Ricordate lo scontro finale de I ghostbusters? I quattro protagonisti si trovano in cima a un grattacielo di New York, di fronte a un portale che conduce a un’altra dimensione, presieduto da una divinità malvagia di nome Gozer. Abbozzano un tentativo di comunicazione, ma Gozer li attacca con dei fulmini. Allora passano alle maniere forti, sparando addosso al nemico dei raggi protonici. Credono di averlo neutralizzato, ma questo ricompare e gli pone un dilemma: il flagello che li distruggerà sta arrivando, loro dovranno soltanto scegliere la sua forma fisica. Sorpresi, gli eroi si rifiutano di rispondere, sforzandosi di non pensare a nulla. Purtroppo, a uno di loro viene in mente una figura grottesca, apparentemente innocua: “l’uomo della pubblicità dei marshmallow,” che si materializza come un gigantesco pupazzo di pasta di zucchero, che inizia a distruggere la metropoli.
Con le dovute proporzioni, la scena racconta più o meno fedelmente quello che dev’essere accaduto nella testa di Luigi di Maio e Matteo Salvini quando, sotto le pressioni – a dire il vero piuttosto blande – del presidente della Repubblica, e dopo 70 giorni di estenuanti trattative, si sono sentiti costretti a trovare una bozza di accordo per il primo governo a maggioranza populista della storia italiana. Il documento, che racconta i punti nodali di una possibile alleanza tra il Movimento 5 Stelle e la Lega, è stato fatto trapelare all’Huffington Post da qualcuno seduto in quel tavolo; sembra quasi un brutto scherzo, tanto è pieno di contraddizioni e passaggi grotteschi.
Il più clamoroso, che ha monopolizzato le prime pagine dei giornali e gran parte degli editoriali, è quello in cui si ipotizza la richiesta alla Banca Centrale Europea di cancellare i 250 miliardi di titoli di Stato italiani acquistati nel corso del Quantitative Easing, il piano di stimolo della nostra crescita tramite allentamento monetario. La notizia, nonostante sia stata smentita subito dal deputato e responsabile economico della Lega Claudio Borghi, è significativa, perché rivela come il ceto politico vincitore alle ultime elezioni politiche si sia scervellato su una trovata di puro avventurismo economico. Una proposta chiaramente impraticabile, non per chissà quale complotto dei “congiurati dello spread” (come li ha chiamati Alessandro Di Battista, pronto a raccontare l’America come inviato del Fatto Quotidiano, in un appello che esordiva con un «Pensate alla patria», scritto in maiuscolo), ma perché una remissione di debito a seguito di una richiesta del governo italiano si configurerebbe come una delle forme possibili del “default” che già incombe sul nostro Paese. Semplificando al massimo, se si condona il debito, perde il suo valore l’intero sistema monetario sul cui equilibrio si è fondata (non senza errori clamorosi) l’Unione Europea.
Poi è arrivata la versione più recente della bozza di contratto, quella che è stata già mostrata a un perplesso Mattarella. Qui si rimanda a una non meglio specificata “ridiscussione dei Trattati dell’UE e del quadro normativo principale”: è una formula, si sa, per dire tutto e niente, tanto che è stata rinfacciata anche al partito più di sinistra alle scorse elezioni, Potere al Popolo, dalle frange più euroscettiche dei movimenti. La sostanza resta la stessa: da una parte, il governo gialloverde chiederebbe la possibilità di uscire dall’Euro, contestando la politica monetaria e programmando di diminuire i contributi all’Ue; dall’altra, vorrebbe andare col cappello in mano da Mario Draghi (o dal suo successore) chiedendo il taglio del debito. C’è davvero del bipolarismo in tutto ciò, ma di tipo psichiatrico.
“Una proposta che rivela non solo un’idea sbagliata dei rapporti tra la Bce e i singoli governi, ma anche un’idea sbagliata del funzionamento delle autorità monetarie,” scrive Riccardo Sorrentino sul Sole 24 Ore. Il problema è che chi dovrebbe fare da controllore sta a guardare, o non sa cosa rispondere. Mercoledì mattina, su La 7, Armando Siri della Lega è riuscito a dire nella stessa intervista che il piano del suo partito non è quello di sfiorare il tetto del 3 per cento del rapporto debito/Pil, e che d’altronde i soldi che ci ha prestato Bce sono creati dal nulla e quindi, secondo lui, non sarebbe un problema stralciarli. Nessuno in studio si è ribellato, o anche semplicemente ha provato a offrire una lettura differente della realtà. Se questa è la capacità dei mass media italiani di offrire un dibattito degno dell’elettorato, si capisce come l’ondata gentista in questi anni non abbia trovato alcun frangiflutto.
