Quando leggo le notizie del giorno, ciò che maggiormente mi colpisce è la volubilità degli italiani, o forse dell’essere umano in sé. In questi giorni i fatti di cronaca ci dicono che gli ospedali sono assediati, i medici picchiati o minacciati da persone totalmente prive di senso civico e, quanto pare, di umanità. Eppure sono passati davvero pochi anni dalla retorica dei medici “angeli ed eroi”. Ricordo bene quel periodo, era il primo lockdown della pandemia, quello del “ne usciremo migliori”, delle torte fatte in casa e dei canti dal balcone. Prima che ci incattivissimo ancora di più. Sui social giravano fotografie di medici e infermieri esausti, senza più energie sotto le loro tute da astronauti dentro cui si mettevano ogni mattina per lavorare in emergenza. E gli italiani erano grati. Avevamo bisogno di loro. Anche adesso, tecnicamente, ma il loro ruolo da angeli è tornato a essere quello di professionisti. Anche giustamente. Venendo meno la componente epica, quasi fiabesca, degli uomini e delle donne in missione per salvarci tutti, a costo di mettere a rischio la loro vita, però, oggi i medici devono sentirsi fortunati se tornano a casa dopo il lavoro senza aver ricevuto insulti, una minaccia di morte o un cazzotto in faccia.
Quello che è successo in queste settimane al Policlinico Riuniti di Foggia è il segnale di un degrado sociale non indifferente. Il primo episodio sembra ambientato in un saloon del far west. In seguito al decesso di una ragazza di 23 anni per un delicato intervento non andato a buon fine e che si era reso necessario a causa delle conseguenze di un incidente stradale, il 4 settembre decine di persone tra parenti e amici della vittima si sono radunate davanti all’ospedale. Sono entrate, direzione reparto di chirurgia toracica. Qualcosa di simile a una spedizione punitiva, a un raid contro i medici che avevano cercato di salvare la vita della ragazza. I medici e gli infermieri si sono dovuti barricare in uno stanzino bloccando la porta con i pochi mobili che avevano a disposizione mentre chiamavano le forze dell’ordine. Il branco è riuscito ugualmente a fratturare la mano di una dottoressa e a prendere a pugni in faccia un chirurgo, prima dell’intervento della polizia. Pochi giorni dopo, nello stesso ospedale, un uomo con un braccio ingessato ha picchiato due infermieri e un vigilante, e un diciottenne finito in pronto soccorso in stato d’ansia ha iniziato a scalciare alla cieca ferendo tre infermieri. Quest’ultimo caso peraltro ci ricorda di come esistano anche vicende di aggressività dovute a problematiche psicologiche o psichiatriche, che vedono gli operatori sanitari ugualmente esposti senza le adeguate tutele. Ma al di là di quella che sembra un’epidemia di inciviltà e violenza a Foggia, si tratta purtroppo di episodi che avvengono in tutta Italia – a volte anche con esiti fatali, come il medico ucciso fuori dal San Donato nel milanese a colpi di accetta – e che hanno portato nell’ultimo anno all’aumento dei posti di Polizia in ospedale del 57,1%.
Angela Saba è una medica internista che ha svolto servizio in ospedali laziali e pugliesi. Attualmente lavora a Bari. “C’è una diffidenza senza precedenti che sfocia in rabbia,” mi racconta”. “L’errore è umano, noi siamo umani, ma esistono autorità preposte a giudicarci, nessuno può arrogarsi il diritto di farsi giustizia da solo attraverso la violenza. Non in un Paese civile”, continua, “Siamo stanchi. Lo Stato non ci tutela affatto, non è più vita la nostra. Abbiamo toccato un punto di non ritorno, servono misure efficaci che ci garantiscano di lavorare in scienza e coscienza, nella cura del malato, senza temere per la nostra incolumità. Sempre più medici e infermieri abbandonano il lavoro per la totale assenze di tutele e garanzie: di questo passo chi ci curerà?”.
