Martina Evatore ha vent’anni e l’11 luglio, durante il concorso di Miss Venice Beach, si è presentata sulla passerella con gli stessi abiti che indossava il giorno in cui tre anni fa tentarono di violentarla. Pantaloni neri lunghi, sneakers bianche e t-shirt. Lo ha fatto perché anche a lei qualcuno ha detto “vestita così te la sei cercata”. Se infatti, per fortuna, la maggior parte delle persone ritengono che una frase simile sia abominevole anche soltanto da pensare, è tristemente noto che per molti altri non sia affatto così, tant’è che non si fanno remore quando lo affermano nelle televisioni e nelle aule dei tribunali. L’accaduto ha suscitato scalpore e riempito in poco tempo i social e la programmazione televisiva del pomeriggio di storie indignate che raccontano di quanto spesso donne che stanno semplicemente rientrando a casa dal lavoro o passeggiando con il cane vengano molestate o stuprate pur non indossando tacchi a spillo, magliette bagnate e tutine in latex, che comunque non giustificherebbero un’aggressione.
Non è la prima volta che a una donna viene imputata la colpa di uno stupro subito a causa del modo in cui veste o in cui si comporta. E non è nemmeno la prima volta che si tenta di smontare questa subdola convinzione – finora, purtroppo, senza grossi risultati. Poco tempo fa, per esempio, ha fatto clamore la notizia della sentenza emanata dai giudici della Corte d’Appello di Torino che hanno ribaltato la sentenza in primo grado di un uomo colpevole di aver violentato una conoscente nel bagno del locale nel quale si trovavano a trascorrere una serata perché, secondo quanto sostenuto dai giudici, la donna avendo lasciato la porta socchiusa, avrebbe fatto insorgere nell’uomo l’idea che “l’occasione fosse propizia”. Probabilmente avrete sentito parlare di Come eri vestita? (versione italiana nata sulla scia del progetto statunitense What Were You Wearing?), la mostra che esibisce abiti di vittime di stupro per dimostrare che la violenza sessuale non dipende da ciò che si indossa. Il titolo si riferisce proprio alla domanda che, come è successo a Evatore, le vittime di stupro continuano a sentirsi ripetere. Le loro storie sono state inizialmente raccolte da un gruppo di studenti dell’Università dell’Arkansas e dal 2013 l’installazione è stata presentata in varie scuole e università, fino ad arrivare in Italia. Tute da ginnastica e pigiami scoloriti raccontano una verità semplice e dolorosa: lo stupro non ha nulla a che vedere con la provocazione. Come spiegato dagli organizzatori stessi, in questo caso, infatti, l’intento della mostra è proprio quello di dimostrare l’irragionevolezza e l’infondatezza di questo tipo di pregiudizi, che invece di accusare i colpevoli fanno ricadere la colpa sulle vittime.
In un Paese realmente civile non avremmo bisogno di questo genere di iniziative necessarie a sensibilizzare l’opinione pubblica, perché la società sarebbe già educata a riguardo. La responsabilità di una violenza è solo di chi la compie e non di chi la subisce, a prescindere da quello che indossa e su questo non dovremmo accettare nessun relativismo. Lo stupro subito da una donna in tuta non dovrebbe sorprenderci, così come non ci dovrebbe sembrare “più grave” o “ingiustificato” dello stupro di una donna con una gonna corta. La mentalità da cui hanno origine queste valutazioni è la stessa che incolpa le donne ubriache quando vengono abusate, come se se lo fossero andate a cercare, come se avessero meno diritti degli uomini di lasciarsi andare e assumere sostanze, perché non sanno cosa potrebbe succedere loro in quel caso, magari qualcosa di brutto.
Eppure, si continua a chiedere alle donne in modo più o meno esplicito di dimostrare di non essere state “complici” di quanto subito. Le vite intime delle vittime di stupro che trovano il coraggio di denunciare vengono passate al setaccio dalle istituzioni – e a volte anche dai media – che sembrano indagare di più sulle loro abitudini, sulla loro sessualità, sulle loro relazioni, che su quelle dell’accusato, in cerca di qualcosa che possa aiutare a stabilire e a valutare la gravità della violenza. È curioso constatare come sistematicamente questo atteggiamento comprensivo scompaia per lasciare spazio a un certo “scetticismo” di fondo quando a essere stuprata è una donna che balla, beve, assume droghe e magari si diverte mentre è a una festa o in discoteca. D’altronde, non bisogna andare troppo indietro nel tempo per avere contezza di come vengono trattate le donne quando subiscono stupri in questo genere di contesti e situazioni. Quando Martina Facchini e Ylenia Demeo l’anno scorso hanno denunciato Alberto Genovese per averle stuprate, seviziate, drogate e segregate per ore, durante un party vip su una terrazza di Milano, l’opinione pubblica non è stata per niente indulgente nei loro confronti, né ci sono state immediatamente prese di posizioni e condanne nette. La vicenda, anzi, ha dato avvio a un circo mediatico di victim blaming a reti unificate fra chi sosteneva che le ragazze fossero state delle sprovvedute e chi condannava lo stupro. Di sicuro abbiamo buone ragioni per credere che in quell’occasione se Facchini e Demeo fossero state aggredite e stuprate mentre portavano fuori la spazzatura, Vittorio Feltri non avrebbe probabilmente mai espresso ammirazione per lo stupratore che è riuscito “a scopare per 20 ore di fila”.
Le donne sono costantemente bersaglio di molteplici declinazioni della violenza – quella istituzionale, quella familiare, quella di genere – e la società non fa altro che sommare a queste l’imposizione di doverle subire passivamente, attraverso narrazioni e messaggi fuorvianti e utilizzando due pesi e due misure quando giudica, commenta e analizza gli stupri. Ma uno stupro è uno stupro. Non esistono stupri di serie A e di serie B ed è necessario distruggere una volta per tutte gli stereotipi culturali alla radice di questo problema. Lo stupro è reato, oltre che un atto di prevaricazione che lede un diritto umano e che quindi dovrebbe essere condannato a prescindere, senza sentire il bisogno di aggiungere dettagli o specifiche condizioni secondo cui valutarne il peso ontologico. Il problema della violenza è profondo e strutturale e riguarda in gran parte anche la narrazione e la rappresentazione che se ne fa. Ma la violenza è violenza, anche se assume mille forme diverse.
Opinioni, particolari irrilevanti e pregiudizi non devono trovare più spazio nella rappresentazione e nella narrazione delle violenze sessuali. Abbiamo bisogno di ricevere un’educazione specifica e attenta rispetto al concetto di autodeterminazione o non sarà mai davvero chiaro a tutti che il fatto di andare in giro vestite come vogliamo, di comportarci come vogliamo e di parlare e agire come meglio crediamo senza che nessuno ci stupri, ci molesti o ci uccida non è una questione barattabile e non è neanche un compromesso che abbiamo raggiunto con la società perché ci siamo comportate bene. Ci è dovuto, è un nostro diritto. E se viene violato deve essere punito.