L’8 marzo non è la “festa” della donna. Si chiama così solo in Italia. La “Giornata internazionale della donna” – questo il suo vero nome – è nata in ambito socialista, dedicata in origine alle battaglie di cui le donne furono protagoniste all’inizio del Novecento. Aveva un potente significato sociale e politico di opposizione al potere: la cultura pop degli ultimi decenni, invece, l’ha completamente disperso. Nel corso degli anni la festa della donna italiana è diventata una stucchevole liturgia a cadenza annuale in cui le donne vengono omaggiate con fiori e cioccolatini. O in cui si concedono serate di “libera uscita”, scimmiottando le modalità predatorie maschili. Da femminista convinto parlare male dell’8 marzo mi inquieta, perché le donne, nel nostro Paese, se la passano ancora incredibilmente male. Non tanto sulla carta, a livello di diritti o di parità giuridica; è nei fatti, nel concreto delle relazioni, che il rispetto è merce rara e i crimini contro le donne si susseguono con un ritmo preoccupante.
È interessante osservare in che modo la cultura italiana si sia impadronita di questa ricorrenza. Di “Giornata internazionale della donna” si iniziò a parlare al congresso socialista del 1907, a cui partecipavano i più importanti marxisti dell’epoca, tra cui Lenin e Rosa Luxemburg. Parallelamente alle prime proposte delle militanti anticapitaliste, nel 1909 nacque negli Stati Uniti, per volontà del partito socialista americano, il Woman’s Day; fu però poi soprattutto la Russia a fare da propulsore alla celebrazione: l’8 marzo 1917 le donne di San Pietroburgo dichiararono sciopero e organizzarono una grande manifestazione per chiedere la fine della guerra e ottenere il ritorno dei loro uomini in patria. Quella giornata ebbe un effetto esplosivo, dando vita a una serie di ulteriori manifestazioni: viene infatti considerata l’inizio della Rivoluzione russa di febbraio che portò alla caduta dello zar.
Inizialmente l’8 marzo russo diventò la “Giornata internazionale dell’operaia”, fino a trasformarsi, anche in seguito al pronunciamento dell’Onu del 1975, nel Giornata internazionale della donna –occasione per ricordare tutti quei momenti in cui le donne avevano capito come organizzarsi per inserirsi nelle dinamiche politiche, modificandole. Eppure quest’origine storica è stata occultata nel corso del tempo dalle versioni alternative, più o meno fantasiose, che i media hanno preso a diffondere.
In particolare, la più celebre è quella secondo la quale l’8 marzo sarebbe di fatto una commemorazione funebre: in quella data, secondo alcuni, si sarebbe verificato un incendio in una fabbrica di camicie di New York, che avrebbe provocato la morte di 123 donne – soprattutto immigrate, italiane ed ebree. L’incendio è avvenuto davvero, ma non in quella data: la fabbrica Triangle è andata in fiamme il 25 marzo 1911. Questo errore storico ha avuto molta fortuna e tuttora capita di sentirla citare, innanzitutto perché negli anni della Guerra Fredda ha permesso all’Occidente di scollegare l’8 marzo dalle sue origini russe e comuniste, e poi perché si accorda bene con la tendenza diffusa a vedere le donne più come vittime che come protagoniste. Quella giornata è nata per celebrare il potere e l’iniziativa femminile, non per commemorare delle morti. Eppure la narrazione delle vittime sacrificali nell’immaginario collettivo ha prevalso. Ingiustamente.
