Venerdì sera, a Palermo, una coppia di ragazzi gay originaria di Torino è stata aggredita in pieno centro da quella che i giornali definiscono una baby gang. I due, che si tenevano per mano, dopo essere stati derisi, sono stati colpiti con pugni, calci e bottigliate che hanno provocato una frattura al naso a uno dei due. Si tratta dell’ennesimo episodio di violenza omo-lesbo-bi-transfobica dall’inizio dell’anno: sono almeno 35 infatti gli atti intimidatori e le violenze fisiche mappate dal giornalista Giuseppe Porrovecchio, a cui si aggiungono diversi episodi avvenuti online. Numeri che dimostrano quanto l’omofobia sia un problema sociale radicato e diffuso, nonostante le minimizzazioni, che anche in queste ore stanno circolando sull’accaduto. Se infatti per il sindaco di Palermo Leoluca Orlando “l’episodio ribadisce l’importanza e l’urgenza dell’approvazione del ddl Zan”, per Roberto Occhiuto, capogruppo di Forza Italia alla Camera, “il ddl Zan non è la soluzione a questi problemi”. Si ripete insomma lo stesso dibattito dell’aggressione omofoba nella metro a Roma, uno dei tanti “casi isolati” che non sembrano poi così isolati. Soltanto due giorni fa, nel quartiere Pigneto a Roma, un altro ragazzo è stato insultato con epiteti omofobi e minacce.
È difficile avere una stima precisa di quante siano le aggressioni omofobe in Italia e anche per questo la legge Zan propone, all’articolo 10, la rilevazione a cadenza triennale dei crimini d’odio da parte dell’Istat. Al momento, l’unico organo ufficiale che può fornire numeri sulla violenza legata all’orientamento sessuale e l’identità di genere è l’Oscad, l’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori, istituito nel 2010 dalla Direzione Centrale della Polizia Criminale. L’Oscad ha il compito di monitorare il fenomeno raccogliendo le segnalazioni che arrivano dai commissariati e di formare il personale delle forze dell’ordine. Questo significa che i dati dell’Oscad dipendono dal numero di denunce e, come spiega lo stesso osservatorio nella sua presentazione, sono “dati eterogenei, che non forniscono un quadro avente valore statistico sul fenomeno in Italia”. Secondo Simone Pillon l’Oscad avrebbe registrato “66 casi in due anni”, anche se a onor del vero i reati rilevati negli ultimi due anni sono 155, a cui si aggiungono altre segnalazioni che non costituiscono reato, ma di cui non si conosce il numero preciso perché raggruppate insieme ad altri tipi di discriminazione. Il motivo dell’imprecisione di questi dati è proprio il fatto che al momento l’Italia non ha nessuna fattispecie di reato legata all’omofobia ed è quindi l’operatore di polizia che si occupa della segnalazione all’Oscad a dover valutare se si tratta o meno di una aggressione legata all’identità sessuale. In ogni caso, i dati sono in costante aumento: nel 2010 le segnalazioni correlate all’orientamento sessuale erano state 3, nel 2019 95.
La crescita è in linea con quanto sta succedendo in altre parti del mondo. Secondo l’FBI, la violenza omofobica è in costante aumento anche negli Stati Uniti. Per tentare di colmare la lacuna statistica in Italia, non mancano monitoraggi dal basso, come il progetto Hate Crimes No More del Centro Risorse LGBTI, che ha raccolto 672 segnalazioni tra maggio e dicembre 2019. Anche Arcigay pubblica annualmente un censimento che prende in considerazione le notizie apparse sui giornali: nel 2019 gli episodi omofobici arrivati sui media sono stati 138. Il giornalista Simone Alliva, nel suo libro Caccia all’omo, nello stesso anno ne conta 212. Numeri alti ma comunque al ribasso, dato che la maggior parte dei crimini d’odio resta sommersa: negli Stati Uniti si stima infatti che il 54% di questi episodi non venga denunciato.
