È il 31 agosto quando, alla festa del Fatto Quotidiano a Marina di Pietrasanta, va in scena un vero e proprio spettacolo di contorsionismo politico. L’ospite sul palco, Giancarlo Giorgetti, non è soltanto il sottosegretario di Stato del governo gialloverde: è il numero due della Lega, il braccio destro di Salvini, il factotum del Carroccio. La platea, prevalentemente a trazione grillina – cosa non del tutto sorprendente considerando la sempre più palese sovrapposizione della linea editoriale della testata con quella politica del Movimento – si trova davanti un uomo che fino a qualche mese fa era un acerrimo nemico, mentre ora è un alleato di governo. La gente ascolta con curiosità e smarrimento le risposte che Giorgetti dà a Peter Gomez, che prova a incalzarlo su svariati argomenti. Tra i più spinosi c’è quello che riguarda i 49 milioni di euro. Non serve specificare quali: la gente in platea, così come il resto degli italiani, sa già tutto. Conoscono bene quel numero, che non è 50 e nemmeno 48. Giorgetti si schiarisce la voce e ammette: “Nel caso di conferma della sentenza, se tutti i successivi e futuri proventi che arrivano nelle casse del partito vengono sequestrati, è evidente a quel punto che il partito non può esistere, perché non ha più soldi.”
Ieri il tribunale di Genova si è pronunciato sul caso: il ricorso è stato accolto, i fondi vanno sequestrati. E se in un altro Paese il governo avrebbe quantomeno vacillato, in Italia, probabilmente questa vicenda farà aumentare i consensi di Matteo Salvini. Lo scorso anno, lo stesso Tribunale aveva condannato in primo grado il fondatore della Lega Umberto Bossi a 2 anni e 6 mesi, e l’ex tesoriere del partito, Francesco Belsito, a 4 anni e 10 mesi per truffa ai danni dello Stato. L’inchiesta riguardava i rimborsi elettorali ricevuti dalla Lega (allora “Nord”) tra il 2008 e il 2010, che erano stati trasferiti all’estero e utilizzati per scopi personali, come acquistare diamanti o finanziare svariate attività. Tradotto: li avevano rubati agli italiani. Oggi, di fatto, sono spariti nel nulla.
Da quando è uscita la vicenda, Matteo Salvini ha tentato in tutti i modi di fare lo gnorri: “Sono soldi di 10 anni fa, io non li ho mai visti.” D’altronde, il leader leghista pone in primo piano la sua personale palingenesi politica: allontanarsi dal nerbo della vecchia Lega, ovvero estinguere la stagione degli insulti ai meridionali e dell’oltraggio al tricolore, depennando tutto il folklore padano. In fondo, ci sta quasi riuscendo visto che non sembra così scontato per le persone – specialmente tra gli elettori del Carroccio – associare la truffa dei 49 milioni all’attuale segretario. Ma ci sono alcuni piccoli particolari: Salvini è nel partito dal 1993 e nel periodo 2008-2010 ricopriva già ruoli di spicco, tra cui quello di parlamentare per la Camera dei deputati e l’Europarlamento. Ma soprattutto, lui stesso ha usato quel denaro per finanziare la sua campagna elettorale.
Tra la fine del 2011 e il 2014 infatti, Maroni prima e Salvini poi hanno incassato i rimborsi elettorali frutto del reato commesso dal predecessore. I registri contabili del partito, come documenta L’Espresso, parlano chiaro: 820mila euro percepiti dai fondi delle regionali del 2010. Poi, Salvini e compagni si sono costituiti parte civile contro i vecchi colleghi di partito, per ripulirsi la coscienza ma soprattutto l’immagine. Peccato che si sia trattato solo di una facciata: dopo soli venti giorni Salvini, sempre secondo i documenti visionati da L’Espresso, ha ritirato altri soldi. Ancora quelli, seppur nella modica cifra di 500 euro. Un’ipocrisia che ha spinto l’avvocato di Bossi a scrivergli una lettera in cui lo diffidava dallo spendere il denaro che loro stessi – quelli della “nuova Lega” – avevano definito “corpo del reato”. Ma a questo punto era già chiaro che si era solo trattato di un’operazione di marketing: Salvini non solo sapeva – la notizia delle indagini su Bossi e Belsito è della primavera del 2012, il rinvio a giudizio è del 2014 – ma ha addirittura continuato ad aprire le vecchie casse del partito, ritirando parte dei fondi della discordia. Tutto questo mentre gridava allo scandalo contro la vecchia gestione.