In Italia i primi tentativi di introdurre un giorno dedicato alla donna risalgono al 1922, ma è solo dopo il ’45, con la fine della guerra, che effettivamente la giornata è stata fissata sul calendario delle ricorrenze. A chiederne l’introduzione è l’UDI (Unione Donne in Italia), formato da militanti del PCI, del PSI, del Partito d’Azione e della Sinistra Cristiana. La prima volta che viene celebrata in tutta Italia è l’8 marzo del 1946. Nel mondo la Giornata della donna si festeggiava già da decenni: noi l’abbiamo importata in ritardo e ribattezzata “festa”. Una conquista tardiva che nel giro di poco è stata trasfigurata in una ricorrenza commerciale svuotata di senso. Eppure anche da noi quella data all’inizio è stato un giorno di lotte e rivendicazioni. Era così negli anni ’50, quando distribuire la mimosa era ritenuto un gesto che “turbava l’ordine pubblico” e i banchetti delle militanti venivano denunciati per “occupazione del suolo pubblico”. È stato così almeno fino al femminismo degli anni ’70: l’8 marzo 1972 a Roma, in piazza Campo de’ Fiori, si tenne una famosa manifestazione femminista. Jane Fonda lesse un discorso di fronte alla polizia pronta a intervenire: i cartelli delle manifestati chiedevano la legalizzazione dell’aborto e la liberalizzazione dell’omosessualità. Erano ritenuti intollerabili. Gli agenti caricarono e presero a manganellate le femministe, disperdendole e ferendone diverse. Quella giornata era ancora un evento dirompente, qualcosa che si metteva di traverso rispetto allo status quo. Poi, cos’è successo?
L’8 marzo rende evidente la separazione delle donne dal potere: si celebra il femminile evidenziandone la sua posizione laterale rispetto al mainstream dell’umanità. Viene confermata la narrazione tradizionale che sistematicamente cerca di ridurre le donne a bambole, ancelle, angeli del focolare. Per la cultura italiana, le donne anche a 70 anni possono essere trattate come soprammobili: sempre un po’ mamme, nonne o zie anche se sconosciute, la festa delle donne le abbraccia tutte come idoli recintati nel presepe dell’ipocrisia. Durante l’8 marzo, le nostre madonnine vengono celebrate rimarcando la loro estraneità a una quotidianità fatta di uomini che lavorano (meglio), guadagnano (di più) e gestiscono il potere. Quegli uomini che l’8 marzo – se si ricordano – hanno la straordinaria possibilità di omaggiare le donne della loro vita, ringraziandole per i loro servigi.
Uno dei tanti post commerciali dedicati all’8 marzo in cui mi imbatto mentre scrivo questo articolo, inizia così: “Se vi dicessimo di pensare a una cosa bella ma non costruita, semplice ma non superficiale, splendente ma non appariscente, dal profumo delicato ma al tempo stesso intenso, cosa vi verrebbe in mente? Un fiore certo.” Si parla della mimosa, scelta sin dagli anni ’40 come simbolo italiano dell’8 marzo. La scelta pare sia stata fatta dalle stesse militanti dell’UDI, perché è un fiore fragile ma forte, che cresce anche in terreni difficili. Ma è un po’ una beffa che le militanti comuniste e socialiste abbiano scelto proprio un fiore che, una volta reciso, dura pochissimo, un po’ come come gli effetti dell’8 marzo. Subito prende a sfaldarsi, fa cattivo odore e imbratta tutto con la sua polvere gialla: ce ne si vuole liberare in fretta.
La trasformazione dell’8 marzo è la tessera complementare del puzzle patriarcale. Continuare a considerare le donne delle presenze eccezionali, qualcosa da destinare al piedistallo o a cui porgere semplicemente fiori – mentre intorno tutto crolla – non fa che alimentare il fraintendimento che è alla base anche delle discriminazioni e delle gerarchie. Quel che abbiamo fatto di questa giornata la dice lunga sullo strapotere del sessismo italiano – e del sessismo in generale, le cui forme evolvono e si fanno sempre più raffinate. Ogni anno, l’8 marzo, il maschilismo rinnova il suo inganno: da una parte si resta attaccati, alla routine, all’occasione commerciale, alla farsa; dall’altra, agli scioperi e ai cortei. Sembrerebbe che, almeno in Italia, il patriarcato insomma sia davvero immortale e la festa della donna, con tutta la sua disarmata retorica, non faccia che ribadirlo.
Foto di copertina di Luisa Festa (da Archivio delle memorie delle donne di Napoli)