Nel 2015, una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato la Georgia per non aver protetto i propri cittadini dagli attacchi avvenuti durante una manifestazione tenutasi durante la Giornata mondiale contro l’omofobia. Nella sentenza, la Corte ha sottolineato come i soli dati ufficiali della polizia non siano sufficienti a dimostrare le reali condizioni di discriminazione della comunità LGBTQ+ e che andrebbero implementati con quelli raccolti dalle associazioni, a cui le vittime si rivolgono con maggiore fiducia. Uno degli ostacoli principali alla denuncia è infatti la rivittimizzazione secondaria o “victim blaming” nelle fasi di denuncia e durante il processo, cioè l’addossare alla vittima la colpa della violenza subita, circostanza frequente anche nei casi di violenza domestica o sessuale contro le donne. L’idea che una persona gay, lesbica, bisessuale o transgender sia responsabile dell’odio che la colpisce è molto radicata. Ogni atteggiamento che si discosta da ciò che viene considerato “normale” è visto come una giustificazione delle discriminazioni: dalle effusioni in pubblico all’idea che l’orgoglio omosessuale sia una “carnevalata”. Peccato che la violenza omo-lesbo-bi-transfobica sia “provocata” dalla mera esistenza delle persone LGBTQ+.
L’episodio di Palermo è stato messo a confronto con un altro caso, avvenuto qualche giorno fa a Jesolo, dove una coppia di “focosi giovani amanti” ha fatto sesso in spiaggia tra gli applausi dei bagnanti. Ai due ragazzi di Palermo, invece, è bastato soltanto tenersi per mano per scatenare l’aggressione. Come hanno scritto nel comunicato sull’episodio gli attivisti del Laboratorio Smaschieramenti: “Basta un ‘atteggiamento’, basta solo esistere e attraversare gli spazi per diventare target di violenza verbale e fisica, target di un’intolleranza che non tolleriamo più”. Il paradosso è che, quando si verificano episodi di violenza fisica ben riconoscibile, anche chi è contrario alla legge sull’omofobia non si esime dall’esprimere ferme condanne, ma nel momento in cui si sostiene la necessità di perseguire questi crimini e di prevenirli con l’educazione, ecco che salta fuori la minaccia dell’indottrinamento. Come se l’esistenza di orientamenti diversi dall’eterosessualità fosse di per sé una questione ideologica e non un semplice dato di fatto. Così i mille baci eterosessuali che vengono trasmessi in tv non turbano nessun bambino, mentre un raro bacio gay – sempre che non venga opportunamente tagliato – diventa “uno spettacolo indignitoso”, “propaganda gender” o “pornografia immorale per i bambini”.
Quando si crede che una generica educazione al rispetto possa magicamente risolvere il problema si nega che l’omofobia è una parte strutturale della società e che ogni “caso isolato” ha la sua matrice nella convinzione che l’omosessualità vada bene finché non la si ostenta, che l’esistenza delle persone transgender si può tollerare finché non mettono in discussione la “natura” e così via. È la stessa impostazione di chi, di fronte al razzismo, risponde dicendo che il colore della pelle non conta finché ci si comporta bene: conta moltissimo, invece, finché si è in una società razzista che considera in modo assai diverso quel comportarsi bene proprio in base al colore della pelle. Non è vero che “ognuno è libero di amare chi vuole”, come ripeteva Salvini ad aprile per dimostrare l’inutilità della legge Zan, perché in questo Paese nessuno sarà mai libero di amare – o anche solo di esistere – finché rischierà di essere ucciso perché ama un ragazzo trans, finché verrà cacciato di casa o da scuola perché “influenza negativamente gli altri bambini”, finché si sentirà in dovere di “passare” per uomo o per donna per essere riconosciuto, finché sentirà rappresentanti politici che in serenità affermano pubblicamente che le relazioni tra persone dello stesso sesso sono “gravi depravazioni” o “contro natura”.
La violenza omo-lesbo-bi-transfobica è un problema strutturale e specifico che non può essere paragonato in nessun modo a una generica violenza privata. Proprio per questo motivo l’Italia non può più rimandare l’approvazione di una legge che rappresenta il primo passo non tanto per punire gli aggressori di Palermo o di qualsiasi altro luogo, ma soprattutto per distruggere quella cultura che non riesce a tollerare due uomini che si tengono per mano.