Proviamo a prendere sul serio ciò che sentiamo: nella narrativa economica dei populisti, oggi imperante, un condono dei debiti è interpretato come un finanziamento monetario agli Stati. Ma un provvedimento del genere avrebbe senso se a valle si innestasse un comportamento virtuoso, se ci fosse davvero la volontà (e la credibilità) di ripensare la macchina burocratica dello Stato. E invece, nonostante le percentuali sorprendenti prese al Sud, il M5S non fa menzione della questione meridionale nel programma, mentre la Lega, sorpassato Berlusconi un po’ ovunque al nord, si riduce a chiedere l’elemosina all’Europa come un sindaco democristiano qualsiasi negli anni Ottanta. L’amara verità è che si è sempre terroni di qualcun altro. Ma che ci venga concesso tutto ciò, con il miraggio del “moltiplicatore keynesiano” (più crescita grazie al costante aumento della spesa pubblica, pensioni e reddito di cittadinanza) mentre contestualmente si abbassano le entrate (flax tax) è impossibile.
Per quanto assurdo possa sembrare, una scommessa del genere, con un ceto politico così poco competente, potrebbe avere delle ripercussioni ancora più neoliberiste sulla nostra economia, se non una cessione ancora maggiore di sovranità del Paese. Così come il sindaco Luigi De Magistris, la cui demagogia tocca i livelli di un politico venezuelano, che dopo tanti proclami rivoluzionari si è ritrovato a mettere all’asta mezza città pur di non mettere mano all’inefficienza della macchina comunale, in Italia rischiamo di ritrovarci con la famosa vendita del Colosseo in puro Totò-style. Paradossalmente il Paese potrebbe essere chiamato a un’austerità ancora più brutale di quella già sperimentata. E come la si potrebbe mettere in pratica, se non lasciando allo Stato unicamente il compito di disciplinare e reprimere?
Il punto è che, vedete, noi ci sforziamo anche di non considerare l’affidabilità economica come l’unico tratto imprescindibile di un sano programma di governo. Ma dovremmo con onestà renderci conto che tutto il resto della bozza di contratto è perfettamente coerente con gli umori dell’elettorato espressi dal voto del 4 marzo: la nostra è una società che non reagisce di fronte a piazze che si riempiono di millenaristi anti-vaccini. Punizioni più severe per i furti, gli scippi, le rapine, le truffe e, a furor di popolo, il Daspo per i “corrotti”, perché non fa mai male un po’ di gogna: la tortura, purtroppo, quella non si può ancora reintrodurre. E poi, ovviamente, costruire nuove prigioni, assumere più poliziotti, assicurare la legittima difesa senza limiti, ricorrere più spesso alle intercettazioni (vecchia fissa del pm grillino Nino Di Matteo, il più applaudito al meeting di Ivrea); ampliare ancora di più la prescrizione, in modo che si possano avviare processi pure per reati commessi al tempo di Italia ‘90. Nel contratto di governo si prevede inoltre (al punto 12 del programma) che il diritto alla protezione dei rifugiati debba venire, pensate, dal Paese d’origine: immaginate un dittatore eritreo, il cui partito condanna a morte gli omosessuali e incarcera i giornalisti, che chieda la tutela di chi fugge dal suo Paese. Un piano così ci consegnerebbe direttamente al commissariamento da parte dell’Ue, ma in fondo non è l’Ue il nemico da abbattere?
Pensate, poi, all’idea di un “comitato di riconciliazione” in sede al governo, che sembra uscita dall’epoca dei golpe africani degli anni Sessanta, e viene confermata anche nell’ultima bozza di contratto. Trattasi di un comitato-ombra, legittimato ad avere diritto di veto sulle decisioni degli eletti. A un certo punto, nel programma, si indica la necessità di “Introdurre espressamente il vincolo di mandato popolare per i parlamentari, per rimediare al sempre più crescente fenomeno del trasformismo.” È l’idea di trasformare i parlamentari in avvocati o agenti, piuttosto che di rappresentanti dell’interesse generale. Sarà anche la trovata più pericolosa e agghiacciante di tutto l’accordo, ma non è una novità: è stata già messa in pratica, de facto, a Roma, con l’ambiguo concetto di “staff” di Virginia Raggi. Nella sostanza, si decide di imporre contratti vincolanti e un sistema pervasivo di controllo dei membri di partito, sotto la supervisione di una srl controllata con soli 300 euro di capitale da un imprenditore, Davide Casaleggio, il “Garantito per discendenza diretta”. Mi sembra tutto molto coerente.