Il privilegio di avere una Sanità pubblica non deve essere uno scudo costante contro i problemi riscontrabili ogni giorno negli ospedali italiani. Come dice la dottoressa Saba, è inevitabile partire dalle responsabilità dello Stato. Se circa 3mila medici l’anno abbandonano l’Italia o passano al privato, si incrementa ancora di più l’annoso problema della mancanza del personale. Lo Stato è colpevole principalmente per tre motivi: i salari dei medici italiani sono tra i più bassi d’Europa, da decenni la politica taglia i fondi alla Sanità e non c’è un incentivo ad assumere nuove leve. A partire dal tragicomico test della Facoltà di Medicina (per fortuna destinato a decadere), con domande che nulla hanno a che fare con le materie da preparare. Come se nei test dell’Ordine dei Giornalisti mi avessero chiesto l’origine della guacamole. Più che la compassione per i professionisti che resistono dovrebbe prevalere l’incazzatura per uno Stato che non garantisce loro molte delle tutele necessarie per svolgere la propria professione. Perché essere un medico nel 2024 non è facile. C’è però qualcosa di ancor più insidioso, al limite dello sconsigliabile: essere un medico donna.
La dottoressa Saba non ha mezzi termini: “Con i pazienti e con i loro familiari le discriminazioni di genere sono all’ordine del giorno, non esagero. I miei colleghi uomini sono tutti riveriti come dottori o professori, io vengo chiamata insistentemente signorina”. Deve essere duro studiare per anni, specializzarsi e fare esperienza per poi sentirsi chiamare così. Per la prima volta nella storia in Italia ci sono più donne che uomini tra i medici. Ma purtroppo resta anche in questo ambito il soffitto di cristallo. Il fatto che i primari siano per l’83% uomini non è un’anomalia statistica, ma il ritratto di una società dove le donne vengono ancora lasciate indietro. “Sono i retaggi del patriarcato”, continua la dottoressa Saba. “Bisogna collaborare allo scardinamento di questa annosa e irragionevole distorsione della percezione delle figure femminili in ambito sanitario. È una sfida educativa quotidiana che necessita di pazienza e perseveranza, mantenendo viva la speranza che un cambiamento sia possibile”.
Riepilogando tutti i casi di violenza subita da medici e infermieri negli ospedali italiani verrebbe fuori un elenco dell’infamia. E così citare anche tutte le altre testimonianze di dottoresse svilite professionalmente in quanto donne. Sono realtà tangibili e assodate. L’analisi deve sì partire dalle già citate lacune dello Stato, ma potrebbe quasi essere un esercizio di assoluzione collettiva, se lo Stato in sé viene percepito come un’entità astratta. A livello pratico deve esserci un aumento del personale, un investimento nelle strutture, nella ricerca, nei salari adeguati, ma poi l’inciviltà che viene da fuori ha radici che non riguardano certo solo il mondo della Medicina. Se un ministro della Repubblica sui social commenta la vicenda di una donna che ha ucciso un uomo colpevole di averle rubato la borsetta quasi giustificandola (e il “quasi” è pleonastico quando il ministro in questione si chiama Matteo Salvini) l’esempio che viene dato è evidentemente quello della giustizia privata, a prescindere dal titolo e il tipo di responsabilità, accertata o da accertarsi, dell’atto che l’ha scatenata. E così se i medici non riescono a salvare un paziente devono essere linciati; se c’è troppa ressa al pronto soccorso deve volare qualche schiaffo; se le stanze degli ospedali sono inadeguate un parente di un paziente può distruggere un intero reparto. Così si alimenta il circuito della violenza, della prevaricazione, della reazione sproporzionata. Sono i prodromi del collasso della nostra società.
Tra i medici gira da sempre questa battuta un po’ amara: “Se il paziente si salva è grazie all’intervento di Dio, se non ce la fa è colpa nostra”. Ed è così purtroppo agli occhi di molte persone. Però non possiamo permettere che in un Paese in teoria civile quella “colpa” – che non sempre “colpa” è, a meno di non voler considerare un medico come un demiurgo appunto – venga pagata a suon di minacce e botte, perché è lo specchio della sconfitta di uno Stato alla deriva, in un periodo storico dove cittadini e rappresentanti si assomigliano sempre di più e sono accumunati dalla cultura dell’odio.