Alla diciottesima settimana di gravidanza, Amanda Zurawski, una donna di Austin, si accorge che qualcosa non sta andando nel modo giusto. Ha delle perdite molto abbondanti e sente una strana pressione nella zona pelvica. Va al pronto soccorso e scopre di avere un’insufficienza cervicale, ovvero il suo collo dell’utero non riesce a rimanere chiuso, cosa che ha danneggiato il feto e non le consente di portare a termine la gravidanza. Amanda era riuscita a rimanere incinta dopo un percorso di procreazione assistita durato un anno e mezzo. Ora le opzioni sono due: le condizioni della sua futura figlia sono così compromesse che potrebbe morire mentre è ancora nell’utero, causandole una potenziale infezione, o subito dopo il parto, ma non c’è modo di saperlo. Se Amanda fosse vissuta in uno dei 75 Paesi al mondo in cui interrompere una gravidanza è legale, avrebbe potuto mettere fine a questa difficile situazione con un aborto terapeutico, ma Amanda Zurawski vive in Texas, dove da agosto del 2022 è in vigore una legge che impedisce di abortire nel momento in cui è percepibile il battito fetale – che non è garanzia di vita autonoma del feto – e che consente ai medici di intervenire solo in caso di pericolo di vita della donna.
“È stata la versione più orribile di una sfida in cui non puoi far altro che aspettare: quale sarà la vita che finirà per prima? La mia o quella di mia figlia?”, ha raccontato Amanda in un articolo per The Meteor. Amanda dovrebbe guidare per otto ore per raggiungere la clinica abortiva più vicina, in uno stato in cui, anche dopo il ribaltamento della sentenza Roe v. Wade da parte della Corte Suprema, è ancora consentito interrompere una gravidanza, ma non se la sente di rischiare di avere un aborto spontaneo nel mezzo del deserto. Dopo soli tre giorni da questa diagnosi, Amanda infatti va in sepsi e viene ricoverata in un ospedale di Austin, ma dovrà aspettare altri tre giorni prima che il suo stato venga dichiarato abbastanza a rischio per permettere ai dottori di intervenire senza finire in carcere. Amanda rischia quindi di morire e i danni che l’intervento causa al suo utero potrebbero portarla definitivamente alla sterilità.
Amanda Zurawski è una delle cinque donne che hanno denunciato lo stato del Texas per averle messe in pericolo di vita, negando loro un aborto terapeutico. Sono tutte donne sposate e già madri che non avevano intenzione di interrompere volontariamente la gravidanza, ma che a causa dei divieti sull’aborto introdotti lo scorso anno hanno rischiato di morire. I divieti sull’aborto dopo la Roe v. Wade hanno avuto conseguenze negative sulla salute femminile che vanno ben oltre le procedure dell’aborto volontario. È ormai noto, infatti, che la criminalizzazione dell’aborto comporti notevoli rischi per le donne, ma spesso si sottovalutano le conseguenze ad ampio spettro sulla salute femminile.
I divieti di aborto mettono in pericolo tutte le donne, non soltanto quelle che scelgono di abortire. Negli Stati Uniti si è osservato un vertiginoso aumento della mortalità materna e infantile negli Stati in cui sono state introdotte restrizioni sull’aborto. In questi luoghi, i tassi di morte durante il parto sarebbero più alti del 62% rispetto agli Stati in cui l’aborto è ancora legale. Questi numeri così elevati si spiegano da un lato con l’abbassamento dell’età media delle gestanti (il 57% delle morti si registra tra le donne con meno di 30 anni), dall’altro con l’assenza di strutture sanitarie attrezzate per le cure ginecologiche. Anche se i tassi di mortalità materna negli Stati Uniti sono in aumento da diversi anni, la sentenza Dobbs ha avuto un impatto negativo sulle strutture sanitarie: il personale non vuole lavorare in luoghi in cui il confine tra ciò che è legale e illegale in materia di aborto è labile e arbitrario e vuole evitare di trovarsi fra le mani casi come quello di Amanda Zurawski, per i quali rischia di essere incriminato. È stato dimostrato come nei Paesi in cui l’aborto è illegale i medici e i ginecologici siano meno preparati e aggiornati. Gli specializzandi, inoltre, hanno meno opportunità di imparare tecniche come il raschiamento, che sono necessarie non solo in caso di interruzione di gravidanza.
Un’altra conseguenza indiretta delle restrizioni dell’aborto riguarda la disponibilità dei farmaci che hanno tra gli effetti collaterali l’aborto o le malformazioni fetali. Si tratta di medicinali contro il cancro e alcune malattie autoimmuni, come il metotrexato, l’isotretinoina, alcuni anticonvulsionanti e in particolare il mifepristone e il misoprostolo, autorizzati anche per l’aborto farmacologico. Secondo il Washington Post, “dottori e farmacisti in una dozzina di Stati con forti restrizioni sull’aborto si trovano improvvisamente a ponderare se ordinare o meno questi farmaci, perché potrebbero essere incriminati o perdere la loro licenza per averli prescritti a donne incinte”. Le pazienti con l’artrite reumatoide – una malattia che colpisce più frequentemente le donne – stanno quindi avendo difficoltà a reperire i farmaci per trattare la loro malattia.