Quello che più preoccupa è che di fronte a una proposta di intenti surreale che si misura con contraddizioni reali, interpretandole con l’unica voce credibile in questo Paese (quella della destra reazionaria), molti a sinistra sono tentati dal prendersela con chi invoca ragione e responsabilità. Quasi che qualunque richiamo alla realtà debba essere confuso con un richiamo all’ordine, in senso repressivo nei confronti dei lavoratori, dei pensionati, degli studenti e dei più deboli.
È una balla clamorosa. Dobbiamo smettere di considerare la menzogna ripetuta e conclamata, la presa in giro sistematica dell’elettorato e l’arroganza populista come possibili declinazioni dell’utopia socialista: proporre un programma concettualmente violento e incoerente non è una tradizione di sinistra “rubata” dalla destra, non ha nulla a che fare con le velleità anarchiche dei nostri anni Settanta che andavano di pari passo con lo studio rigoroso dello sfruttamento del nostro Paese. È una riproposizione nefasta dell’eterno fascismo borghese italiano, in unione a una struttura organizzativa radicalmente nuova, che si poggia sulle possibilità offerte dalla tecnologia, dalla disintermediazione, dal crollo dei referenti giornalistici tradizionali.
È indubitabile – come fa notare anche il Financial Times nel vituperato articolo sulla “calata dei barbari”, da cui è stato estrapolato soltanto il titolo – che la legittimazione della maggioranza grilloleghista derivi da 20 anni di cattiva politica, dalla stagnazione triste della Seconda Repubblica. Così come è vero che l’intervento dei dirigenti della Commissione Europea durante la trattativa politica tra i due partiti rischia di rafforzare, in molta parte dell’elettorato, la percezione di un’Europa “distante, burocratica, verticistica”, come fa notare l’esperto di comunicazione politica Dino Amenduni.
Ma ci vuole davvero una considerevole faccia tosta, e malizia, per considerare l’intervento dell’Ue e la sinistra responsabile come l’unica forma che potrà prendere la minaccia fascista nel nostro Paese. Semmai, la confusione, il contenuto tribalista, cupo, paranoico della bozza di contratto, che più d’ogni altro programma della storia repubblicana riflette con esattezza l’umore degli italiani, ci ricorda ancora una volta come il “senso comune” collettivo sia un incubo dal quale fuggire, e non un’utopia alla quale aspirare.
D’altro canto, se qualcuno fosse convinto sul serio che il voto del 4 marzo sia stato soltanto espressione dei subalterni alla riscossa; che la radicata cultura razzista non c’entri nulla; che non c’entrino nemmeno i “giornaloni” e le trasmissioni tv che, per salvarsi dal declino, hanno sdoganato per anni gli abbaiatori di professione; che la chiave di volta del nostro malessere sia soltanto la gabbia del debito pubblico, che valesse la pena auspicare la cancellazione del Partito Democratico e della “sinistra tradizionale” senza alcun contrappeso; che la bestia nera dell’Uomo sia l’Europa; beh, allora, non capisco proprio perché non debba piacergli questo mostro.
Qualunque forma prenderà, l’accordo di governo M5S-Lega sarà l’uomo della pubblicità di Marshmallow di ogni fantasia sovranista all’italiana: una poltiglia impraticabile in economia, autoritaria, poliziesca e repressiva in materia di ordine pubblico e giustizia, “supercazzola” in tutto il resto. Questa è la società che l’ha generato, cercando di pensare a cose innocue; a qualcosa che si è amato nell’infanzia, a qualcosa che non avrebbe mai portato distruzione: “al pupazzo dei boli di lichene,” come dice uno dei protagonisti di Ghosbusters. Gran bella pensata.
Non ci resta che sperare davvero nell’intervento di un deus ex machina– George Soros, magari? – che ci salvi dalla trappola nichilista. O, più realisticamente, che lo spettacolo a cui stiamo assistendo sia l’ennesimo diversivo per provare qualche altra combinazione alchemica tra partiti, e rimandare ancora una volta la resa dei conti con le proprie menzogne. Eppure qualcuno continuerà a pensare che non c’era niente di più soffice, e dolce, di quei “candidi gnocchi di lichene.” Che, tra parentesi, sono pure un’invenzione del doppiatore italiano.