Tornando al presente, alla decisione del tribunale del Riesame, Salvini dichiara di essere tranquillo, perché “Gli italiani sono con noi” – va anche in giro citando la Bibbia, con la minaccia “temete l’ira dei giusti”. Come se il consenso, o la percezione sondaggistica di un consenso, oltrepassasse le fondamenta della Legge. Lo stile ricorda le giustificazioni dei malavitosi, quando affermano di non essere dalla parte dello Stato ma di “proteggere” un quartiere, una città, e che i cittadini sono dalla loro parte. Oppure, a quello di Berlusconi, quando schivava le pallottole della giustizia rifugiandosi in mantra come “Sono stato eletto democraticamente dal popolo”, “La magistratura di sinistra ce l’ha con me”.
Se la difesa a oltranza di Salvini appare goffa ma inevitabile, risulta tragicomica quella del suo compagno di governo Luigi Di Maio. Il leader del M5S se n’è uscito con un laconico “I fatti risalgono ai tempi di Bossi, nessuna ricaduta sul governo”. Sì, si tratta dello stesso M5S che avrebbe impalato in piazza Ignazio Marino per due scontrini e una Panda in doppia fila, che ha chiesto la testa di svariati politici per uno starnuto, che ha già trovato e processato i colpevoli del crollo del ponte Morandi di Genova, dimenticando i concetti di garantismo e Stato di diritto. Potrà sembrare strano, ma ora che Di Maio è al governo con chi ha attinto alle tasche degli italiani per diverso tempo, ne va improvvisamente fiero. Forse l’esagerata percentuale di acqua nel suo corpo gli ha danneggiato la memoria.
Come è risaputo, in politica esiste sempre un escamotage per sottrarsi alle proprie responsabilità. Nel caso della Lega, la strategia dei vertici sembra sarà quella di salvare i versamenti che in futuro confluiranno nelle loro casse cambiando il nome al partito. Ne diventeranno, sulla carta, un altro – ma con le stesse facce e la medesima linea politica. Per non scomparire, per restare vivi seppur – per qualche elettore dotato di memoria – marchiati. Per quanto possa sembrare assurdo, il pubblico ministero di Genova Francesco Cozzi, ha già fatto capire che si tratterebbe di una soluzione sufficiente: “Di fronte a un nuovo soggetto giuridico completamente autonomo, non potremmo fare nulla rispetto ai versamenti futuri”. Una tattica già usata in passato, almeno per fini elettorali – e non solo dal Carroccio. Anche il partito che oggi conosciamo come Lega è giuridicamente diverso dalla Lega nord di Bossi, essendosi registrato per le elezioni del 4 marzo come “Lega per Salvini premier”. Il sentore destabilizzante è che il finto repulisti del partito verrà probabilmente accettato dal suo popolo – e anche da buona parte di quello dei Cinque Stelle, ormai appiattita sulla linea del Carroccio fino a cadere nel dimenticatoio, come la gran parte degli scandali politici italiani.
Salvini intanto sguazza in questo pantano che, per ora, non sembra scalfire di molto la sua popolarità. Per indossare le vesti del martire, del paladino degli italiani fermato dai poteri forti e dalla magistratura, rimarca questi aspetti del suo ruolo aggrappandosi all’urlo “Io non mollo,” ed è probabile che tutta la vicenda finirà col favorirlo. Come per la nave Diciotti, le sue forzature nei panni di ministro (forse reati, lo deciderà la giustizia) vengono trasformate in voti guadagnati, con la complicità del M5S e di un’opposizione-ameba ormai del tutto inconsistente. La sindrome di Stoccolma degli italiani affonda le sue radici in passati remoti e vicini, ma in questo caso raggiunge l’apice. È comprensibile che possa essere difficile rinnegare i propri pensieri, scendere da un carro che si credeva vincente o ammettere un errore. Ma qui ci sono 49 milioni di motivi per dire no, e non farsi prendere per il culo per l’ennesima volta.