85% dalle istituzioni comunitarie e al 15% dagli Stati membri. Il Fead offre un supporto economico alle associazioni, agli enti e alle organizzazioni non governative che sul territorio si occupano di fornire a chi ne ha bisogno cibo, vestiti, assistenza psicologica e burocratica, formazione e beni di prima necessità. In Italia, per esempio, il Fead coinvolge autorità regionali e locali, oltre a un network di 30mila volontari di oltre 10mila organizzazioni, come la Fondazione Banco Alimentare, la Caritas o il Forum del terzo settore. Nel nostro Paese per il periodo 2014-2020 sono stati stanziati 789 milioni di euro, usati principalmente per l’acquisto e la distribuzione di cibo, ma anche per la fornitura di materiale scolastico a ragazzi provenienti da famiglie con problemi economici, per i servizi di mensa scolastica nelle regioni di forte disagio e per fornire aiuti ai senza dimora e a coloro che vivono in condizioni di marginalità. Un progetto finanziato dal Fead nel comune di Torino è diventato un case study dell’Unione europea: ha permesso il sostegno ai senzatetto e agli ex detenuti finanziando alloggi, prodotti per l’igiene personale e servizi di mensa, oltre che assistenza nel reinserimento in società. L’obiettivo strategico del fondo è quello di ridurre il numero di persone a rischio esclusione sociale di 20 milioni entro la fine del 2020. Durante l’ultima programmazione, ovvero quella che ha coperto il periodo 2014-2021, sono stati fatti diversi passi avanti anche grazie a una costante crescita economica dell’Eurozona. Sin dall’inizio della pandemia, però, è stato chiaro che questa potesse frenare i progressi del programma Fead, rendendo quindi necessaria una sua revisione.
Per farlo si è mobilitato il Parlamento europeo, che ha negoziato con la Commissione una serie di proposte per potenziare il fondo nell’immediato e renderlo più efficace in futuro. La prima fase di modifica è stata quella realizzata nel periodo del lockdown, allo scopo di velocizzare e rendere più facile l’accesso al fondo: “L’abbiamo dovuto fare in tempi molto rapidi, abbiamo adottato una procedura di estrema urgenza, è stato complicato negoziare in quel contesto”, ci racconta l’europarlamentare Brando Benifei, 34 anni, relatore del gruppo dei Socialdemocratici sia per il Fead che per il Fondo sociale europeo plus. “Abbiamo previsto la possibilità di includere nelle spese consentite i dispositivi di protezione individuale, accettato la possibilità di adattare rapidamente i programmi senza attendere l’approvazione della Commissione e quella per gli Stati membri di beneficiare al 100% del finanziamento, anziché all’85%”. Dunque, anche quel 15% che inizialmente proveniva dalle casse dei governi nazionali, ora sarà interamente coperto dal bilancio comunitario.
La seconda fase invece riguarda le negoziazioni per il Fead del futuro, ovvero quello previsto dal bilancio 2021-2024, attualmente in discussione. “Stiamo facendo una battaglia con la Commissione e il Consiglio, che vogliono vincolare al Fead soltanto il 2% delle cifre totali stanziate per il Fondo sociale europeo plus, mentre il Parlamento europeo vorrebbe il 3% – come S&D puntavamo al 4%”. Può sembrare un cambiamento di poco conto, ma come ci chiarisce Benifei il Fse+ quest’anno si aggirerà intorno ai 100 miliardi di euro e quindi ogni punto percentuale vale circa 1 miliardo di euro. Nello specifico, la proposta della Commissione è di circa 105 miliardi, mentre il Parlamento vorrebbe fossero stanziati pressappoco 119 miliardi. “Significa vincolare l’uso di questi soldi a tutela degli indigenti, obbligando gli Stati a finanziare azioni in loro sostegno, contro la povertà, e non impiegarli in altro modo”, conclude. Gli aumenti di risorse che saranno destinati al Fead, inoltre, saranno prefinanziati al 50% dalla Commissione già al momento dell’approvazione del programma, per far fronte alle possibili difficoltà economiche dei Paesi membri causate dalla pandemia.
Lo scontro tra il Parlamento europeo a la Commissione su tematiche come quella della spesa sociale è funzionale e fisiologico. Nel complesso, però, è evidente che l’Unione europea sembra andare nella direzione di un maggiore intervento in ambito del welfare – per buona pace di Thatcher – cercando di centralizzare l’intervento nel sociale vincolando i governi degli Stati membri a interessarsi a un argomento che non sempre è prioritario nella politica domestica. “Con il passare dei mesi di lockdown e della prima fase della pandemia, la Commissione si è sempre più allineata alla posizione del Parlamento, a favore di un rafforzamento dell’aspetto sociale”, ci conferma Benifei. “È stato significativo, per esempio, il fatto che Ursula von der Leyen abbia parlato del salario minimo come di uno strumento che va implementato a livello europeo, e del fatto che si parli di non reintrodurre il patto di stabilità e crescita fino a che non torneremo ai livelli di crescita pre-crisi. L’Ue è cambiata, sta entrando in una nuova mentalità. Magari più lentamente del Parlamento, ma secondo me è un processo irreversibile. È cambiata la scala delle priorità con quello che è accaduto, perché lo shock è stato talmente forte che secondo me non è possibile tornare indietro”.
Di fronte alla crisi economica, sanitaria e sociale causata dalla pandemia, l’Unione europea avrebbe potuto reagire in due modi, che abbiamo visto rappresentati durante il dibattito che per più di 90 ore ha impegnato i Capi di Stato dei 27 Stati membri a fine luglio: avrebbe potuto chiudersi nel nazionalismo, “facendo arretrare le frontiere del Super Stato”, parafrasando Thatcher, oppure avrebbe potuto scegliere di imporsi come il perno del cambiamento delle politiche in Europa, come l’istituzione che avrebbe guidato gli Stati membri fuori dalla crisi. D’altronde, è anche quello che da tempo, e ancor di più ora con la presidente von der Leyen, cerca di fare in ambito ambientale. Come sappiamo, il risultato è stato sì un compromesso, ma comunque un accordo in grado di imprimere un cambio di rotta storico verso il rafforzamento dell’Ue a livello istituzionale e politico. Questa volta, diversamente da quanto accaduto con la crisi finanziaria del 2007-2008, l’Unione europea ha scelto di dare il suo supporto agli Stati membri, al massimo delle sue possibilità. Ora sta a loro mettere in pratica politiche lungimiranti e inclusive, che ci aiutino uscire dalla crisi economica causata dalla pandemia e a ripensare quegli aspetti della nostra società che non erano tollerabili nemmeno prima del lockdown, ma che ora sono ancora più esasperati.