Sempre in Texas, cinque associazioni di medici antiabortisti hanno intentato una causa contro la Food and Drugs Administration (Fda), che nel 2000 autorizzò il mifepristone. Nonostante i divieti sull’aborto, infatti, è ancora possibile ricorrere all’aborto farmacologico, in quanto i singoli Stati non hanno il potere di revocare un farmaco regolarmente autorizzato dalla Fda. Al momento, più della metà degli aborti che si svolgono negli Stati Uniti sono svolti con il metodo farmacologico, nonostante le barriere introdotte in diversi Stati, come il divieto di spedire la RU486 per posta. Secondo gli esperti la causa contro il mifepristone, sostenuta dalla stessa lobby che ha fornito il patrocinio legale della sentenza Dobbs, poggia su basi poco solide, ma il giudice federale del Texas Matthew Kacsmaryk, nominato da Trump, è fortemente conservatore e in passato ha già emesso sentenze contro la contraccezione di emergenza. Non è mai successo che un tribunale ordini alla Fda la revoca di un farmaco e ancora non si conoscono le conseguenze di una tale eventualità, ma si teme che una sentenza del genere possa portare al divieto di altri farmaci.
Secondo un report dell’American Society for Reproductive Medicine, il divieto di aborto potrebbe avere un impatto negativo anche sulla fecondazione medicalmente assistita. “Sebbene la maggior parte delle leggi sull’aborto si applichino nel contesto della gravidanza, molte delle leggi statali includono definizioni che affermano che lo status di persona cominci dal concepimento”, si legge nel rapporto. “Un linguaggio e definizioni legali eccessivamente ampi potrebbero, intenzionalmente o meno, implicare e persino vietare la fecondazione in vitro e alcune delle altre procedure di fecondazione assistita”. Il timore principale è che se si affermasse l’interpretazione secondo cui anche lo zigote è una persona, una clinica o un medico potrebbero subire conseguenze legali a fronte di un danno accidentale in laboratorio e sarebbero molto limitati nel proprio lavoro. Questo, secondo l’American Society for Reproductive Medicine, potrebbe peggiorare l’accessibilità e la qualità della fecondazione assistita.
La preoccupazione principale riguarda però la contraccezione. Nonostante la pillola del giorno dopo non sia un farmaco abortivo, ma contraccettivo, diversi Stati l’hanno già presa di mira. A dicembre dello scorso anno, l’Fda ha imposto alla casa farmaceutica che produce una delle pillole più vendute negli Stati Uniti, la Plan B One-Step, di eliminare dal foglietto illustrativo una frase che riportava che la pillola del giorno dopo può impedire l’impianto di un ovocita già fertilizzato, considerandola un’inesattezza. Ovviamente, questo farmaco, che sospende l’ovulazione non ha effetti su un’eventuale gravidanza in stato avanzato, ma solo nei primi giorni di attivazione del processo, in cui avviene la fecondazione e l’annidamento dell’ovulo. Ma proprio questa imprecisione nel bugiardino ha consentito a gruppi e legislatori antiabortisti di ostacolarne la vendita in accordo con le leggi sull’aborto. Secondo il Guttmacher Institute, un istituto di ricerca che si occupa di diritti riproduttivi, nove stati hanno introdotto delle restrizioni alla contraccezione di emergenza, per esempio eliminando la possibilità di accedervi tramite i programmi statali di pianificazione familiare o prevedendo l’obiezione di coscienza per i farmacisti.
In Idaho, dove c’è una delle leggi più restrittive sull’aborto, le università pubbliche hanno vietato al loro personale di parlare pubblicamente di aborto o di consigliare metodi contraccettivi agli studenti. Farlo potrebbe infatti violare il No Public Funds for Abortion Act, approvato dallo stato nel 2021, e costituire un reato. L’Università dell’Idaho ha quindi deciso di non fornire più qualsiasi tipo di contraccettivo agli studenti, che prima potevano rivolgersi ai medici presenti nei campus.
La vendita dei contraccettivi, negli Stati Uniti, è stata liberalizzata nel 1965 grazie a una sentenza della Corte suprema, la Griswold v. Connecticut. Nella sua relazione sul ribaltamento della Roe v. Wade, il giudice della Corte Clarence Thomas aveva scritto che le prossime sentenze da rivedere sarebbero state la Lawrence (sulla depenalizzazione della sodomia, nel 2003), la Obergefell (sul matrimonio egualitario, nel 2015) e proprio la Griswold. Queste tre sentenze si basano infatti sullo stesso diritto alla privacy che sosteneva anche la Roe v. Wade e che con la decisione dello scorso giugno è stato messo fortemente in discussione. Molti esperti sono convinti che la prossima mossa degli antiabortisti con posizioni più estreme sarà proprio l’attacco alla contraccezione in ogni sua forma. Anche se questa può sembrare un’eventualità remota o addirittura impossibile, solo qualche anno fa nessuno avrebbe mai immaginato che gli Stati Uniti avrebbero presto fatto compagnia a quei Paesi tanto illiberali da non permettere alle donne di decidere sul proprio corpo.