Nel 1944 Alberto Moravia pubblica Agostino, ritratto autentico e tagliente sui tormenti adolescenziali. Il romanzo, composto nel 1941 ma dato alle stampe tre anni più tardi a causa della censura fascista, racconta la storia di Agostino, un ragazzo di appena tredici anni, che indossa ancora i pantaloni corti e vive insieme alla madre, una donna giovane e affascinante rimasta vedova. Durante le vacanze estive trascorse in Versilia, Agostino fa la conoscenza di una banda di ragazzi che si riuniscono al Bagno Vespucci per discutere, vivere le prime esperienze sessuali e commettere piccoli reati. Per farsi accettare dal gruppo e diventare “come gli sembrava che gli altri avrebbero voluto che fosse, cioè in tutto simile a loro”, Agostino affronta diverse prove d’iniziazione: ruba un pacchetto di sigarette dalla borsa della madre, fuma insieme agli altri ragazzi della banda (dimostrando di non saper aspirare e di avere, ancora, dei polmoni “da bambino”), si spoglia in spiaggia – confrontando il proprio corpo e la propria prestanza fisica con quella degli altri.
L’esame più impegnativo che Agostino è costretto ad affrontare per ottenere la “toga virile” è, però, quello della sfida a braccio di ferro, un gioco, certo, ma comunque inscritto in una dimensione di duello e sopraffazione dell’altro, che permette di attestare davanti a tutti la propria forza. Agostino non è, però, ancora pronto a entrare a far parte del gruppo dei “veri uomini” e così non solo viene sconfitto da Tortima, il capobanda e certamente il più violento, ma anche da tutti gli altri ragazzotti. La banda di Bagno Vespucci finisce per usare, dunque, l’ingenuo ragazzino come capro espiatorio, su cui misurare la propria forza e dare una facile dimostrazione della propria maschilità. Agostino diventa l’elemento sacrificale, l’anello debole – ma necessario – di una catena di sopraffazione, la vittima su cui proiettare le proprie pulsioni ottenendo, così, l’ordine e l’equilibrio interno del branco. L’ultima prova di virilità, che termina malamente al pari delle altre, consiste nella visita al bordello. Agostino tenta di entrarci perché crede che, una volta uscito da lì, sarà considerato da tutti – banda di pari, madre, società – finalmente un uomo. Al contrario del Tortima, tuttavia, non riesce ad attraversare la soglia iniziatica della camera da letto della casa di tolleranza e a far sesso con la prostituta – poiché ancora in “calzoni corti”, cioè troppo piccolo – restando così sospeso, a tempo indeterminato, in “questa sua sgraziata età di transizione”.
Chi, invece, al bordello ci entra eccome, portandosi addosso, per sempre, le conseguenze di questa scelta – o meglio costrizione, come vedremo – è Pino Barillari in “Una notte del ’43”, racconto contenuto nelle Cinque storie ferraresi di Giorgio Bassani. Il protagonista bassaniano è il proprietario di una storica farmacia di Ferrara che affaccia sulla strada in cui, nella notte del 15 novembre del 1943, si consumò l’eccidio fascista del castello Estense contro undici oppositori del regime. Da quel giorno, Barillari – rimasto paralizzato a causa della sifilide – passa le giornate alla finestra dell’appartamento sopra la farmacia, invitando i passanti che attraversano distrattamente quello spazio tragico ad avere rispetto. Attraverso un flashback, Bassani ci porta nelle pieghe della storia, a indagare la radice del male del fascismo e della malattia del protagonista. Nel 1922 (dunque, vent’anni prima i fatti della notte del ’43) il giovane Pino Barillari, di ritorno dalla Marcia su Roma, insieme ad altri giovani fascisti, è costretto dal capo Sciagura – pistola alla mano – a entrare in un bordello e a dimostrare la propria mascolinità facendo sesso con una prostituta davanti ai suoi occhi: “E allora lui, Sciagura, a un tratto si era trovato con la Mauser in pugno a puntarla sotto la gola del ragazzo. […] Ché se non si decideva a smetterla di piagnucolare e non entrava subito […] o se si fosse rifiutato di montare in camera con una puttana, altro che la sifilide avrebbe potuto prendersi, quella volta là! […] Era stato lui stesso ad accompagnarli di sopra, giusto per controllare che tutti e due compissero il loro dovere fino in fondo. E fortuna che Pino non si era opposto, […] perché in caso contrario, e con tanto di revolver spianato, sarebbe sul serio potuta succedere qualsiasi cosa”. È proprio a causa di questa estrema – e forzosa – prova di virilità che Pino Barillari si ammala: il sopruso degli altri uomini, che incarnano i valori fascisti, si allegorizza nella forma della sifilide, impedendo al protagonista di emanciparsi, di diventare adulto, di avere una moglie e dei figli. Ma, soprattutto, di far parte come soggetto autonomo della storia. “Una notte del ’43” è, infatti, anche e soprattutto il racconto dell’essersi compromessi col fascismo, dell’aver avuto, nella passività, un ruolo attivo. E così, alla fine si scopre che Pino Barillari – proprio quell’uomo che mette in guardia le persone che passeggiano sulla strada dell’eccidio – nella notte del ‘43, dal suo balcone, ha visto tutto: sa che dietro la tremenda strage c’è anche la responsabilità di Sciagura, ma preferisce non denunciare – non entrare nella Storia, appunto: del resto la sua è una voce inattendibile, la voce di chi non è mai diventato adulto.
L’ideale virile ha avuto un ruolo centrale nella formazione dell’idea di nazione e nella costruzione del fascismo soprattutto facendo presa sulle nuove generazioni. Il regime fascista comprese, fin da subito, la forza mobilitatrice ed evolutiva della giovinezza e costituì attorno a essa una potente retorica assecondando le pulsioni virili e vitalistiche, e invitando la “primavera di bellezza” a intervenire sul corso della Storia. Importante fu anche il ruolo attribuito alla sessualità e alla corporeità maschile, con una narrazione carnale portata fino all’ostentazione e alla teatralizzazione attraverso il corpo di Mussolini, riproposto ossessivamente da tutti i media, supporti e linguaggi espressivi. Per avere un esempio del modo mediante cui il regime fascista operò rispetto all’adolescenza e alla virilità basterà citare Amarcord di Federico Fellini, pellicola in cui troviamo una riflessione sul fascismo come perenne adolescenza, “stagione permanente della vita”, ove “subentra il rifiuto ad approfondire la propria relazione individuale con la vita”.
La letteratura e il cinema del Novecento hanno più volte riflettuto sulle modalità attraverso cui, durante l’adolescenza, vengono assunti e interiorizzati i caratteri più nocivi e pericolosi del modello di mascolinità patriarcale. Se, infatti, è fuori di dubbio che ai maschi venga imposto di dimostrare, fin da piccolissimi, la propria virilità attraverso atteggiamenti, parole ed azioni conformi al proprio sesso, altrettanto vero è che è soprattutto nell’età adolescenziale che tali comportamenti diventano, nel concreto, lo strumento di una precisa e soverchiante gerarchia di potere. È, cioè, in questa fase della vita che la naturale e ingenua adesione alle norme di genere proprie dell’età infantile – comportarsi da uomini e non da “femminucce”, vestirsi con abiti considerati maschili, praticare giochi e sport da maschi o nascondere i caratteri “femminili” della personalità – si trasforma in qualcosa di molto più grande: in una forma di “nobiltà”, un mezzo seducente e pericoloso che assicura ai maschi il riconoscimento come membri di un gruppo di status superiore.
È in questo senso che deve essere intesa la banda giovanile, quel gruppo di pari in realtà fortemente gerarchizzato all’interno e in cui l’ordine viene regolato da micropoteri forse poco visibili, ma molto efficaci. I ragazzi, infatti, apprendono presto a confrontarsi con la precarietà della virilità, a costruirsi il proprio guscio di protezione che li tenga al riparo dagli sguardi indiscreti e giudicanti degli altri appartenenti al gruppo e da una condizione de-virilizzata di debolezza e assenza di controllo. Molti giovani vivono il loro rapporto con il corpo e la sessualità in maniera problematica, impegnandosi scrupolosamente in pratiche e comportamenti di compensazione e di difesa che impediscano agli altri – soprattutto ai pari d’età – di vedere attraverso di loro, di scorgere la possibile presenza di segnali femminili nel loro comportamento. Per aderire a un modello tradizionale di mascolinità e accedere ai vantaggi sociali dell’essere uomini, sempre più adolescenti si addestrano all’aggressività, interiorizzano meccanismi di dominio e prevaricazione, si condannano a provare emozioni silenziose e a dare costanti esibizioni della loro potenza virile dinanzi a una impercettibile giuria di valutazione – rappresentata dalla banda, ma anche dai fratelli maggiori, pari d’età o compagni di scuola – pronta ad assegnare una “patente maschile” o a denunciare eventuali impostori di genere.
Il modello di mascolinità violenta è una modello che – se, in parte, assorbiamo fin dall’età infantile in famiglia in modalità spontanee – apprendiamo e consolidiamo soprattutto in adolescenza: vale a dire in quella fase di smarrimento esistenziale dovuto, da una parte, alla crescita e allo sviluppo sessuale e, dall’altro, all’ansia di definizione di una nuova personalità. Sostenerne ancora a lungo il peso non è semplice, soprattutto perché è già causa per le nuove generazioni di numerosi problemi come aggressività, autolesionismo e varie forme d’abuso di sostanze. Alla luce di questa cultura non si possono considerare i casi di violenza maschile ai danni delle donne come fossero degli eventi sporadici, fatti straordinari e privati. È necessario, come società, interrogarsi sul modello di maschilità che continuiamo a proporre alle nuove generazioni, provare a decostruire – attraverso dei percorsi di psicoterapia e interventi consapevoli nelle scuole, nelle famiglie, nelle comunità che si costruiscono intorno a spazi e ad attività – le dinamiche di potere di gruppo, smantellare quelle forme di violenza che mettono in realtà radice nella debolezza e nell’incertezza adolescenziale e che, giorno dopo giorno, inquinano il nostro presente.